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Autore: Nausicaa e Selvaggia    07/03/2012    4 recensioni
Un giovane e misterioso mercenario giunge su un pianeta dove sta per abbattersi la furia devastatrice della dea della distruzione, pronta ad annientare l'intero Cosmo. Si troverà così coinvolto nella lotta contro la terribile Athu e nella ricerca degli antichi sigilli per fermarla. Ma si renderà ben presto conto che il suo compito prevede molto di più...
Questo lavoro nasce dalla collaborazione tra Nausicaa di Stelle e Lady Selvaggia.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo I




Lo spazio pulsava come una creatura viva, scrutando con milioni di occhi l’astronave che osava solcarlo, temeraria. Ben pochi umani della Federazione Terrestre e Delle Colonie Unite s’erano spinti tanto lontano e ancora meno erano quelli che avevano fatto ritorno. Il capitano della Cerbero sapeva bene che questo non sarebbe stato il loro caso: per riuscire in quest’impresa, dalla quale contava di ricavare una fortuna, aveva assoldato una delle migliori guide spaziali in circolazione. Per il suo lavoro si faceva pagare profumatamente ma considerando che avrebbe dovuto essere contemporaneamente anche la loro scorta armata e che non erano riusciti a trovare nessun altro giunto fino al settore “double Z”, il punto più lontano dal pianeta Terra segnato sulle mappe spaziali, potevano ritenerlo un buon investimento. E, come qualcuno dell’equipaggio aveva suggerito, anche un’assicurazione sulla vita.
Il capitano Anton Tersky lanciò una cupa occhiata alla loro guida, che se ne stava in piedi di fronte a lui, braccia incrociate sul petto e sguardo fisso oltre lo schermo della sala comandi: era difficile dire se fosse solo boria, ma era incredibile come quel ragazzo riuscisse ad orientarsi ad occhio nudo nelle profondità del cosmo, contando solo sulla propria memoria e su qualche stella di riferimento. La bocca di Tersky s’incurvò in una smorfia involontaria al pensiero di aver affidato la propria vita e la riuscita dell’impresa nelle mani di un ragazzo così giovane. Ma cosa può importare l’età quando si vaga da sempre di stella in stella e si maneggia ogni tipo di armi con la precisione di un killer? Il capitano sogghignò, rassicurato: era soprattutto per quell’abilità che si era deciso ad assoldare Ayron senza fare altre domande. Gli era bastato vedere la velocità con cui, durante il loro primo colloquio sulla stazione spaziale interplanetaria, aveva estratto la pistola appena il vicecomandante lo aveva definito “solo un ragazzino”. Nonostante la giovane età era piuttosto alto, al contempo snello e muscoloso. Le mani, lunghe ed affusolate, erano fasciate dai guanti in pelle nera. Dello stesso colore erano anche la tuta e gli alti stivali. Sul volto dalle forme regolari, dove i tratti della fanciullezza si mescolavano a quelli della virilità, spiccavano due intensi occhi nocciola. Erano gli occhi di un predatore, nei quali brillava una luce inquieta, simile al palpito delle stelle ed erano spesso oscurati dall’ombra della fluente chioma castana, che ricadeva disordinata, rendendoli profondi e misteriosi.
Da alcune ore l’equipaggio navigava a vista a causa delle interferenze alla strumentazione di bordo provocate dalla densa nebulosa che stavano attraversando. Tuttavia il pensiero che fosse l’ultimo ostacolo fra loro e l’agognato Eldorado, il pianeta X0, bastava a rendere la situazione decisamente sopportabile a tutto l’equipaggio: dopo molte settimane di tranquilla navigazione una sorta di euforia si era diffusa a bordo alla notizia dell’imminente sbarco.
Il capitano si alzò dalla sua postazione al centro della sala comandi. Accarezzò con un gesto distratto Minosse, il fedele dogo nero cyborg che se ne stava accucciato accanto a lui, e si avvicinò ad Ayron che gli dava ancora le spalle, scrutandolo con una furtiva occhiata. Lo sguardo penetrante di quel ragazzo, così simile a quello di un falco che stringe il cerchio sulla preda, riusciva a metterlo a disagio e preferiva non avere i suoi occhi puntati addosso mentre gli parlava. Così, ostentando indifferenza, attaccò il suo discorso senza guardarlo.
- Sei sicuro di ricordare bene dove si trovano i giacimenti di cui ci hai parlato? Non siamo venuti fino a qui per perdere tempo in inutili ricerche. - la voce di Tersky era baritonale e l’internazionale che parlava, la lingua comune adottata da tutti i popoli membri della Federazione, terrestri o alieni che fossero, aveva un vago accento che ricordava l’antico idioma russo.
Ayron volse appena di lato la testa, gli occhi nocciola ombreggiati dalle ciocche della folta chioma che gli ricadevano sulla fronte, e fissò il volto granitico del comandante, che si sforzava di non tradire emozioni. Ecco di nuovo quella spiacevole sensazione di essere il bersaglio di un uccello rapace.
