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Autore: The Glass Girl    11/03/2012    2 recensioni
Sotto l’albero notò dei pacchettini di diversa grandezza, incartati di mille colori.
Ogni pacchettino aveva attaccato un fogliettino bianco con su scritto, in nero, un nome diverso.
Li esaminò tutti e poi, sorpresa, ne notò uno con il suo nome.
Per Felicity.
Era piccolino, ma sembrava quasi essere il più bello.
Era incartato con una carta color blu chiaro, il suo colore preferito, e sopra stava attaccata una ciocca di nastro bianco.
Lo prese fra le mani con delicatezza e lo ammirò per un paio di minuti, quando poi un pensiero ruppe la sua magia.
Ci saranno un centinaio di Felicity in questa città.
Si tirò su in piedi e per un attimo si sentì mancare.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Joe Jonas, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*Felicity.*





Si infilò sotto il getto caldo dell’acqua, dopo essersi spogliata, con la speranza di lasciar scivolare insieme alle goccioline anche quel brutto mal di testa che si ritrovava dovuto probabilmente all’alcool o alla dormita di più di due ore che c’era stata dopo.
Gettò la testa sotto l’acqua calda e si sentì leggermente sollevata, mentre il vapore usciva e appannava i vetri del box doccia.
L’acqua le scivolò lungo l’epidermide pallida, sulla figura snella e tutto sommato aggraziata.
Sotto l’acqua, sotto il suo scroscio, le sembrava tutto leggermente più attutito: il mal di testa, il rumore assordante dei suoi pensieri e persino il battito accelerato del suo cuore che sembrava volerle bucare il petto ed uscire dalla cassa toracica con violenza.
Probabilmente erano gli effetti della bottiglia di vodka che si era appena scolata a stomaco vuoto.
Felicity sapeva che non avrebbe dovuto farlo, sapeva che avrebbe dovuto lasciar perdere e tentare di dimenticare invece che affogare i suoi dispiaceri nell’alcol, ma non aveva potuto farne a meno.
Voleva semplicemente superare quella vigilia di Natale senza essere costretta a litigare con i suoi per i motivi più assurdi, senza doversi sorbire quella dannatissima cena che risultava solamente una gigantesca bugia.
Uscì dalla doccia e si coprì con il suo accappatoio.
Rabbrividì quando il suo corpo entrò a contatto con l’aria fredda della stanza.
Il vapore aveva appannato anche lo specchio.
Passò una mano sulla superficie umida e liscia e la ripulì, così da poter osservare la sua immagine riflessa nello specchio.
Aveva occhiaie profonde e occhi rossi, segno evidente che non era sobria; i capelli le arrivavano alle spalle, i boccoli che scendevano umidi come una cascata d’acqua.
Le goccioline percorrevano i capelli lunghi e sottili e cadevano sulle spalle, infrangendosi sulla pelle pallida.
Il silenzio che aveva ovattato la stanza la infastidiva e avrebbe voluto urlare pur di romperlo.
Erano le sette e fra meno di un’ora sarebbero arrivati i suoi genitori.
Sbuffò e prese l’asciugamano che stava appeso accanto al lavandino.
Se lo passò energicamente sui capelli, strofinando più che poteva, mentre il sangue fluiva alla testa.
A testa in giù si chiedeva come avrebbe potuto saltare quell’odiosa cena.
Ogni volta era così, ogni santo anno.
Non venivano mai, nemmeno durante l’anno, giusto per vedere se stava bene, si presentavano solamente una volta, la vigilia di Natale, e poi si fermavano il giorno successivo, quasi fosse stata una specie di condanna da scontare.
Una volta all’anno dovete andare a trovare vostra figlia a Brooklyn.
Fermò il flusso di lacrime che spingevano contro i suoi occhi e si ordinò di non piangere.
Tirò su la testa con uno scatto veloce e, con l’asciugamano fra le mani, si sistemò qualche ciuffo fuori poso.
A dire il vero erano tutti fuori posto.
Prese un elastico e li raccolse, senza nemmeno tentare di asciugarli, tanto non sarebbe servito.
Afferrò i suoi vestiti e se li infilò.
Un paio di jeans una felpa pesante e calzettoni di flanella.
Spense la luce in bagno e tornò in cucina, dove prima aveva tirato fuori una bottiglia di vino rosso che aveva comprato ancora qualche giorno fa.
La trovò sul tavolo, dove l’aveva lasciata e l’aprì senza esitare.
