Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Ricorda la storia  |      
Autore: Narcis    02/03/2012    1 recensioni
Era rimasto l’unico nella casa del danese. Se n’erano andati via tutti. TUTTI.
In primis Svezia, insieme al suo caro Finlandia, la cui decisione non si sa bene se fosse stata davvero personale, costretta dalla compassione nei confronti di Berwald o, peggio, obbligata da quest’ultimo stesso.
Anche Norvegia, suo fratello, unitosi con Danimarca da fin troppo tempo per dubitare di una sua fuga, era sparito di punto in bianco, senza lasciar tracce. Si vede che proprio non ce la faceva più, per lasciare così il suo migliore amico /che, probabilmente, non era solo un amico, non so se mi spiego/. Ma abbandonare in egual modo il suo adorato fratellino minore, senza dire nulla, senza avvisare, senza nemmeno invitarlo a scappare insieme a lui,…
Insomma, Ice non c’era rimasto affatto bene, nonostante i rapporti con il maggiore non fossero proprio dei migliori.
Era la fine per Kalmar. Era la fine per il grande regno danese. Era la fine per tutto. E tutti.
Genere: Malinconico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Danimarca, Islanda
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
L’aria piatta e fredda, pungente come aghi di ghiaccio di una caverna polare desolata e inviolata dall’uomo, era carica di una tensione mai sentita prima, nemmeno nel periodo in cui l’esercito danese aveva attaccato l’area di Stoccolma, rendendo pesante e soffocante tutta l’atmosfera.
Non c’era nessun rumore apparente, se non quello del respiro affannoso dell’islandese, il quale, con la schiena contro il muro della stanza antecedente a quella in cui si era rinchiuso il danese, se ne stava a testa bassa ad attendere qualcosa di cui neppure lui sapeva bene l’entità.
Erano passate ormai enormi manciate di minuti da quando il biondo, avvolto da un silenzio funebre quasi inquietante, si era dileguato nella sua camera, quella gabbia d’oro che a suo parere lo proteggeva dalle intemperie del mondo, senza proferir parola alcuna.
Così Ice, l’unica anima viva in quella dimora oltre la presenza ingombrante e fastidiosa del re nordico, si era messo lì ad aspettare chissà cosa.
 
Era rimasto l’unico nella casa del danese. Se n’erano andati via tutti. TUTTI.
In primis Svezia, insieme al suo caro Finlandia, la cui decisione non si sa bene se fosse stata davvero personale, costretta dalla compassione nei confronti di Berwald o, peggio, obbligata da quest’ultimo stesso.
Anche Norvegia, suo fratello, unitosi con Danimarca da fin troppo tempo per dubitare di una sua fuga, era sparito di punto in bianco, senza lasciar tracce. Si vede che proprio non ce la faceva più, per lasciare così il suo migliore amico /che, probabilmente, non era solo un amico, non so se mi spiego/. Ma abbandonare in egual modo il suo adorato fratellino minore, senza dire nulla, senza avvisare, senza nemmeno invitarlo a scappare insieme a lui,…
Insomma, Ice non c’era rimasto affatto bene, nonostante i rapporti con il maggiore non fossero proprio dei migliori.
Era la fine per Kalmar. Era la fine per il grande regno danese. Era la fine per tutto. E tutti.
 
Si era svegliato, quella stessa mattina, nella sua stanza, dove vi era anche il letto del norvegese.
Le lenzuola destinate al biondo erano sparite, mostrando il morbido e niveo materasso a molle, leggermente macchiato di sangue indelebile e ormai vecchio qua e là. Anche i suoi effetti personali, o almeno quelli più importanti, erano svaniti: un antico libro tascabile di qualche strano incantesimo di antenati ormai decrepiti e divorati dai vermi sottoterra, un pugnale d’ambra leggermente ricurvo alla punta e gelosamente custodito in una protezione in pelle d’alce finemente curata, una catena dorata con la croce nordica come ciondolo, un rozzo e improvvisato anello di ferro regalatogli anni addietro da Dan in onore della loro prima unione /tempi antichi quelli, ne aveva uno anche Svezia/ ed infine un piccolo pezzetto di legno d’abete pieno di schegge, con intagliate sopra con accurata ma malriuscita precisione le parole “ég elska minn bróðir”, donatogli da lui stesso.
Giorni prima era successa la stessa cosa in camera di Sve e Fin, dei quali si erano perse le tracce definitivamente. Capì quindi che Nor aveva mollato, andandosene da quella tetra e fredda casa quale era quella del danese.
Tempo poche ore e Dan lo avrebbe scoperto.
Col cuore ristrettosi e ormai diventato cenere per la sofferenza e la mancanza degli altri, l’islandese non si perse completamente d’animo, preferendo dunque cercare di far finta di nulla. Decise però di non voler assistere al momento in cui il padrone di casa si sarebbe accorto della scomparsa del suo /adorato/ Nor, uscendo quindi a fare una passeggiata.
 
