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Autore: Never lose myself    02/03/2012    0 recensioni
Russia, anno 1991.
Una scia scarlatta spicca sul suolo innevato dei bassifondi della suggestiva città di Mosca.
Una scia che conduce alla vita di Iya Fonewo, sedicenne dall'esistenza travagliata e con le mani lorde del sangue della propria madre.
Perché qual'è la sottile linea che divide "giustizia" da "vendetta"?
Dedicata ad Alessandro, mio compagno di notti insonni.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Il quartiere povero di Mosca era un agglomerato di vecchi e cupi edifici, del tutto in contrasto con gli imponenti palazzi dalle cupole dai colori sgargianti, come la Cattedrale di San Basilio, per cui la capitale russa era nota, che nemmeno la neve che cadeva leggera dal cielo notturno ricoprendo ogni cosa con il suo candido mantello riusciva a rendere meno squallido. La fioca luce di un lampione filtrava attraverso i vetri rotti della finestra del pianerottolo di una palazzina così malmessa che c’era quasi da stupirsi che ci fosse ancora qualcuno disposto a viverci, illuminando seppur in modo molto tenue la porta d’ingresso di uno degli appartamenti.
Sul legno marcio e divorato dall’umidità spiccava un po’ sbilenco il numero in ottone che contraddistingueva un appartamento dall’altro, quello era il numero 2. Iya si infilò le mani intorpidite dal freddo nelle tasche dei logori jeans azzurri, sfiorò con le dita un pacchetto di sigarette e uno di quei banali accendini di plastica colorati per poi tirar fuori, dopo pochi secondi, una forcina per capelli. Con occhi critico ma nei limiti del possibile che la flebile luce del lampione le consentiva, esaminò con attenzione la serratura: era vecchia e leggermente incrostata dalla ruggine, ma non avrebbe di certo costituito un problema.
Con un sospiro mise la forcina nella toppa chiedendosi quante persone al mondo oltre a lei dovessero forzare la serratura di casa propria se volevano entrarci. Probabilmente nessuna.
La porta si spalancò poco dopo con un cigolio sinistro, più consono ad una di quelle vecchie ville in stile gotico dei film horror che ad un misero monolocale. Il familiare odore di fumo e alcol la investì in pieno, insieme ad un intenso profumo palesemente da donna così dolce e stucchevole da essere quasi nauseabondo.
Iya lanciò uno sguardo apprensivo all’interno del locale, salvo una tenue luce riflessa sui muri dall’intonaco scrostato, la luce della televisione, nell’appartamento il buio regnava come sovrano indiscusso, e con lui il silenzio.
Cercando di non turbare la momentanea quiete di quel luogo, trattenendo addirittura il respiro per fare meno rumore possibile, Iya scivolò silenziosa oltre la soglia, chiudendo la vecchia porta dietro di sé con tutta la delicatezza di cui era capace. Restò immobile per quasi un minuto per cogliere anche il più impercettibile dei suoni, ma nessuna luce si accese all’improvviso e nessun ticchettio di passi ruppe la seppur fittizia pace che in quella notte pareva vigere fra quelle quattro mura.
Si inoltrò nel grembo della casa con rinnovata attenzione, pensando con un pizzico di amarezza che nemmeno quando si introduceva per rubare nelle dimore altrui doveva essere così prudente, e si fece largo fra l’incredibile quantità di roba sparsa sul pavimento. Schivò e scavalcò ammassi di vestiti, gettati malamente al suolo senza fare distinzione fra sporchi o puliti, scatole vuote di cibo, mozziconi di sigaretta, lattine di birra accartocciate e bottiglie vuote di vodka, sentendosi un po’ come se stesse camminando in un campo minato.
Forse, pensò, con un po’ di fortuna Quella non si sarebbe nemmeno accorta che era rientrata. O forse, se di fortuna ne aveva davvero tanta, era così ubriaca o così strafatta da non rendersi conto che era mancata da casa per un paio di giorni.
Ma la dea bendata che è sì cieca ma pure capricciosa scelse proprio quel momento per voltare le spalle ad Iya, che calpestò i frammenti di vetro di una bottiglia rotta che nessuno si era degnato di raccogliere. Il rumore del vetro infranto quasi stonò nel silenzio del locale, un po’ come l’insistente squillo di un cellulare ad un concerto di musica classica.