La sua vita andava avanti così da un pezzo: non aveva niente, non vedeva mai i suoi genitori, né ci parlava, aveva un lavoro mediocre e l’unica cosa che amava fare non poteva farla, perché i suoi glielo avevano impedito.
Svitò il tappo e cominciò a sorseggiare il rosso direttamente dalla bottiglia, tenendola per il collo.
Pensò a come sarebbe andata la serata, a come sarebbe finita.
Vide lei, completamente ubriaca, accanto ai suoi genitori che non facevano altro che giudicarla e fulminarla con lo sguardo.
Le avrebbero regalato un felpa orribile, di quelle da quattro soldi che vendono al mercato, quelle vecchie, che lei non sopportava, con quelle fantasie assurde che lei non avrebbe mai e poi mai indossato.
Ma avrebbe sorriso, accettato il regalo e finto sorpresa allegria e gioia, e, soprattutto avrebbe finto che quello era davvero ciò che voleva, il regalo più bello del mondo.
E poi se ne sarebbero andati il pomeriggio dopo, salutandola come se niente fosse e lei avrebbe sofferto ancora.
Bevve di più, ripensando ai natali passati.
Ogni santo anno era stato così squallido. Far finta di essere una famiglia unita, fare finta che tutto fosse come prima.
Ma tutti sapevano che da quando se n’era andata di casa per tentare di realizzare il suo sogno le cose erano radicalmente cambiate.
In un primo periodo suo padre si era perfino rifiutato di parlarle e le cose, adesso, non andavano certo meglio!
Il vino  le scendeva giù nella gola, mentre l’amarezza cresceva e la testa si appesantiva.
Un fuoco le percorreva il corpo e sentiva che presto sarebbe svenuta.
Le gambe erano molli, la reggevano a fatica e la testa le girava, insieme a tutta la stanza.
Non poteva passare la vigilia con i suoi genitori, perché non lo avrebbe sopportato, non poteva passare la vigilia da sola perché avrebbe finito con l’ammazzarsi e, beh, non poteva passare la vigilia con lui perché non avrebbe avuto il fegato di chiederglielo.
Era forse l’unica persona in grado di capirla, di assecondarla anche quando degenerava e, soprattutto, era l’unica persona che sosteneva il suo sogno più grande, che tutti sembravano disprezzare.
Sorrise ripensando a quegli occhi scuri e a quelle labbra carnose … da quanto tempo voleva assaggiarle!
Gli balenò in testa l’idea di saltare la cena, di sparire senza nemmeno dire niente.
Sarebbero arrivati e non l’avrebbero trovata, molto semplicemente e, forse, sarebbe stato meglio andarsene piuttosto che farsi trovare in quelle condizioni.
Posò la bottiglia sul tavolo quasi con rabbia e poi fermò una piccola gocciolina rossa che si era fermata all’angolo della bocca, quasi congelata lì, pulendosi le labbra con il dorso della mano.
Strizzò le palpebre e sentì la testa pulsare.
Le sembrava già di vedere lo sguardo di suo padre che, freddo, l’osservava, annotando ogni suo singolo sbaglio, registrando ogni singola parola e facendola poi sembrare dannatamente sbagliata.
Prese la bottiglia e la portò fino all’armadio.
La poggiò sul parquet liscio e macchiato e tirò fuori il suo giubbotto più pesante: a Brooklyn, la notte della vigilia nevicava.
Se lo infilò in fretta e poi prese i suoi stivali da neve.
Saltellando se li infilò in fretta cercando di recuperare, da qualche parte anche le chiavi di casa.
Si trascinò fuori dalla porta, con la bottiglia in una mano e le chiavi nell’altra.
Il cielo scuro era silenzioso, ma il vento soffiava, portando fiocchi di neve freddi e grossi.
L’aria fredda l’avvolse e la fece rabbrividire all’istante.
Sapeva che non era il momento adatto per pensarci e sapeva anche che il suo problema più grande era la sua disastrata famiglia che fra meno di mezz’ora sarebbe stata davanti al suo portone e non l’avrebbe trovata. Nonostante tutto questo tornava a lui, sempre.
Con la mente viaggiava e arrivava fino a casa sua e lo vedeva seduto a guardare la televisione, una lattina di coca cola in grembo, il telecomando in mano e quella solita aria annoiata.
