Demonia alaudae
Kyoya stringeva tra le dita quel frutto con estrema
curiosità, gli occhi fissi
sulla superficie rossiccia, in alcuni punti più chiara e
aveva indubbiamente
paragonato quella piccola sfera a una stella media come il sole e le
macchie
solari sembravano corrispondere perfettamente con le parti
più scure di essa.
Il corpo sottile che fungeva come forziere delle curiose espressioni di
Hibari
si estendeva su delle lenzuola di un letto perennemente disfatto, un
letto
occupato per la maggior parte da due persone.
Aveva pensato più volte che lui non fosse l’unico
a subire quei trattamenti.
La cosa lo spazientiva non poco e con un gesto solitario
ritirò appena una
delle gambe scoperte dalle bianche coperte verso di sé,
piegando il ginocchio esiguamente.
La schiena –scoperta anch’essa- si addossava contro
lo schienale freddo con
tanta facilità che pareva essere una cosa naturale e
spontanea, addirittura una
dipendenza.
Le dita si protendevano alla base della mela, un frutto così
semplice quanto dato
per ovvio nelle sue curve. Con la tensione scattare tra le dita,
strinse il
pollice contro la mela, corrucciando la fronte di poco. Ci
rinunciò dopo,
quando il braccio si piegò, la fronte si distese di nuovo,
le palpebre si
schiusero silenziose e le labbra si schiantarono con noncuranza sulla
superficie di quel giocattolo tra le mani di un diavolo coperto da
bianche
lenzuola.
«Cosa trovi di tanto interessante in
un
frutto così peccaminoso?».
Asserì
la voce dall’accento mediterraneo
che si insediò tra le labbra chiare coperte
dall’involucro di quel frutto. Dino
decimo boss della famiglia Cavallone.
Le
iridi scure si dischiusero e la
mano scivolò pigramente; la mela rotolò con la
stessa intenzione della mela
procurata dalla dea della discordia
che scivolò sul banchetto degli dei: “Alla
più dea più bella.”
Hibari era la discrepanza più bella che potesse mai
germogliare nella mente di
Dino, così esile e sottile, come i fiori di sakura che tanto
esecrava.
Dino tramontò nella trappola dei suoi capelli corvini, nelle
iridi torve e la
pelle tenue.
Catturò nel palmo della mano il frutto caduto,
poggiò lo sguardo intriso d’
ilarità
sul nuovo oggetto basato sulla mano, scivolò subito dopo
senza interesse verso
le lenzuola in negligenza e solo attimi dopo captò i
polpastrelli distesi col
dorso della mano appoggiato sul tessuto.
Tanto puro pareva incoronato dalla
luce sottile, fievole, che tra le nuvole si spazia poggiandosi sulla
pelle
cerea.
Lo sguardo beato si trasformò in gelosia, un tormento.
Eppure la fronte di Dino era distesa, rilassata.
Il braccio si piegò in una mossa copiosa e in un modico
attimo perpetuo le
rosee si adagiarono alla parte già perita da labbra proibite.
Inaccessibili.
Solo
dopo Dino aveva capito quanto
un oggetto così banale potesse risultare singolare
tra le mani minute di quell’ameno demonio
consumato da tormenti nulli.
Anch’esso lasciò sfuggire il frutto tra le dita
con profonda trascuratezza;
gli occhi irremovibili esploravano, frugavano curiosi sulla sua pelle
nuda
martire.
La
mela morì sul pavimento, così
come le titubanze dissimulate tra le ciocche d’oro.
I passi si mossero da soli come dettati dal vento.
Kyoya socchiuse le palpebre al vento provocato dagli scatti troppo
veloci di
Dino e al riaprirsi lo sguardo senza alcun velo era vicino, collocato
lì
vicino, come una sentinella che dovesse vegliare a tutti i costi sul
sonno
tranquillo di cotante tenebre.
Kyoya decise di sorreggere quello sguardo con il proprio, vago e
desolato.
Dino avrebbe fatto qualsiasi cosa per avere quegl’occhi solo
su di te.
Impenetrabili.
«Non spostare mai i tuoi occhi da me».
La
sua voce fu nuova e i suoi polpastrelli fremevano.
Prese apatico il polso stretto, esile, donato da pelle chiara di
Hibari,
sostenne la mano con la propria, poggiando il dorso
dell’altro nel suo palmo e
le labbra si asciugarono all’incontrare le vene fin troppo
visibili al polso.
Mie.
Risalì l’intero avambraccio con estrema cautela,
lasciando il segno di sé sulla
pelle non più vergine.
Dino sarebbe andato all’inferno solo per sentire il profumo
della sua pelle.
Solo per sentirlo suo.
“Sii il mio carillon
fatale.”