- Non vi preoccupate, capitano: fra poche ore atterreremo direttamente sopra il vostro amato giacimento. - rispose con voce tagliente. Era evidente che l’osservazione lo aveva irritato.
Ayron girò sui tacchi e si diresse verso la porta blindata della sala comandi, che si aprì allo stesso modo in cui si scioglie un gioco ad incastri. Si fermò sulla soglia, una mano posata per abitudine sulla pistola.
- Chiamatemi quando avvisterete il pianeta X0. - suonava più come un ordine che come una richiesta.
La porta si chiuse alle sue spalle modulando tre diversi clangori metallici.
- Che tu sia maledetto... - sibilò Tersky a denti stretti, augurandosi di potersi sbarazzare di lui il prima possibile.

I corridoi dell’astronave erano illuminati fiocamente e delle piastre a led del soffitto solo una su due era accesa, quasi che una simile strategia potesse aiutare a risparmiare energia. I passi del ragazzo riecheggiarono freddi in quel vuoto mentre si dirigeva verso il deposito delle armi, situato poco lontano dalla stiva. Lì vicino si trovavano anche i poderosi mezzi meccanici che li avrebbero aiutati nell’estrazione dei minerali: escavatrici, ruspe e gli ultimi ritrovati della tecnica in fatto di esplorazione fluviale presto avrebbero segnato quelle montagne incontaminate con cicatrici indelebili, capaci di ricordare per sempre l’arrivo dei conquistatori della federazione terrestre. Ayron sospirò, serrando gli occhi per un istante: quanto desiderava che tutto questo non dovesse accadere. E invece era stato proprio lui a condurli fin lì, fornendogli la giusta rotta per un pianeta che fino ad allora non era mai stato possibile collocare con precisione sulle mappe spaziali grazie alla protezione offertagli dalla nebulosa. Si fermò di fronte al pannello di controllo e digitò velocemente la combinazione del deposito armi: era la prima volta che ci metteva piede ma prima di scendere doveva controllare il perfetto funzionamento dell’attrezzatura che si sarebbe portato a terra.
Un rumore sonoro e strisciante, come di metallo che viene trascinato, lo fece voltare di scatto, la mano che fulminea impugnava la pistola: non c’era nessuno. Solo una porta, sull’altro lato del corridoio, con la sua minuscola feritoia posta sulla sommità pareva osservarlo con insistenza. Udì di nuovo quel rumore e un lamento, lontano e soffocato. Inarcò le sopracciglia, sospettoso e mentre si avvicinava la sua mente già componeva i tasselli di quelle informazioni in un minuscolo mosaico. Spiò dal pertugio e nel buio vellutato una sagoma si disegnò sempre più chiaramente: due braccia levate, sorrette da pesanti e corti catene che pendevano dalla parete di fondo; qualcosa di scuro, forse sangue incrostato, formava sottili rigature sugli avambracci ed una folta chioma corvina non permetteva, nell’oscurità circostante, di distinguere la testa reclinata sul petto. Doveva esserci anche un’altra catena che serrava la caviglia sinistra poiché riusciva a scorgere un lucore d’acciaio dai contorni intrecciati snodarsi sul pavimento. Più fissava quella sagoma e più si rendeva conto di quanto era esile, quasi consumata.
Picchiò più volte con due dita sulla porta blindata, cercando di fare il più piano possibile per non essere udito da qualcuno dell’equipaggio, finché la sagoma levò la testa. Gli occhi di Ayron, che s’erano ormai abituati al buio, non faticarono a distinguere il volto di un ragazzo: non doveva avere più di quattordici anni. Due occhi febbricitanti luccicavano in quel viso esangue e parevano implorare la luce. Bastò quello sguardo e in un istante la collera montò nel cuore di Ayron. Le parole gli si annodarono in gola e sulle prime la voce gli uscì roca, mentre si sforzava di tenerla abbassata.
- Ehy, mi senti?
Sembrava che gli occhi del ragazzo faticassero a fissarsi sui suoi, come se non lo vedessero, tuttavia trovò la forza per rispondere.
- Chi... sei? - chiese con voce arrochita. La gola doveva essere arsa.
- Che ti è successo, perché sei rinchiuso qui?
- Io... vi ho detto la verità... Non so come arrivare su quel pianeta. - alla risposta del ragazzo tutte le tessere andarono a posto: erano stati Tersky e i suoi uomini a catturarlo, per ottenere informazioni simili a quelle che lui stesso gli aveva fornito. Cercavano così avidamente oro e diamanti da essere disposti a qualunque cosa, persino a torturare un ragazzo indifeso pur di raggiungere il loro scopo. Probabilmente, se non avessero avuto bisogno di una scorta oltre che di una guida, avrebbero tentato di fare lo stesso anche con lui. In quel caso però sarebbe stata un’impresa ben più ardua.