Sbuffava e faceva zapping così velocemente da non riuscire nemmeno a vedere che cosa trasmettessero in un canale qualsiasi, tanto non gli sarebbe piaciuto.
Incurvò le labbra, già leggermente viola, in una specie di sorriso che si caricò, subito dopo, di mille preoccupazioni e paure.
Ma alla fine, ogni singola cosa portava a lui.
La sua mente aggirava qualsiasi pensiero per poter sempre tornare a lui, non importava come, né quando, ma lo faceva e sapeva che era sbagliato.
Si ritrovò, senza nemmeno rendersene conto, a passeggiare per Brooklyn da sola, con la bottiglia di vino in mano e la consapevolezza che tutto era sbagliato.
L’unica cosa che riusciva a riscaldarla, oltre al vino, era forse il pensare a lui.
Sorrideva e non pensava ad altro.
La neve che cadeva si incastrava fra le sue ciocche ricce raccolte in una coda alla buona e poi rimaneva lì, congelata fra i suoi capelli.
Per terra le sue impronte spezzavano quel manto bianco che nessuna macchina aveva ancora spazzato e si sentì quasi in colpa quando si accorse di aver rovinato quel bellissimo paesaggio.
Non sapeva dove stesse andando, ma non le importava, voleva solamente trovarsi il più possibile lontano da casa sua.
Controllò l’ora: le otto meno dieci.
Dieci minuti e sarebbero arrivati, dieci minuti e non l’avrebbero trovata in casa.
Avrebbero pensato chissà cosa, si sarebbero arrovellati su dove fosse andata a finire, ma poi, alla fine, avrebbero lasciato perdere, convincendosi che probabilmente aveva abbandonato se stessa in qualche squallido bar.
Aveva un pessimo rapporto con i suoi genitori e tutti i ricordi che aveva di loro li ritraevano come dei dispostici che non facevano altro che dirle cosa fare e dove andare, che le impedivano anche di divertirsi.
Per quello adesso lei faceva quella vita. Era per quello che quasi ogni sera si ritrovava inginocchiata davanti al water, a vomitare anche l’anima
Sperava, vomitando tutto quell’alcol che aveva in corpo, di poter vomitare anche i ricordi peggiori, che, fortunatamente, erano leggermente annebbiati.
Ma si ricordava bene che quando aveva detto a suo padre che voleva cantare lui le aveva proibito di farlo e le aveva tirato uno schiaffo ogni volta che l’aveva sentita anche solo intonare una nota sotto la doccia, quasi come se fosse stato il crimine peggiore del mondo.
Ma no, lei non doveva seguire i suoi sogni, lei doveva fare solamente ciò che le veniva detto.
Benissimo, aveva detto, allora faccio i bagagli e me ne vado, allora potrò fare ciò che voglio.
Ma non era andata proprio così.
Una volta fuggita si era ritrovata da sola davanti al mondo.
E così non aveva trovato altra soluzione.
Da quando se n’era andata, però, non solo aveva conosciuto Joe e si era innamorata di lui, ma aveva anche imparato a prendere le decisioni da sé, senza pensare ai suoi genitori.
Non parlava più con suo padre e sua madre le faceva a malapena gli auguri il giorno del suo compleanno, ma in fondo era meglio così.
Se avessero parlato di più con lei le avrebbero detto che era una fallita e che non avrebbe avuto niente fra le mani più in là, se avesse continuato così.
Le strade erano deserte e lei era l’unica in giro alle otto di sera, la vigilia di natale.
I suoi piedi si muovevano e lei non poteva fare altro che assecondarli poiché, se seguivano il suo cuore sarebbero andati da lui, già lo sapeva.
Joseph Adam Jonas, il ragazzo più pazzo e più bello che lei avesse mai visto.
L’aveva conosciuto un giorno, per caso, e se ne era innamorata subito, appena lo aveva guardato negli occhi.
Bevve un altro sorso di vino e trangugiò lacrime rimpianti e alcol che scesero giù per la gola, soffocandola quasi.
Il vino bruciava e così pure le lacrime.
La testa ormai faceva fatica a sorreggerla.
Ormai aveva dimezzato il rosso che stava nella bottiglia e presto l’avrebbe finito del tutto.
Svoltò a destra e poi proseguì dritta per qualche chilometro.
Il vino le pulsava adesso nella testa, insieme al sangue e ai pensieri che l’affollavano.
Sentiva le gambe molli, la schiena le faceva terribilmente male e avrebbe voluto sbattere la testa da qualche parte per attenuare il dolore.