Ed eccolo infine, esausto sia fisicamente che psicologicamente per quella serie di avvenimenti accaduti in pochi giorni, con il respiro smorzato dal timore causato dalla consapevolezza che da lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di terribile; spalle al muro, testa bassa, muscoli tesi, tentata impassibilità estenuante.
La quiete che proveniva dalla camera del danese era a dir poco straziante, indecifrabile anche per il più stoico del tempo. Poteva benissimo dire tante cose contemporaneamente, quel silenzio, tutte errate o tutte giuste, oppure solo alcune, chi lo sa. Di certo non Ice.
 
Al di là della porta un tonfo, sordo, probabilmente attutito da uno dei numerosi tappeti d’orso della stanza del danese, squarciò il muto susseguirsi di attimi fuggenti, facendo sobbalzare leggermente l’islandese, che per un attimo si sentì come morire per chissà quale motivo.
Un segnale, forse? Pazienza. L’attesa è durata anche troppo a lungo.
Dan non si era fatto vivo fino a quel momento, e Ice non era stato da meno per tutto l’arco della mattinata. L’islandese, preoccupato sia per le sue conseguenze che per quelle del biondo, decise di fare il primo passo, facendosi finalmente vedere dall’altro.
Bloccato dalla paura, lentamente, staccò la schiena dalla parete della stanza, avvicinandosi sempre di più all’unico ostacolo che lo separava dalla grande camera del danese. Allungò una mano, tremante, verso la maniglia, esitando qualche istante prima di poggiarcela sopra e girarla, sempre cautamente, spingendo giusto quel poco per riuscire ad intravedere vagamente l’interno della camera da letto.
Non era sicuro di voler davvero venire a conoscenza dello stato d’animo del danese, visto il terrore che lo pervase tutt’insieme e che disintegrò quel briciolo di premura nei confronti dell’altro, un po’ come un tifone spazza via una bella casa costruita con impegno e fatica, distrutta in pochi istanti da qualcosa di inconcepibile fino a che non ne hai diretto contatto. Era sempre stato un tipo abbastanza timoroso, lui, sprezzante delle guerre e soprattutto delle sofferenze che, suo malgrado, era ormai abituato a vedere. Quella volta, però, si auto convinse che sarebbe stato diverso, che non sarebbe scappato come invece aveva fatto in molte altre occasioni. Voleva dimostrare di essere forte d’animo, sia a lui, che a Dan, che perché no anche agli altri, codardi a tal punto di essersene andati nel silenzio, come i gatti che se ne vanno a morir lontani, senza dir nulla a niente e a nessuno, probabilmente nemmeno a sé stessi. Così, praticamente d’un botto, aprì del tutto la porta.
 
Quello che vide non gli piacque affatto.
Nell’inverosimile buio della stanza, il cui soffitto in legno finemente intagliato e dettagliato era dipinto in oro, le cui pareti anch’esse del medesimo materiale ma del colore della corteccia di pino bagnata e vagamente marcia erano sprezzantemente state graffiate e rovinate dall’ascia del danese roteata in aria chissà quante volte, una figura vagamente familiare se ne stava ritta davanti alla finestra, che non dava a veder nulla del magnifico paesaggio esterno a causa della pesante e scura tenda che la copriva, quasi volesse nascondere qualcosa di proibito e troppo taboo per poter essere visto con semplici occhi “plebei”.
La debole luce di un unico piccolo candelabro acceso, sul comodino accanto al letto situato a due metri di distanza dalla schiena della figura tutt’altro che nuova, illuminava fiocamente la stanza, quasi avesse timore di mostrare per bene il macabro spettacolo che si prestava davanti agli occhi dell’islandese.
Perché, sì, da un lato quella era una vista raccapricciante.
Se si pensava a sedie e mobili di legno vari, graffiati e spaccati in alcuni punti, sparsi in tutto il pavimento come uomini feriti e cadaveri da arti e teste mozzate, caduti in campo di battaglia per qualche inutile ed egoistica guerra, c’era veramente da farsi venire i brividi.
E tra i corpi abbandonati di quegli inutili ammassi di schegge, visibile solo da chi sa osservar bene attraverso ciò che apparentemente gli occhi ci mostrano, un sudicio e malridotto pezzo di stoffa, squarciato e pestato ovunque, esibiva ormai a chi proprio era disperato da andar a cercare in mezzo a que’ cadaveri i suoi colori non più splendenti come un tempo, paragonabili in passato al rosso scarlatto degli indumenti di un cardinale e al giallo luminoso di un girasole in piena fioritura.
La bandiera dell’unione di Kalmar giaceva lì, dimenticata e strapazzata da tutto e tutti, segno che ormai quell’assemblaggio di nazioni apparentemente benevole e pacifico stava per cessare definitivamente, dissolto dall’egoismo e l’avidità di un unico individuo.
E quell’individuo non era altro che la figura di spalle all’islandese.
 