- Non temere, non sono uno degli uomini di Tersky, sono un amico. Dimmi, come ti chiami?
Nonostante la febbre lo divorasse e contrariamente a quanto Ayron si aspettava, il ragazzo era lucido. A quelle parole lo fissò, con un bagliore di vita negli occhi spenti, pienamente consapevole di trovarsi per la prima volta di fronte ad una possibilità di salvezza. Eppure parve rinunciarvi subito.
- Non vuoi dirmi il tuo nome? Puoi fidarti di me, non ti farò del male: voglio aiutarti. - insistette Ayron.
- E’ troppo tardi.
- No, affatto! Fra poche ore arriveremo a destinazione e sarà il momento più adatto per tirarti fuori di qui!
- No, rischieresti... di farti uccidere per niente. - la testa del ragazzo si abbassò, perché ormai anche solo tenerla sollevata gli costava troppa fatica.
- Sciocchezze! So bene quello che faccio. E non ti lascerò a marcire in questa cella. - replicò Ayron con veemenza. - Aspetta il mio ritorno, ti porterò via.
Si guardò attorno con circospezione: i corridoi erano sempre bui e immoti.
- Non posso restare oltre: qualcuno potrebbe venire fin qui e per il momento non è il caso di destare sospetti. Ma tornerò presto, hai la mia parola!
Il ragazzo protestò ancora per farlo desistere, la voce sempre più fioca ma Ayron, dopo altre rassicurazioni, si allontanò dalla cella e ritornò nel deposito. Non solo avrebbe controllato che le armi che gli occorrevano fossero perfettamente funzionanti ma si sarebbe anche premunito di portarsi direttamente in cabina e poi a terra un fucile modulare NB1 e un’ampia riserva di munizioni, esplosivo e bombe a mano, oltre ad un buon machete: un’attrezzatura da guerriglia nell’eventualità che, al momento opportuno, fosse necessario coprirsi la fuga. E, del resto, dovendo sbarcare su un pianeta abitato e potenzialmente ostile nessuno avrebbe pensato che era una tenuta eccessiva e sospettare qualcosa.
Quando, alcune ore dopo, la voce del capitano Tersky gli comunicò dagli altoparlanti che avevano avvistato il pianeta, Ayron era ancora furente per quanto scoperto e dovette ricorrere a tutta la sua forza di volontà per dominarsi a sufficienza tanto da riuscire ad affrontare le disgustose facce dell’equipaggio. Entrò in sala comandi, trovandoli tutti schierati al gran completo, accompagnato da un’aura più oscura del solito e si avvicinò al comandante e al suo secondo, piantati di fronte allo schermo, apparentemente persi nella contemplazione dell’immensa distesa di giada e turchese che stavano sorvolando da pochi minuti. Era una visione da mozzare il fiato e Ayron provò di nuovo la stessa emozione che l’aveva colto la prima volta che era arrivato sul pianeta X0. Un continente verdeggiante di foreste scivolava sotto di loro, a migliaia di chilometri di distanza, circondato da un oceano di un blu profondo e percorso da fiumi scintillanti nel primo sole del mattino, emergenti a tratti oltre la vegetazione rigogliosa. Nonostante le dimensioni, il continente aveva una forma allungata e flessuosa, come un delicato abbraccio proteso a circondare una parte del pianeta. Le coste erano aspre e frastagliate e una moltitudine di isole vi facevano corona tutt’attorno.
Gli schermi della plancia di comando restituivano, vivido e reale agli occhi dei presenti, quel mondo incontaminato, anche se solo uno di loro era veramente capace di apprezzarlo. Così, mano a mano che avanzavano verso est, videro la foresta farsi più rada e i fiumi diminuire di portata, pur restando ampi e talvolta impetuosi nel loro lungo corso verso il mare. Ad un tratto, spostata verso nord rispetto alla loro rotta, comparve un’ampia distesa pianeggiante priva di foresta e divisa in appezzamenti regolari di terreno. Alcuni erano delimitati da fossati e lunghe siepi, in altri cresceva già il raccolto che ondeggiava pigramente al tiepido sole del mattino. Al centro di quest’ampia zona coltivata sorgeva una città, circondata da due cerchie di mura, delle quali la più esterna cingeva nel suo abbraccio protettivo gli ultimi campi. Il cuore della città s’innalzava su di una zona sopraelevata, attorno alla quale il resto dell’abitato si espandeva come la corolla di un fiore, ed il centro di questo cuore era una costruzione svettante come un obelisco, simile ad alabastro nella sua candida bellezza. Attorno ad essa erano disposti a raggiera, quasi a farle da scudo, una serie di dodici edifici, più bassi ma non meno imponenti. L’alba ne tingeva di scarlatto e oro i contorni taglienti e le forme si facevano evanescenti nel forte controluce.
