[ Seven Days ]
【
七日
】
First day // morning.
Monday a.m.
月曜日朝
私はあなたが好きで、私は本当に、一日私はあなたが私になる
I like you, I really do, one day I will make you mine
Scrisse
con minuta precisione sul foglio bianco rubato dal quaderno universitario,
delineando i caratteri con estrema cura.
Teneva il foglio fermo sulla
valigetta, impedendo così di scuoterlo troppo; gli sbalzi impercettibili del
treno mattutino gli avrebbero causato dei piccoli errori insignificanti. Fuori
dal finestrino, il sole era avvolto ancora nelle nuvole invernali, coronando
l’aria di un grigio immerso nell’azzurro; pochi dei suoi flebili raggi
arrivavano agli occhi orientali –nonostante fossero azzurri- di Shou Amane,
impossibilitati ad avanzare per colpa della fitta barriera di gente quotidiana
stagliata lì, indaffarata nei suoi pensieri angosciosi ed ascoltando –con
conseguente espressione di nervosismo costante- il ritardo inaspettato causato
dalla neve.
In quel treno per Shinjuku, ogni mattina alle 7.21, Shou Amane si sedeva,
infagottato nella divisa blu, a sua volta coperta dal trench beige con la fodera
in pellicciotto, per iniziare una nuova giornata.
Non c’era giorno in cui nessuno notasse i due piercing che gli delimitavano in
modo circolare il labbro inferiore e i suoi capelli rossi; gli occhi azzurri
potevano essere passabili, ma i piercing e i capelli rossi no.
Ma lui, a 19 anni, non se ne importava più di tanto. Teneva stretta la sua
cartellina e, in una mano, il suo prezioso Foma rossiccio.
Sorrise pacatamente, lasciando che una piccola superficie di rosa gli adornasse
le guance.
Intascò il bigliettino sul quale aveva terminato di scrivere la frase e fissò
intensamente il telefonino; in quel piccolo aggeggio rosso era contenuto un
segreto che gli teneva in ostaggio il cuore.
Sul display esterno, una piccola striscia rettangolare, si stagliava una serie
di caratteri che imperlava l’importanza di quel lunedì 3 gennaio.
Γ1日目
First day」
Portò il cellulare
all’altezza del petto, socchiudendo gli occhi. Il piccolo delfino-campanellino
attaccato al cellulare come phonestrap gli ricadeva lucente sul palmo
chiaro, attirando su di sé l’utopica luce di quel Giappone appena sveglio, e già
indaffarato per dare il massimo.
In quel treno, ognuno aveva i suoi pensieri e la sua vita da svolgere, un ritmo
di vita costante. Se il cuore di Shou non fosse stato indaffarato ad amare, come
tutte le mattine -escludendo gli ultimi 3 mesi- si sarebbe soffermato su ogni
persona nel suo campo visivo, per provare ad immaginare la loro vita.
Con il volto leggermente inclinato e baciato a strisce da quel sole lontano,
Shou aspettò, in silenzio.
In quegli ultimi 3 mesi erano successe un’infinità di cose, così tante che la
mente del rosso si rifiutava di elencare in un ordine logico degno di uno
studente universitario del suo calibro.
Era tutto iniziato dalla sua passione per la letteratura; una passione non
comune tra i giovani come lui, ma che coltivava sin da studente delle
elementari. Seppur nei primi mesi di università era stato concentrato nello
studio a tal punto da dimenticare il mondo circostante –e diventando così come
le quotidiane vite che viaggiavano sul suo stesso treno, in attesa di iniziare
una nuova giornata- era riuscito a trovare del tempo per dedicarsi alla
letteratura.
Uscendo per una volta dalla sua coperta fatta di libri scaraventati in modo
irregolare, per curiosità si era diretto al pc e aveva cercato un gruppo di
letterati, o, perlomeno, di appassionati come lui.
Dopo poche ricerche, era riuscito ad introdursi in una chat.
Una chat online solo di notte, adatta a gente come lui.
夜明けの鐘
“Daybreak’s bell”
Le persone lì erano
amichevoli, molto probabilmente le uniche persone di mentalità aperta che Shou
avesse mai incontrato nella sua vita; si era trovato subito bene, a parlare
senza paura di ciò che lui più amava, sotto il nickname di
冬月,
Luna D’Inverno.
La notte stava attento a non farsi scoprire dai suoi genitori, limitando al
massimo il rumore dei tasti del portatile; spesso si ritrovava ad essere baciato
solamente dalla luce del computer, impallidendolo ancora di più. Questa continua
routine lo aveva portato a fargli germogliare su quella pelle anemica
impalpabile delle sottili occhiaie, che non giovavano di certo alla sua vita da
studente universitario di medicina.
Una persona in particolare l’aveva colpito, attirando la sua attenzione come un
magnete.
秋の歌,
letteralmente, Canto d’Autunno.