“Merda…”
La luce si accese all’improvviso, gli occhi di Iya ormai avvezzi all’oscurità rimasero per un attimo spiazzati e ci misero un po’ per mettere a fuoco la figura di una donna che si reggeva a malapena in piedi sulle proprie gambe. La figura di sua madre.


Le persone con problemi di droga o di alcolismo hanno la meritata fama di essere individui instabili e incostanti. La madre di Iya era sia un’alcolizzata che una cocainomane, nonché di per sé un soggetto egocentrico, narcisista e piuttosto incline alla rabbia. Ma Iya, il cui benessere dipendeva dal volubile umore della donna, conosceva un metodo abbastanza efficace per prevedere le sue azioni e agire di conseguenza.
Non c’era trucco e non c’era inganno, ma solo una discreta capacità di osservazione che permetteva di capire cosa e quanta roba era in circolo nel suo organismo.
Sapeva per esperienza che quando era molto ubriaca o molto fatta non costituiva un problema né, tanto meno, una minaccia: nel primo caso si limitava a sbottarle dietro qualche insulto a casaccio (con immenso divertimento di Iya spesso le dava anche della figlia di puttana) per poi piegarsi in due in preda ai conati di vomito. Nel secondo caso, invece, la ignorava completamente, rimanendo anche per diversi minuti a fissare un punto non ben definito sul soffitto chiazzato dall’umidità, cosa che personalmente ad Iya andava benissimo.
I veri problemi sorgevano quando sia la droga che l’alcol venivano a mancare.
E sempre l’esperienza, ma ancor più i calci, i pugni e le cinghiate, le avevano insegnato che in quei casi era molto meglio non farsi trovare nel suo raggio d’azione. Se stava a debita distanza il massimo che lei poteva fare era lanciarle dietro qualche bottiglia di vodka vuota che, comunque, non raggiungeva mai il bersaglio.
Non fu dunque un caso se la prima cosa che Iya fece quando la luce improvvisa non diede più tormento alle
sue iridi chiare fu scrutare con occhio vigile la donna, cercando di capire in quale stato fosse.
Si soffermò in particolar modo sugli occhi lucidi e cerchiati dalle occhiaie, sul trucco sbavato e sui lunghi e sudici capelli castano scuro che incorniciavano un viso pallido e stravolto…Iya imprecò mentalmente, rendendosi conto che probabilmente non toccava una bottiglia e non assumeva nulla da almeno 24 ore.
La donna squadrò Iya con occhi colmi di disprezzo. Da che aveva memoria sua madre non le aveva mai riservato uno sguardo diverso da quello, ma non era certo il timore di essere guardata in quel modo che l’aveva spinta ad entrare in casa facendo il meno rumore possibile. Gli sguardi non ti lacerano la carne, non ti coprono la pelle di lividi e non ti macchiano i vestiti con il rosso del tuo stesso sangue. C’erano già troppe cose di cui Iya doveva aver paura, sarebbe stato stupido considerare una di queste qualcosa di astratto come uno sguardo. E poi, in fondo, per lei tutto ciò che non provocava dolore non era da temere veramente.
Le labbra impiastrate di rossetto scarlatto della donna si socchiusero leggermente, un sibilo acido risalì dal fondo della sua gola costantemente irritata dall’alcol ma le parole da cui era formato risuonarono ben chiare nel silenzio dell’appartamento.
- Dove sei stata? -
Iya alzò le spalle ostentando una noncuranza che non provava per davvero.
- In giro - rispose in tono vago, come se non ci fosse nulla di eclatante da aggiungere. La donna inarcò un sopracciglio, chiaramente poco intenzionata a farsi bastare la risposta imprecisa della figlia.