-Dan…?-
 
Lo chiamò con timore, Ice, che, chiudendosi la porta dietro di sé, fece i primi passi verso di lui, nonostante ancora qualche metro dell’enorme stanza li separasse quasi fossero due cariche di egual segno, intoccabili tra di loro.
L’altro non rispose. Rimase immobile, a fissare il paesaggio che non c’era, con sguardo assente, apatico, composto.
Non era certamente da Danimarca comportarsi così.
 
L’islandese si fermò a esattamente due metri dalle spalle dell’altro, rimanendo a testa bassa a fissare il pavimento, probabilmente nell’unico punto della camera dove nemmeno una scheggia di legno chiaro si distingueva nello scuro pavimento, assecondato dall’altrettanta scura moltitudine di pellicce di orso e animali vari, la cui carne era ormai finita da molto tempo negli stomaci dei nordici, probabilmente intenti a far festa per la proficua caccia di un pomeriggio passato a seguire tracce e orme dei possenti mammiferi delle lande desolate.
Passarono lunghi ed interminabili istanti in cui non nessuno dei due attaccò discorso.
Ice, di aprire di nuovo bocca, proprio non ne aveva voglia. Magari avrebbe irritato ancora di più il sicuramente già adirato danese, e ciò non sarebbe stata una buona mossa.
 
-…Tutti…-
 
Un mormorio biascicato irruppe nel silenzio, facendo sobbalzare nuovamente l’islandese, il quale però non osò rialzare lo sguardo verso il danese, che finalmente stava iniziando a parlare.
 
-…Se ne sono andati…tutti…-
 
Proseguì l’altro, il cui tono di voce sembrava proprio di chi non volesse credere alle proprie parole.
Di chi, avendo sempre visto il mondo tutto rose e fiori, non poteva minimamente credere a qualcosa di così spiacevole.
Di chi, soprattutto, non riusciva a capacitarsi del fatto che fosse stato proprio lui a far succedere ciò.
L’islandese, sebbene con non poco timore, si sentì in dovere di aiutare l’altro nordico ad aprire per bene gli occhi, magari cercando anche di fargli capire /nel modo più delicato possibile/ che ciò che era accaduto era tutta colpa sua.
O almeno, in buona parte.


-Sì, Dan. Se ne sono andati tutti. Ci siamo solo io e te qui.-
 
-…E te ne andrai anche tu…?-
 
-Eh…?-
 
Dopo quelle parole, il danese si voltò di scatto.
Sul suo volto non era dipinto il solito sorriso solare di chi non ha nessun pensiero in testa, e le luminose iridi blu oltremare avevano perso tutta la loro lucentezza, divenendo cupe e opache come mai nessuno aveva visto nel viso del re del Nord Europa.
Fissava dall’alto l’islandese che, sebbene non fosse basso, in confronto alla muscolatura e all’altezza del biondo assomigliava ad un nano albino dagli occhi viola anziché rossi.
 
-…Ti ho fatto una domanda. Rispondimi.-
 
-…-
 
L’islandese sapeva fin troppo bene che se le cose avessero proseguito per quell’andazzo per niente piacevole che avevano preso se ne sarebbe dovuto andare anche lui, a meno che non volesse morire schiacciato dalla prorompente presenza del danese.
Nonostante tutto, non rispose, probabilmente per pena nei confronti dell’altro, oppure per amor proprio.
Perché, certamente, se gli avesse risposto che presto avrebbe levato le tende anche lui, la furia di Danimarca si sarebbe quasi sicuramente scatenata, e l’idea non aggradava affatto ad Ice, il quale di certo preferiva mille volte rimanere incolume.
 