La città era circondata in ogni direzione dalla foresta, ma mentre ad ovest era folta e selvaggia, verso sud diradava in una vasta prateria che si faceva rapidamente brulla, costellata solo qua e là da pochi alberi, finché anche questi non scomparivano del tutto, lasciando il posto ad erba bassa sempre più rinsecchita. Infine, a molti chilometri di distanza, la prateria diveniva un deserto, prima roccioso e poi sabbioso, increspato da dune rossastre del tutto prive di vegetazione. Anche a nord la foresta era meno intricata e s’indovinavano traccie di strade al suo interno, lasciando supporre la presenza di altri insediamenti più lontano, probabilmente in rapporto commerciale con quella città. In distanza, disposte da nord ad est, gigantesche montagne sembravano sorvegliare, quali sovrumani guardiani, quella terra non ancora ridestatasi dal sonno della notte. Ma a nulla di tutto questo stava andando incontro la Cerbero: né le vaste praterie, né le possenti montagne, né tanto meno il deserto insidioso erano la sua meta. Il suo viaggio sarebbe infatti terminato ad oriente della città, dove l’attendevano le prede tanto agognate: una schiera di colline, ancora scure contro il sole, ricche di minerali preziosi.
- E quella laggiù? - domandò ad un tratto Tersky, quando vide improvvisamente apparire l’insediamento abitato sugli schermi.
- E’ una città. - rispose Ayron in tono piatto.
- Lo vedo anch’io che è una città! Ma è abitata?
- Mi stupirei del contrario. - replicò, sempre con lo stesso tono indifferente.
Tersky grugnì, masticando qualche maledizione, poi aggiunse a denti stretti, senza degnare Ayron di uno sguardo:
- Dai al pilota le coordinate per il giacimento: i miei uomini sono impazienti di atterrare. - le sue parole furono accompagnate dalle esclamazioni di giubilo dell’equipaggio.
Senza parlare, Ayron si accostò al pilota, spostò la sedia con il suo occupante dalla postazione e con pochi tocchi impostò la rotta, inserendo il pilota automatico. Il solo pensiero di rivolgere la parola a uno di loro lo faceva vomitare, ma il vice comandante Dragoin non parve apprezzare.
- Cos’è, hai intenzione di tenere segreta l’ubicazione del giacimento? - lo schernì mentre tornava vicino a loro - Non farti illusioni, non potrai guadagnare un’altra montagna di soldi come hai fatto con noi, accompagnando qui altre astronavi: le coordinate non sono secretate e appena atterrati comunicheremo la nostra posizione alle altre navi della compagnia. Non riuscirai più a fare questi giochetti, ragazzino!
Aveva ancora la “o” attaccata al palato quando la pistola di Ayron gli baluginò davanti agli occhi, andando a piantarglisi in mezzo alla fronte. Il contatto freddo con il metallo lo zittì all’istante.
- E’ la seconda volta che mi chiami “ragazzino”. Alla terza ti sparo. - gli sibilò, fissandolo dritto negli occhi come se volesse ipnotizzarlo. Dragoin deglutì, mentre un sudore freddo gli scorreva lungo le tempie.
- Ehy, abbassa quell’arma! - intimò Tersky, avvicinandosi. All’udire la voce concitata del suo padrone, Minosse iniziò ad abbaiare e ringhiare, puntando le zampe anteriori.
Ayron eseguì l’ordine con calcolata lentezza, sotto gli sguardi tesi del resto dell’equipaggio.
- A cuccia Minosse, a cuccia! - sbraitò il comandante e subito il cane si zittì uggiolando. - Via, cosa sono queste reazioni spropositate? Non vogliamo certo rovinare un bel momento con qualche spiacevole incidente, vero? - La voce di Tersky non era mai stata così carezzevole. Fece per posare una mano sulla spalla di Ayron, ma il giovane gli bloccò il braccio con il polso, senza neppure voltarsi.
- Dia ordine ai suoi uomini di prepararsi allo sbarco. Vi aspetto nella zona di scarico. Avete quaranta minuti. - si avviò rapidamente verso la porta ed uscì.
Il capitano guardò il suo vice, impegnato ad asciugarsi la faccia e con gesto eloquente si fece scorrere un dito sulla gola, indicando la porta con un cenno della testa.
Stavo per sparagli, ma questa volta era per un altro “ragazzino”... Per quello che se ne sta rinchiuso in cella da chissà quanto tempo, probabilmente da ben prima che io salissi a bordo. E non mi ero accorto di nulla! Ayron arrestò la sua marcia furente per tirare un pugno contro la parete del corridoio alla sua destra.
- Dannazione! Mi sento responsabile...