- E tu vorresti farmi credere di essere stata semplicemente “in giro” per due notti consecutive? Mi credi davvero così stupida? Ma io lo so dove sei stata per tutto questo tempo. Sei stata con quei pezzenti dei tuoi amici, non è così puttanella? -
Iya dovette davvero affidarsi a tutto il proprio autocontrollo per evitare di ribattere che Vanja, Sasha, Iljch e Vilen* forse erano sì dei pezzenti, ma che almeno tiravano avanti senza vendere la propria anima e il proprio corpo in cambio di una bottiglia di vodka o un po’ di coca da sniffare, e di farle gentilmente notare che delle persone presenti in quella stanza non era lei la puttana.
Sì, perché i soldi che prima bastavano, a stento ma bastavano, adesso non erano più sufficienti per sopperire il suo bisogno sempre maggiore di droga e alcol e quegli stessi uomini che prima le avevano procurato ciò di cui il suo organismo aveva così disperatamente bisogno in cambio di denaro ora avevano cominciato a farlo frequentando regolarmente casa loro e con essa il letto di sua madre.
Ad Iya quei tipi non piacevano e, ancor meno, le piaceva il modo in cui la guardavano. A dire la verità non le piacevano a tal punto che aveva chiesto a Vanja di darle una delle sue pistole e lui, seppur dimostrandosi estremamente riluttante all’idea di affidare un’arma ad una sedicenne, aveva accettato mettendole fra le mani una vecchia e maltrattatissima makarov. E lei non ci aveva messo molto prima di cominciare a considerare il peso della pistola nei jeans sdruciti come un qualcosa di piacevolmente familiare. Non che avesse mai avuto il bisogno di usarla, ma c’era un qualcosa di rassicurante nella certezza che in caso di necessità fosse lì a portata della sua mano. E anche in quel momento sentirla premuta contro il ventre, ben celata sotto una felpa decisamente troppo grande per lei, le infondeva una certa sicurezza.
La donna incrociò le braccia sotto al seno, spazientita. Un barlume d’irritazione brillò nel profondo dei suoi occhi scuri.
- Ti ho fatto una domanda -
Iya non era mai riuscita a spiegarsi come mai sua madre ce l’avesse tanto con Vanja e gli altri. Ok, erano figli di nessuno, un branco di cani randagi che per tirare avanti si azzannava con altri cani per un osso spolpato, ma se messi a confronto con la feccia che in genere appestava i vicoli di Mosca parevano quasi dei bravi ragazzi.
L’unica ipotesi valida che Iya si era fatta a riguardo era che la donna avesse il timore che lei andasse a vivere con uno di loro, smettendo di conseguenza di portarle i soldi che rubava. E, in effetti, il suo non era un timore affatto infondato. Più volte le era stato proposto di trasferirsi a casa di uno di loro, ma lei aveva sempre rifiutato ripetendosi che avevano già fin troppi problemi anche senza aggiungere anche se stessa al carico. Tuttavia il desiderio di rimanere il più tempo possibile lontana da quel monolocale e, soprattutto, da sua madre l’aveva spinta a passare alcune notti proprio in compagnia di uno di quei ragazzi, anche se Iya non avrebbe mai ammesso neppure a sé stessa di essere così debole da dover ricorrere ad un simile espediente.
Iya si inumidì le labbra screpolate dal gelo, gli occhi grigio cenere fissi sul volto ancora bello della donna seppur scarno e sciupato da anni e anni di vizi. Si mise le mani nelle tasche dei jeans e con voce carica di stizza sbottò:
- E anche se fosse? -
Lo schiaffo giunse all’improvviso. Violento, caldo, umiliante. Iya si sfiorò, incredula, la guancia lesa. Da mesi i movimenti di sua madre erano troppo scoordinati, troppo lenti per riuscire a colpirla. Con un pizzico d’orrore si rese conto che per esserci riuscita doveva essere completamente lucida.
- Non usare quel tono con me, stronzetta! -
Sbraitò lei e di nuovo la sua mano calò, spietata, verso la figlia. Ma Iya questa volta non si lasciò prendere alla sprovvista e indietreggiò, per poi fare uno scatto verso la porta d’ingresso.