Con uno scatto talmente veloce da essere impossibile da prevedere, il danese diminuì ulteriormente la distanza tra loro due, afferrando e strattonando l’islandese per il colletto della camicia con violenza, quasi a volergliela strappare d’un colpo e farlo cadere all’indietro.
 
-Ti ho detto di rispondermi, cazzo!-
 
-I-io non…-
 
Non riusciva a parlare, le parole gli s’erano annodate in gola come tanti elastici raggomitolati e buttati là in una scatolina troppo piccola per farli rimanere in ordine. Gli occhi inumiditi vagavano fulminei per tutta la faccia del danese, in particolare soffermandosi su quelle grinze che la pelle aveva formato nel suo digrignar di denti, nel corrucciar di naso, nel tremolar di palpebra involontario, che tanto lasciava a vedere del suo nervosismo. Qualche piccola cicatrice qua e là, più chiara rispetto al resto del colorito del volto, interrompeva il rossore di rabbia, divampato sulle gote e sulle tempie di Danimarca a macchia d’olio. I nervi erano ben visibili ai lati degli occhi, sulla fronte, e la giugulare s’era gonfiata a tal punto da sembrare intenzionata a scoppiare da un momento all’altro, liberando sangue fresco e scuro, nei limiti del possibile. La vicinanza era tale da permettere all’albino di percepire sulla sua delicata e pallida pelle il respiro accelerato ed irregolare del danese, le cui narici si aprivano e si dilatavano manco fossero state quelle di un toro in piena arena, furibondo per non essere ancora riuscito, dopo vani tentativi, ad incornare quel benedetto pezzo di stoffa scarlatto.
Il terrore bloccava il povero islandese, troppo giovane per riuscire a ragionare come un adulto ed avere una quantità eccessiva di lucidità mentale, ma troppo grande per poter pensare ancora come un bambino, facendo il finto tonto di fronte a tutto quello che stava succedendo.
 
Ahh… Tenera, dolce, malinconica giovinezza.
Pura, casta, innocente. Perfetta, nella sua imperfezione.
Quando si è piccoli si vuole crescere, e quando si è grandi si vuole tornar piccoli.
Bada però che un bimbo diventa adulto; ma un adulto non diventa bimbo.
 
Aveva sempre desiderato esser trattato come un vero uomo, il giovane Iceland. E in quel momento, in quella stanza, con quel danese, era sottoposto alla prova definitiva: l’ultimo passo per dire addio all’innocenza, all’ignoranza infantile.
Lo sguardo severo ed iracondo di Danimarca era fisso su quello dell’islandese, come a volergli mettere soggezione per aspettarsi la risposta che voleva ma che, ahimè, non gli arrivò mai.
Stanco di aspettare e di sentir solo qualche ansimo di spavento dell’altro nordico, sollevandolo di peso per il colletto, il biondo avanzò di qualche passo, buttando poi il giovane sul materasso del grande e morbido letto, il quale, essendo fatto di legno, cigolò non poco per il peso improvviso. Islanda, convinto di stare per cadere a terra, chiuse gli occhi di scatto, mugolando appena e riaprendoli a poco a poco non appena la sua schiena cozzò contro le soffici pelli e pellicce che ricoprivano il materasso del letto e non contro il duro pavimento, come invece si aspettava.
E si pentì d’essersi privilegiato nuovamente della vista quando, ormai tirate su completamente le palpebre, si ritrovò sormontato dal corpo del danese, il quale teneva le ginocchia impiantate sulle coperte ai lati delle cosce dell’islandese e le mani a lato delle orecchie di quest’ultimo, come a volergli impedire la fuga. I loro volti erano nuovamente vicini, ma a parer del più giovane anche troppo, sentendo le labbra del grande nordico sfiorare le proprie quasi con timore velato e voracità contenuta.
 