Discesero in una vallata pietrosa e soleggiata, coperta di erbe e fiori di svariate specie e coronata da verdeggianti colline che si estendevano per chilometri in lontananza. Più oltre s’innalzavano monti dalle bianche cime, simili ad avorio nella loro preziosa bellezza. Ad ovest, invece, intricata e misteriosa, stava la foresta, dalla quale gli uomini avevano prudentemente deciso di tenersi a distanza. Almeno per il momento: molto presto infatti sarebbero state le ruspe ad aprire loro un’unica via, ampia, diritta, verso lo scrigno di tesori intravvisto in fase di atterraggio: quella città misteriosa che ai loro avidi occhi era apparsa colossale in mezzo alla natura incontaminata e millenaria.
Con furia febbrile, tutto l’equipaggio si gettò nell’opera di estrazione mineraria. Ayron li condusse sul fiume dove, nel corso del loro primo colloquio, disse di aver trovato numerose pagliuzze d’oro che scintillavano nella corrente: fu quello il primo punto da cui iniziarono le ricerche. Ma non fu l’unico: tutti i mezzi atti allo sfruttamento minerario che si trovavano a bordo vennero visto che era stato deciso di saggiare più zone contemporaneamente, a partire dalle pendici delle colline fra le quali scorreva il fiume, alla ricerca di filoni superficiali. In tal modo l’opera di devastazione fu ampia, progressiva e incessante, proseguendo per ore e ore con il favore della luce del sole, sorto da poco al momento dell’atterraggio. Gli uomini sembravano non sentire la fatica e del resto la tecnologia sofisticata di cui erano dotate le loro attrezzature e l’ampia automazione consentiva loro di non fare grandi sforzi fisici. Come previsto dall’accordo, Ayron aveva il compito di sorvegliare la zona: appostato al limitare della foresta avrebbe dovuto fermare eventuali belve o nativi che fossero giunti a disturbare i lavori, mentre un paio degli uomini di Tersky facevano la ronda ai margini della spianata dove il resto del gruppo era al lavoro.
Ma Ayron era impaziente: il pensiero di quel ragazzo lo tormentava, eppure doveva attendere che tutto l’equipaggio fosse così impegnato nel lavoro da non avere occhi per controllare se lui fosse ancora al suo posto. Furono ore interminabili ma alla fine il momento venne. Una delle pendici collinari era stata fatta brillare, rivelando la sezione di un filone aurifero dalle dimensioni impressionati. In un attimo tutti gli uomini lì attorno balzarono dalle ruspe o abbandonarono la perlustrazione del fiume per accorrere ad ammirare il risultato. Senza pensarci due volte, anche i due che facevano la guardia vicino alla foresta corsero sul posto, forse per quantificare di persona i futuri guadagni. Ayron seguì la scena da lontano, con un solo pensiero nella mente.
Ora o mai più.
Acquattandosi come un predatore, abbandonò la sua postazione, indietreggiando fino a riguadagnare l’astronave. A bordo regnava un’assoluta calma, così diversa dal fragore dell’esterno. Ayron sapeva di avere i minuti contati perciò fece di corsa i corridoi che lo separavano dalla cella. Si bloccò solo davanti alla porta e picchiò per richiamare l’attenzione del ragazzo, mentre con lo sguardo frugava all’interno cercando di distinguerne la figura.
- Sono tornato, mi senti? Sono venuto a liberarti! - prese ad armeggiare con la serratura, applicandole con poche ed esperte mosse un e-picklock, un grimaldello elettronico capace d’individuare la combinazione con cui era chiusa la porta in dieci secondi al massimo. Ma nessun suono proveniva dall’interno. Ayron guardò di nuovo: il ragazzo era immobile nella stessa posizione. Imprecò, mentre la porta si apriva. Si precipitò dentro, inginocchiandosi accanto a lui, mentre con una mano gli sollevava la testa. Il ragazzo emise un lamento soffocato: pareva che tentasse di riaprire gli occhi.
- Mi hai fatto prendere un colpo. Ora diamo un’occhiata a queste. - si alzò, afferrando con le mani entrambe le catene per valutarne l’attaccatura, quindi estrasse la pistola e sparò due colpi in sequenza. Crollarono a terra come serpenti decapitati ed Ayron provò una sadica soddisfazione, quasi che davanti a lui ci fosse stato Dragoin. Fece lo stesso per quelle che bloccavano le caviglie, quindi tornò ad inginocchiarsi accanto al ragazzo. Lo sferragliare al suolo delle catene, più che il rumore silenziato degli spari, lo aveva destato del tutto, ma era chiaro che faticava a mantenere uno stato di veglia. Per brevi istanti i loro sguardi s’incrociarono.
- Perché... sei venuto? - la sua voce era bassa, quasi spenta, provata dalla sete. - Se ti trovano qui...
- Non mi troveranno: non c’è nessuno a bordo. - tagliò corto Ayron, che stava dando una rapida occhiata alle numerose ferite, partendo da quelle alle braccia e arrivando fino all’addome.