Non aveva la minima intenzione di farsi riempire di botte, non quella sera. Sarebbe uscita da quel monolocale e si sarebbe rifugiata nel bordello di Vilen, dove era sicura di venire accolta senza correre il rischio di svegliare qualcuno. Sì, il bordello era un buon luogo dove passare la notte, in fondo i clienti non facevano mai caso ad una ragazzina esile e sporca con tutte le donne in abiti succinti che ci giravano e lei riusciva sempre a farsi qualche ora indisturbata di sonno sui divanetti.
Ma Dio o il fato che fosse aveva altri progetti per lei quella sera.
Sentì una mano afferrarle i capelli, il dolore lancinante alla nuca non tardò ad arrivare e la costrinse ad arrestare bruscamente la sua corsa. Iya si girò di scatto, giusto in tempo per vedere sua madre colpirla in volto con l’ennesimo schiaffo.
- Dove credevi di andare? Eh, piccola arrogante? -
Tenendola saldamente per i capelli le impose di abbassarsi al suolo, dove le diede un violento calcio nello stomaco. Iya si piegò in due conducendosi le mani al ventre in preda al dolore, ma nessun gemito, neppure il più sommesso, sfuggì dalla sua bocca. Nemmeno quando un secondo calcio si andò ad aggiungere al primo.
- Cos’è, hai già smesso di fare l’insolente? Sei solo un troietta codarda, ecco cosa sei! Mi vergogno di me stessa per aver generato una nullità simile… -
Inaspettatamente un sorrisetto beffardo affiorò sulle labbra di Iya, che con voce satura di sarcasmo ringhiò:
- Non dovresti. Mettere al mondo la sottoscritta è l’unica cosa utile che hai fatto in tutto il corso della tua misera vita… -
Un silenzio pesante calò nel monolocale.
Un po’ sorpresa dal fatto che non le avesse sputato addosso un’ampia serie di improperi, Iya alzò lo sguardo verso sua madre che, completamente immobile, la fissava con espressione indecifrabile. Ma quando mosse un mano e lo stupore di Iya si tramutò in paura nel vedere che stretto tra le sue dita dalle unghie smaltate di rosso teneva un piccolo ma affilato coltello.
“No!”
Non ebbe il tempo a chiedersi da dove diavolo lo avesse tirato fuori, né tanto meno di cercare di rimettersi in piedi e fuggire. Il braccio della donna calò implacabile verso di lei e lei non fece semplicemente nulla per evitarlo. D’altronde a cosa sarebbe servito? Sapeva benissimo che la porta era troppo distante perché lei la potesse raggiungere. Così rimase ferma, in attesa del dolore.
E il dolore arrivò. Un dolore straziante e rovente come non lo aveva mai provato prima e come desiderò di non dover provare mai più. Mentre la lama le incideva la carne viva un grido soffocato risalì dal fondo della sua gola e sangue rosso le colò dal taglio al collo dandole una curiosa sensazione di calore. Fu solo allora che con suo immenso stupore si rese conto che era la guancia destra ad essere stata lacerata. La donna si chinò verso di lei, con il coltello imbrattato di sangue stretto in pugno, e con un tono di voce tagliente quanto la lama di quello stesso coltello sussurrò:
- Così ogni volta che ti guarderai allo specchio quello sfregio ti ricorderà cosa succede ai pezzenti come te che osano alzare troppo lo sguardo da terra. E ringrazia il cielo che oggi io mi sia sentita così magnanima da lasciarti in vita… -
La guancia di Iya non sembrava voler smettere di sanguinare. Il colletto della sua giacca era ormai intriso da quel liquido scarlatto ed il taglio le bruciava terribilmente, ma nonostante ciò nei suoi occhi non c’era più il minimo segno di timore. La donna, forse turbata da un tale distacco, abbassò lo sguardo e impallidì. In un delle mani la figlia teneva una pistola con la canna rivolta verso di lei.
- Peccato. Perché io, invece, oggi non mi seno magnanima proprio per niente. -
Disse Iya quasi con dolcezza, poi premette il grilletto. Il colpo risuonò, assordante, per tutto il locale e un fiotto di sangue si riversò su di lei, al punto che in pochi secondi si ritrovò quasi completamente zuppa. Il cadavere della donna le era caduto addosso e lei lo spinse via con un moto di disgusto, l’odore ferroso del sangue, di tutto quel sangue, le fece venire un’improvvisa quanto intensa nausea. Si chinò in avanti, dando di stomaco sul pavimento.