-Non te ne andrai. Non anche tu. Sei mio, mi appartieni, mettitelo bene in testa.-
 
Le parole taglienti di Danimarca, seppur sussurrate, perforarono come trapani le orecchie del più piccolo, il quale dovette mordersi a sangue il labbro inferiore per smorzare un gemito che tentò di sfuggirgli dalle labbra non appena l’altro, abbassando il viso e inarcando la schiena, gli addentò il collo, a metà tra il volergli strappare la carne a morsi e il succhiargli la pelle manco fosse stata linfa vitale. Un attimo di dolore acuto, che riuscì a far emettere un ansimo all’islandese, e poi i segni rossi, incavati lì a lato, all’altezza delle tonsille, che probabilmente gli sarebbero rimasti per un bel po’ di giorni.
Una mano del danese scivolò giù, repentina, infilandosi senza esitazione sotto la camicia di Islanda, senza preoccuparsi di slacciarla e, ovviamente, di quei due o tre bottoni cuciti male che saltarono non appena il microbo spazio tra la stoffa aderente dell’indumento e il ventre dell’albino fu invaso dal possente palmo del biondo. Le dita continuarono a salire, lasciando carezze da brividi sul petto del giovane nordico, fino ad arrivare a stuzzicare una delle due sporgenze rosee inturgidite, in particolare quella situata vicino al cuore, che batteva e pompava sangue a mille, dando l’impressione di sfondare la cassa toracica da un istante all’altro.
 
-Hai paura di me adesso? Cosa hai intenzione di fare, eh? Non puoi scappare.-
 
Un altro morso, vicino al primo e molto più forte di quello precedente, scavò piccole fossette accanto alle altre, divenendo talmente rosse da far pensare a chi non avesse visto il resto della pelle lattea e perfettamente intatta dell’islandese che l’albino fosse affetto da una strana forma di morbillo.
Ancora un gemito scivolò dalla bocca dello sventurato, accompagnato da qualche prima e piccola perla salata che scivolò dagli angoli degli occhi, rigandogli le gote colorite.
Terrore, tremendo terrore.
Dolore, sofferenza, pena.
Incompletezza, debolezza, timore.
Incapacità di agire, parlare, ragionare. Immobilità.
Le braccia erano lì, lungo i fianchi, ferme, come se fossero improvvisamente diventate di piombo e quindi impossibili da muovere. Tentò più volte anche solo di storcere un dito, ma inutilmente. La paura aveva preso il sopravvento.
 
Solo quando la mano del danese, salita fino al petto, riprese a scendere sempre più giù, fino a sfiorargli il cavallo dei pantaloni, il giovane e spaventato Islanda, dandosi quasi ormai per spacciato e consapevole di star andando contro qualcosa a cui non sarebbe più riuscito a sfuggire, riuscì a sussurrare qualcosa, interrotto continuamente dai singhiozzi e dalle lacrime, che avevano ormai reso completamente acquosi i suoi occhi colmi di terrore.
 
-P-perché, D-Dan…?-
 
E con due semplici, faticate e balbettate parole, tutto si fermò.
Il danese si arrestò di colpo, come caduto in un’imprevista paralisi momentanea, e lo sguardo, vuoto, era fisso su quei segni rossi lasciati da lui stesso sul collo del povero islandese, ancora inumidito per i morsi di poco prima.
Il giovane nordico, dentro di sé sorpreso e sollevato dell’effetto che avevano avuto le sue parole, rimase fermo a sua volta, sotto il più grande, singhiozzando e respirando velocemente, con le tempie che dolevano e pulsavano per il sangue improvvisamente giunto ad esse per l’attimo di panico appena superato.
 
Poi, un incredibile accatastarsi d’un corpo sopra l’altro, una figura che schiaccia l’altra, due petti tremanti per il battito irregolare del cuore uniti come per farsi coraggio a vicenda: Danimarca cedette. S’accasciò sopra il fragile ed esile islandese, come privato tutt’un tratto delle proprie forze, forse per una qualche magia o maledizione, nascondendo il viso là dove non molto prima aveva azzannato la carne come una creatura feroce, e su cui, inaspettatamente, prese a lasciare due o tre leggeri baci, a fior di pelle, quasi con timore di poter dar fastidio o dolore al martoriato nordico, il quale non sapeva davvero che altro aspettarsi dopo reazioni del genere.
Scesero altre lacrime, ma non al giovane albino, bensì al danese, i cui singhiozzi invalidamente soffocati dall’orgoglio interruppero quello strano silenzio che s’era venuto a creare, sebbene solo per qualche istante. Le gemme acquose e calde bagnarono il già inumidito collo di Islanda, contro cui il maggiore premeva il volto, come per volerlo nascondere e soffocare dalla vergogna; dalla consapevolezza di aver fatto qualcosa per cui a nessuno avrebbe potuto implorare perdono, e a cui non avrebbe potuto riporre rimedio, né a suo favore, né a suo sfavore.
L’islandese, finalmente, riuscì, quasi d’istinto, a muovere le braccia, che portò, tremanti e con lentezza, dietro la schiena del biondo, stringendolo a sé, seppur con solo quella poca forza che gli era rimasta, prosciugata dagli attimi di terrore passati prima.
 