Sugli avambracci c’erano dei tagli ormai quasi del tutto cicatrizzati ma i polsi sanguinavano ancora per via delle ulcerazioni prodotte dai ceppi delle catene. Nessun indumento gli copriva il torso e anche lì c’erano tracce di vecchie ferite, alcune delle quali parevano infette, a cui se ne aggiungevano di nuove, il tutto accompagnato da ecchimosi più o meno recenti.
- E questa? - esclamò mentre le sue dita si bagnavano di sangue fresco: il fianco sinistro era lacerato da un lungo taglio obliquo e slabbrato che nessuno doveva mai essersi curato di tamponare né tanto meno di medicare. Era difficile capire quanto fosse profondo ma l’ipotesi che ci fossero anche dei danni interni era più che una semplice eventualità.
- Maledizione! Quei luridi bastardi... - Ayron sciolse il lungo foulard che portava al collo e fasciò stretta la ferita del ragazzo. In pochi istanti la stoffa candida si tinse di scarlatto: era una fasciatura troppo misera per poter fermare davvero l’emorragia e Ayron fu immediatamente consapevole che la sopravvivenza di quel giovane prigioniero dipendeva da quanto velocemente sarebbe riuscito a fargli attraversare la foresta.
- Ora ascoltami più attentamente che puoi. - gli disse Ayron – Ti caricherò sulle spalle e ti porterò via, ma devo chiederti di fare un ultimo sforzo: devi cercare di restare aggrappato a me con tutte le forze che ti rimangono, come se io fossi la tua vita, perché finché non avremo guadagnato abbastanza terreno non potremo dire di essere al sicuro.
Il ragazzo annuì con un impercettibile movimento del capo, gli occhi socchiusi per la debolezza causata dall’emorragia.
- Prima però prendi un goccio d’acqua, ma non buttarlo giù. - aprì la sua borraccia e ne versò adagio una piccola quantità sulle labbra screpolate del ragazzino, che si sforzò di non bere, sebbene il desiderio di poter ingoiare almeno un sorso d’acqua fosse bruciante. Mentalmente, Ayron segnò anche questo sul conto di Tersky.
- Siamo pronti? - il giovane annuì, portandosi alla bocca la mano scheletrica per asciugare l’acqua che ne era colata. Ayron fremeva, ma attese: gli pareva che se gli avesse richiesto appena uno sforzo in più, avrebbe potuto sgretolarsi sotto i suoi occhi.
- Non saresti... dovuto... tornare. - mormorò mentre Ayron se lo caricava con delicatezza sulle spalle, agganciando il fucile alla spalla destra.
- Se vuoi sprecare del fiato potresti farlo per dirmi finalmente il tuo nome.
- Kornér... mi chiamo Kornér.
- E io sono Ayron. - rispose, drizzandosi in piedi: il peso era minore di quello che si aspettava.
Lo segno sempre su quel conto! Ruggì tra sé mentre si dirigeva verso l’uscita. Richiuse la porta della cella: se voleva che l’allarme venisse dato il più tardi possibile doveva fare in modo che, se qualcuno dell’equipaggio vi fosse passato davanti, non notasse niente di sospetto.

Uscire dalla Cerbero fu semplice proprio come Ayron aveva immaginato: l’equipaggio, ancora tutto preso dall’esame del filone appena scoperto, non s’era accorto della sua assenza e probabilmente ai due uomini che prima facevano la guardia con lui erano state affidate altre mansioni, per riuscire a portare rapidamente in superficie quell’enorme quantità d’oro. La loro smodata fame di ricchezza li rendeva imprudenti, inducendoli a lasciare il compito della sorveglianza nelle mani di uno solo. Se avessero saputo che anche quell’uno se n’era andato, sarebbero stati un po’ meno tranquilli. Subito fuori dal boccaporto, Ayron svoltò a sinistra in modo che l’astronave lo nascondesse ai loro occhi ancora per un poco: così sarebbe stato costretto ad allungare di diversi metri la strada da percorrere prima di addentrarsi nella foresta, ma avrebbe avuto più probabilità di raggiungerla senza essere visto. Pur non essendo robusto, Ayron era dotato di una discreta forza e, più di tutto, era abituato alla fatica. Perciò non gli fu difficile trasportare il lieve peso di Kornér per centinaia di metri senza alcuno sforzo. Ciò che rendeva la marcia difficile era piuttosto lo straordinario intrico di erbe, arbusti e piante che regnava nella foresta. E le cose peggioravano mano a mano che si addentravano. Nonostante cercasse di procedere il più in fretta possibile, spesso Ayron era costretto a rallentare per aprirsi un varco con il machete tra rami sporgenti e rampicanti spinosi, pur consapevole di lasciare così una scia del suo passaggio. Ma doveva anche continuamente assicurarsi Kornér sulle spalle, che non riusciva a mantenere una presa salda e sovente perdeva conoscenza. Procedettero senza sosta per due ore. Era ancora presto ma la luce che filtrava tra la fitta vegetazione si era fatta meno intensa.