Se lo ricordava bene, che era il titolo di una poesia di Baudalaire; e tra tutti
i letterati nel Daybreak’s bell i suoi modi di fare l’avevano colpito nel
profondo, scuotendo in lui una sensazione che mai gli era capitata di rigettare
nelle sue opere.
Canto d’Autunno, che successivamente gli rivelò di chiamarsi Yukito Seiji,
aveva un carattere particolare: poteva essere talvolta distante, talvolta
vicino. Era questo quello che aveva attratto Shou: il disprezzo tra le parole di
Yukito che svaniva come neve fresca al sole.
Impressionato dal cuore che gli batteva ogni volta che incontrava il nickname,
gli aveva chiesto timidamente se avessero potuto contattarsi privatamente. Al
contrario di quanto il rosso si aspettasse, l’altro ricambiò con un pizzico di
entusiasmo, rispondendogli che era curioso di intraprendere un’amicizia con uno
come lui, che gli era risultato interessante.
Gli era risultato...interessante?
Shou gli diede immediatamente il suo numero di cellulare, incespicando tra le
righe della casella di posta elettronica tanti ringraziamenti confusi che
facevano di lui un giapponese di tutto punto. Alle tre del mattino se n’era
andato a dormire contento, tremando dalla felicità. Aveva affondato il capo
rosso nel cuscino ridendo, e si era addormentato fantasticando su come poteva
essere Yukito, se per caso si era innamorato.
Com’erano i suoi capelli, i suoi occhi, le sue labbra; quanti anni aveva?
Successivamente avrebbe scoperto che di anni ne aveva 16, ma ne dimostrava
almeno 19 se non di più.
Dopo un paio di mesi passati ad inviarsi messaggi per tutto il giorno, a
scoprire lentamente l’animo dell’altro, Shou aveva scoperto di essersi
innamorato.
Innamorato di una persona che non aveva mai visto, situata nella lontana Akita,
innamorato del suo pensiero, delle sue parole, della sua voce che aveva avuto
l’opportunità di sentire un’unica volta.
Dopo averne preso piena consapevolezza, Shou si era messo l’anima in pace.
Come avrebbe mai potuto una persona inverosimilmente bella come Yukito
innamorarsi di uno come lui?
Quella domenica notte, arrotolato nelle coperte del futon, si era raggomitolato
su sé stesso, stringendo l’apparecchio tra le mani. Aveva gli occhi lucidi e il
battito a mille, e nei suoi occhi ghiacciati si leggeva chiaramente
l’esitazione, la paura del rifiuto.
L’aveva scritto velocemente, senza badare a fronzoli o altro. Nella maniera più
spontanea possibile, si era ritrovato a scrivere “Yukito, penso di essermi
innamorato di te.” Con le lacrime che gli rigavano il volto, scivolandogli
sui tasti argento del telefono; una reazione che lui stesso non sapeva spiegare,
nello stesso momento in cui affondava il volto nel cuscino per ovattare i
singhiozzi troppo forti.
Accartocciato su sé stesso come un foglio bruciato, aveva aspettato a lungo la
risposta piangendo come un bambino, e come un bambino aveva a lungo fissato la
risposta che ora gli bruciava la retina, lo rendeva impotente e gli faceva
spuntare un sorriso senza significato sulle labbra.
Una risposta intrisa dell’animo impenetrabile dell’altro.
“Ti do una settimana per conquistarmi, da domani.
Buonanotte.”
Quella notte Shou non era riuscito ad addormentarsi, con la speranza che gli
bruciava tra i polmoni come una ferita fresca a contatto col sole.
Il treno si fermò, e riaprì gli occhi quando avvertì il sole oscurarsi a tratti
per via delle persone perennemente in movimento, ora impegnate a scendere.
Con le gemme ghiacciate socchiuse tra le palpebre, si alzò prendendo la
valigetta e si affrettò anche lui ad uscire dal vagone.
La neve scendeva veloce, accumulandosi silenziosamente sulle guance di Shou,
illuse che quelle guance anemiche fossero altra neve macchiata di labbra rosse.
Una vampata di vento lo colse all’improvviso, scompigliandogli i capelli rossi.
Fu costretto a cercare riparo sotto il primo porticato, ma nel bel mezzo
dell’azione si trovò a bloccarsi in mezzo a quella tempesta di neve; il
telefonino aveva vibrato.
Ignorando la neve che ormai gli imperlava i capelli, Shou sorrise, fissando il
messaggio puntuale come tutte le mattine. Sorrise, contro quella Shinjuku grigia
e impaziente, piena di gente impegnata unicamente a dare il loro meglio.
“おはようございます,
Shou-chan.”
E, senza che lui se ne
potesse accorgere, quel piccolo foglietto scribacchiato all’inizio del suo primo
giorno scivolò dalla sua tasca, violentemente scaraventato via dal vento.
S’incamminò incurante verso la Tokyo Medical University con la speranza
tra le dita, lasciandosi unicamente bagnare dalla neve che tanto gli portava
alla mente il suo Yukito.