A dire la verità, Islanda sapeva il perché. Sapeva quale fosse la paura di Danimarca.
Il terrore dei potenti, la preoccupazione dei non deboli, di chi ha tutto ma che potrebbe ritrovarsi a mani vuote da un momento all’altro.
La paura di rimanere solo, abbandonato come un cane, dimenticato perfino da coloro di cui s’era fidato e, in particolare, che avevano riposto la fiducia in lui.
Sapere di aver deluso le persone a cui teneva, che nonostante i bruschi modi considerava davvero speciali, lo faceva stare male, fino al punto da portarlo, nel bene ma soprattutto nel male, a costringere il più piccolo ed ingenuo degli altri nordici a rimanere con lui, con o contro la sua volontà, con le buone o con le cattive.
A parte la presenza fisica, però, Dan non si rendeva conto di non essere solo.
Norvegia, Finlandia, Islanda e perfino Svezia erano la sua famiglia, coloro per cui avrebbe dato l’anima, e che essi stessi l’avrebbero data per lui, se ce ne fosse stata l’occasione. Anche se gli altri erano lontani, questo non significava che l’avessero dimenticato o che non sarebbero mai più tornati.
Solo che Danimarca non lo capiva. Troppo egoista, troppo materialista e possessivo per concepirlo.
Ma forse, e dico forse, il piccolo islandese, con le sue lacrime strazianti e le sue mancate parole, che non era riuscito a pronunciare per paura, aveva fatto aprire gli occhi al danese, che se ne stava lì, piangente come un bambino piccolo, insicuro ed indifeso, a differenza di quanto aveva dimostrato fino a poco prima.
 
Probabilmente, in quel momento, Danimarca era riuscito ad immaginarsi che la mattina dopo non avrebbe trovato il giovane Islanda nella sua stanza, ormai diventata mezza vuota per la mancanza di Norvegia. Non aveva però fatto come quest’ultimo; le sue cose infatti erano al proprio posto, in ordine come al solito. Il suo odore era ancora leggermente percepibile nell’aria, e sopra le lenzuola bianche del suo letto c’era un piccolo taccuino rilegato in pelle, chiuso da un pezzo di spago forse trovato tanto tempo prima per terra. Sapeva di vissuto, e nonostante fosse vecchio e un po’ spiegazzato qua e là si vedeva come fosse stato tenuto con cura, sicuramente con avidità e riservatezza, visto che era la prima volta che appariva davanti agli occhi di Danimarca. Islanda l’aveva tenuto nascosto, ormai era chiaro, e Dan non potè fare a meno di chiedersi che cosa vi fosse scritto di così tanto importante per essere preservato con così tanta premura.
Con passo lento e dondolante, il danese arrivò davanti all’ormai non più letto dell’islandese, prendendo con calma e delicatezza il taccuino. Slegò, sempre con molta attenzione, quel nodino fatto col pezzetto di spago, aprendo la prima pagina di quello che sembrava un diario: il Diaro di Islanda.
Non aveva tempo per leggerlo tutto, o meglio, non era nelle condizioni giuste, in quel momento. Troppe cose accadute troppo in fretta, era stanco ed assonnato. Decise così di passare direttamente all’ultima pagina.
Era vuota, ingiallita col tempo, e solo poche parole erano scritte con precisione proprio al centro, lì dove saltavano subito all’occhio, e l’inchiostro nero prevaleva sopra l’ocra della carta antica ma, stranamente, tutt’altro che stropicciata.
Parole che, per i giorni, i mesi e gli anni successivi, rimbombarono da una parte all’altra della testa di Danimarca, e gli impedirono di ricadere negli stessi errori /o meglio orrori/ fatti durante tutti quegli anni di falsa pacifica unione, durata forse anche fin troppo.
 
 
 
“Dopo la tempesta, spunta sempre l’arcobaleno.”
 
 
  
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: Narcis