- Mettimi... giù... - mormorò Kornér. Aveva ripetuto spesso queste parole durante il tragitto - Non ce la farai... mai... con me...
- Ma che dici? E’ per portare in salvo te, non me, che stiamo attraversando la foresta. - con il fiato ormai corto, Ayron rimproverò il ragazzo mentre con il fucile si faceva largo scostando le fronde basse di un albero sconosciuto. - Fuori di qui, non molto lontano, si trova una città e lì sicuramente ci saranno i classici guaritori o sciamani o in qualunque altro modo li chiamino qui. Ti ci porterò e ti farò curare.
- Ci sei... già stato... prima d’ora? - Kornér parlava a fatica, la voce ridotta a un sussurro.
- No, l’ho vista dall’alto la prima volta che sono venuto fin qui, da solo, un anno fa e l’abbiamo sorvolata di nuovo prima di atterrare: perciò non ti preoccupare, sono sicuro che c’è!
- Ma non puoi... essere sicuro... che sapranno guarirmi.
- I nativi sono sempre pieni di risorse. - Ayron sapeva bene che la sua era soltanto una remota speranza: Kornér era denutrito e disidratato, ma soprattutto aveva diverse ferite, la più preoccupante delle quali, al fianco sinistro, sanguinava ancora. Ciò che lo allarmava di più era però il fatto che Kornér sembrava essere pienamente consapevole di quanto fossero disperate le sue condizioni.
Dopo un’altra ora di marcia incessante, Ayron esausto, si accasciò su un tronco caduto, deponendo il ragazzo accanto a lui.
- Devo riposare. - ansimò. Kornér non disse nulla: rimase immobile fra le foglie cadute del sottobosco, il respiro superficiale. Ayron s’inginocchiò vicino a lui per controllare la fasciatura al fianco: il foulard era imbevuto di sangue rosso vivo, segno che la ferita non accennava a rimarginarsi. Imprecò, perché non aveva pensato a portare altro con cui rinnovare la fasciatura e si augurò di arrivare a destinazione il prima possibile. Un grosso serpente frusciò sopra le loro teste, spostandosi da un ramo all’altro di due alberi vicini. Mentre in silenzio ne osservava gli equilibrismi, udì un verso riecheggiare in lontananza: erano i latrati di un cane.
- Minosse! E con lui ci devono essere gli uomini di Tersky. - tese l’orecchio, cercando di calcolarne la distanza: non più di un chilometro. Era ancora un buon vantaggio ma lo avrebbe perso rapidamente dovendo camminare con un peso sulle spalle e inoltre Minosse avrebbe seguito con facilità le loro tracce essendo dotato di un fiuto superiore a quello degli altri cani.
Ayron si caricò in fretta Kornér di nuovo sulla schiena.
- Che succede? - chiese il ragazzo, insospettito dalla brevità della loro sosta.
- Li abbiamo alle calcagna. - rispose Ayron rialzandosi. Un rametto si spezzò da qualche parte, alla sua sinistra.
Sono già qui? Ayron girò su se stesso, estraendo la pistola e si ritrovò a fronteggiare un’ombra indistinta appena uscita dal folto. L’ombra fece un passo avanti e un cono di luce la illuminò parzialmente, rivelando un volto: non era uno degli uomini di Tersky, ma un giovane, poco più che ventenne. Il bel viso ovale dall’espressione grave era incorniciato da lunghi capelli neri che gli arrivavano fin sotto le scapole. Era piuttosto alto e, a mano a mano che usciva dall’oscurità, emergevano altri particolari: doveva essere un guerriero perché la muscolatura era tornita e vigorosa, anche se non appariscente e la sua figura non ne perdeva in armonia e grazia. Una lunga fascia a motivi fitomorfi gli cingeva i fianchi, sostenendo un perizoma che arrivava poco sopra le ginocchia. Solo un pettorale d’oro, dall’elaborata forma floreale, copriva la parte superiore del torso nudo.
- Fermo dove sei! - gli intimò Ayron, consapevole che le minacce non erano un buon inizio per chi aveva bisogno dell’aiuto dei nativi. - Chi sei e che cosa vuoi?
- Sono Lemort. - rispose, la voce calma, il viso impassibile. Evidentemente, si disse Ayron, non si rende conto di essere sotto la minaccia di un’arma. - Qual è il tuo nome?
- Ayron... - rispose meccanicamente, inarcando un sopracciglio, perplesso.
- Perché sei spaventato, Ayron?
Spaventato? Forse perché sei apparso dal nulla come un fantasma?
- Alcuni uomini ci stanno inseguendo. Hanno torturato questo ragazzo senza alcun motivo, riducendolo in fin di vita. - spiegò Ayron con veemenza. - Io sto cercando di portarlo in salvo, in quella città oltre la foresta... che forse è la tua città.