L’aveva uccisa…aveva ucciso una persona. Si pulì la bocca con il dorso della mano, cercando di convincersi che aveva fatto bene, che Quella se lo meritava. E forse era davvero così, ma ciò non toglieva che lei, Iya, era responsabile della morte di qualcuno. Si fissò le mani lorde con cui stringeva ancora la makarov, lottando contro l’infantile desiderio di scagliarla il più lontano possibile da sé. Il dolore alla guancia non si era affievolito, così come il sangue non aveva smesso di sgorgare dalla ferita. E improvvisamente l’assoluta consapevolezza di doversene andare da quel luogo si fece largo nella sua mente. Unico pensiero chiaro in mezzo ad un turbinio di emozioni contrastanti.


Il fumo della sigaretta si levava, leggero, verso il cielo notturno in cui milioni e milioni di piccoli fiocchi di neve danzavano leggiadri al suono di una musica composta dal gelido vento invernale. Iya inalò uno sbuffo di fumo, stringendosi istintivamente nella propria giacca per proteggersi da quel freddo spietato e girandosi un’ultima volta verso la malmessa palazzina che per sedici anni aveva chiamato casa.
Notò un serie di gocce scarlatte sul pallido candore del suolo innevato, lì nei punti dove era passata lei. Ed ebbe come la curiosa impressione che non sarebbero più andate via, che sarebbero rimaste lì per sempre sotto gli occhi del mondo intero.
Era il 6 marzo dell’anno 1991 e di neve ne cadde molta, quella notte. Al giungere dell’aurora le tracce di sangue erano completamente scomparse sotto uno strato di neve fresca.

 

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Questo è uno spezzone della vita di Iya, la mia prima figlia di carta e inchiostro e personaggio a me particolarmente caro. E’ nata circa quattro anni fa e il suo è stato probabilmente il parto meno difficoltoso in tutta la storia dei parti. A voler ben vedere io non ho dovuto fare altro che mettermi il cuore in pace ed aspettare, sentendomi molto di più un padre seduto nella sala d’attesa del reparto maternità che aspetta che un’infermiera lo venga a chiamare piuttosto che una madre intenta a dare alla luce il suo primogenito. Lei ha preteso ostinatamente di fare tutto da sola, dimostrando fin da subito quanto poco fosse avvezza al farsi aiutare dagli altri e dandomi un primo assaggio di quella sua stramaledettissima superbia che l’avrebbe caratterizzata per tutto il corso della sua vita e che, mi duole dirlo, è un po’ anche la mia. Nemmeno il tempo di tagliarle il cordone ombelicale che già si era fumata due o tre sigarette, cominciando già la sua opera di autodistruzione dei polmoni che le avevo appena tanto gentilmente donato, fissandomi beffarda con quei suoi terribili occhi grigio cenere che parevano farmi mute promesse tutt’altro che piacevoli. “Ti renderò la vita impossibile” sembrava che volesse dirmi e, in effetti, in un certo senso, così ha fatto. Perché vi dico tutto questo? La verità è che ci tengo a farvi capire quanto scrivere di lei mi abbia cambiato la vita. Non so se pubblicherò mai qualcos’altro che racconti la sua storia, in effetti l’unica ragione che mi ha spinto a divulgare questo è il mio desiderio di dedicarlo ad una persona meravigliosa che, ironia della sorte, non ho nemmeno mai incontrato dal vivo. Questa è per te Alessandro, mio compagno di notti insonni, un mero ringraziamento per tutto il tempo che mi dedichi invece di studiare. Un grazie speciale anche a tutti voi che avete letto, soprattutto se avete sopportato anche i miei deliri di scrittrice innamorata dei propri personaggi XD.

 

* Vanja e Sasha sono i rispettivi soprannomi russi dei nomi Ivan e Aleksandr. Per quanto riguarda il nome Iljch, invece, l'ho trovato scritto in modi diversi. Poiché sono molto pigra non sono stata lì ad indagare su quale sia la versione giusta e ne ho usata una a caso u.u.

  
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