Lemort avanzò di nuovo, continuando a fissarlo dritto negli occhi, mentre Ayron, molto lentamente, abbassava la pistola. Sostenne lo sguardo dello sconosciuto finché non furono a meno di un metro di distanza. Gli sembrò quasi un esame.
- E mentre noi stiamo qui a chiacchierare il loro vantaggio su di noi aumenta: possono contare sull’aiuto di un cane dal fiuto infallibile. Immagino che li abbia condotti dritti sulle nostre tracce fin dall’inizio, sfruttando soprattutto l’odore del sangue fresco. - riprese Ayron, senza distogliere gli occhi da quelli azzurri e insondabili dell’uomo.
- Segui il lupo. - gli ordinò Lemort, per tutta risposta. La sua voce e il suo sguardo non tradivano alcun turbamento.
- Il lupo? - Ayron si guardò attorno e Lemort gli additò un enorme lupo nero, molto più grande di quelli che abitavano ancora alcune regioni della Terra. Se ne stava assolutamente immobile fra le possenti radici di un albero come su un trono e li fissava con occhi che ad Ayron parvero umani, ma l’intensità di quello sguardo era superiore a quella di qualunque essere umano il ragazzo avesse mai incontrato. Gli sembrò che una lama incandescente gli trapassasse il petto da parte a parte.
- Ti condurrà a Shapura. - riprese Lemort – Mi occuperò io degli uomini che vi seguono.
Perplesso, Ayron soppesò lo sconosciuto con un solo sguardo: anche se possedeva la muscolatura di un guerriero, non era armato. Niente spada o arco a tracolla, nessun pugnale alla cintola.
- Non puoi affrontarli così, non ne usciresti vivo! Come se non bastasse quegli uomini hanno armi molto più potenti di quelle che tu conosci, capaci di colpire a distanza, come quella che ti ho puntato contro io poco fa.
- Vai, porta in salvo il ragazzo. - la serena calma di Lemort rasentava la freddezza e Ayron ne fu irritato: gli sembrava che quel misterioso guerriero non fosse in grado di provare emozioni.
Senza aggiungere altro, Lemort si voltò, scomparendo fra gli alberi con pochi, rapidi passi.
- Ehy, aspetta! - la fronte aggrottata, Ayron scrutò il punto in cui Lemort era sparito, finché di nuovo si sentì attraversare dallo sguardo del lupo. Si voltò e fissando l’animale diritto negli occhi decise – Andiamo a Shapura.

Procedettero con grande rapidità dietro la guida sicura del lupo che conosceva ogni sentiero attraverso la foresta, immersi in un silenzio innaturale. Ayron correva al limite delle sue possibilità, senza più ostacoli sul cammino, con il lieve respiro di Kornér che gli sfiorava il collo. Non avevano più udito i latrati di Minosse e questo era un buon segno. Poi ad un tratto Kornér tornò ad implorarlo, con voce ancora più flebile:
- Mettimi giù. - e poiché Ayron non rispondeva, ripeté – Ti prego Ayron, mettimi giù...
- Non ci penso nemmeno, proprio adesso che li stiamo seminando. - ribadì senza rallentare. Sentì il braccio con cui Kornér si reggeva a lui perdere la presa e scivolare, completamente abbandonato. Il lupo, che li precedeva di una decina di metri, si girò a guardarli e i suoi occhi attraversarono Ayron come se fosse stato di vetro per piantarsi su Kornér.
- Sì, arriviamo... - disse Ayron, ignorando il brivido che gli aveva percorso il corpo. Convinto che Kornér avesse ceduto per la stanchezza e che il lupo li invitasse a proseguire, non fermò la sua corsa. Cercò solo di sistemarsi meglio il ragazzo sulle spalle, il pensiero rivolto alla loro meta che ormai non doveva essere molto lontana. Era riuscito a fare appena pochi metri quando uno sparo riecheggiò fra gli alberi, seguito dagli stridii spaventati degli uccelli che fuggivano. Ayron si bloccò, voltandosi indietro a scrutare il sentiero deserto.
- Dannazione! - imprecò a denti stretti – Gli avevo detto di stare in guardia!
Nell’oscurità sempre più profonda della foresta di nuovo silenziosa, improvvisamente Ayron si accorse che non avvertiva più il caldo respiro di Kornér. S’inginocchiò ai margini del sentiero, adagiando il ragazzo contro il tronco di un albero possente. Gli tastò il polso e il collo: non c’era battito. Imprecò tra sé in tutte le lingue che conosceva e, gettato a terra il fucile, sdraiò Kornér fra l’erba iniziando subito a praticargli il massaggio cardiaco. Continuò senza sosta per interminabili minuti ma senza risultati: il cuore di Kornér si era fermato.
  
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