Non capiva se facesse male l’alcol o tutto il resto.
Stava buttando via se stessa e se ne rendeva conto ogni giorno di più.
I lampioni emanavano una luce tenue, debole, che però illuminava la strada deserta.
La neve cadeva adesso con maggior velocità e i fiocchi divennero sempre più spessi, mentre il vento che soffiava impetuoso  li faceva andare a sbattere ovunque, fino a che non si attaccavano.
Tremava e, ormai, nemmeno l’alcol riusciva più a riscaldarla.
Era tutto ricoperto da un leggero velo bianco: auto parcheggiate, panchine, lampioni, strade …
La neve scricchiolava rumorosa sotto i suoi passi, ma se non ci fosse stato quel leggero rumore a spezzare quel silenzio spesso ed ovattato che la circondava probabilmente sarebbe impazzita.
Lasciava penzolare la bottiglia di vino, tenuta dalla sua mano per il collo, mentre, ormai cominciava a vacillare.
Un sottile velo le si posò sugli occhi e capì subito che non erano lacrime e nemmeno neve.
Si accorse che stava piangendo solamente quando una lacrima salata ed amara scivolò, posandosi sull’angolo delle sue labbra viola per il freddo.
Si asciugò il viso con la mano destra, ma nonostante tutto vedeva ancora appannato.
Non erano le lacrime ad appannargli la vista, era l’alcol.
Osservò la bottiglia e sorrise: l’aveva bevuta tutta senza nemmeno accorgersene.
Con ancora quel poco di lucidità che le rimaneva cercò di capire dove si trovava e comprese che le sue gambe l’avevano portata proprio dove voleva il suo cuore e dove il suo cervello le diceva di fuggire.
Si fermò, davanti ad un portone bordeaux e lo guardò intensamente.
Non aveva la forza per allungare il dito e suonare il campanello, ma ne aveva terribilmente bisogno.
Tornava sempre con la sua mente a lui.
Sorrise ancora, ormai decisamente più che ubriaca e con le poche forze che le rimanevano in corpo suonò il campanello.
Il suo dito premette e poi tornò indietro velocemente, tanto che non fu nemmeno sicura che lui avesse sentito.
Si pentì subito si averlo fatto e si girò su se stessa, dando le spalle alla porta e cominciando a fare qualche passo debole davanti a lei.
Era quasi sicura di averne fatti almeno tre o quattro perfettamente dritti, ma si accorse che aveva proceduto a zig zag.
Cadde in ginocchio sulla neve e abbandonò la bottiglia su quel manto bianco, ormai del tutto svuotata.
Alla fine lo aveva fatto, era andata da lui, senza nemmeno pensare ch probabilmente stava passando la vigilia con una ragazza o con la sua famiglia o che, anche fosse stato da solo, non l’avrebbe di certo passata con una ragazza completamente ubriaca, piena di paure e di insicurezze che non faceva altro che piangersi addosso.
Cominciò a ridere e poi fu presa dai conati di vomito.
Sulla neve candida svuotò parte della bottiglia che aveva appena bevuto, tenendosi le mani sulla pancia.
Il dolore era troppo da sopportare e avrebbe voluto seppellirsi sotto la neve, pur di placare quel fuoco che le ardeva violento dentro.
-Fel?-
-Felicity!-
esclamò qualcuno alle sue spalle.
Felicity si sentì cingere le spalle da dietro e poi percepì di sicuro qualcuno che di peso la sollevava.
Chiuse gli occhi e sognò lui, che la trascinava dentro e la portava all’asciutto, al caldo e piano piano si prendeva cura di lei.
-Felicity no! Non dormire, no, devi stare sveglia, su su!-esclamò quella voce, mentre il viso di lei veniva schiaffeggiato con leggera premura.
Felicity scoppiò a ridere e, con un braccio attorcigliato al collo di colui o colei che l’aveva adesso adagiata su qualcosa di morbido, al caldo, si lamentò.
-No, fammi dormire, ho tanto sonno .-trascinò le parole ad una ad una, tentando di metterle insieme e di dar loro un senso compiuto.
Quando riprese del tutto conoscenza e fu in grado di distinguere la realtà dal sogno si ritrovò sdraiata su un divano, con una coperta di lana che la ricopriva.
Aveva ancora i calzini di flanella che si era messa a casa, ma i vestiti non erano i suoi.
Indossava una felpa enorme, che emanava il profumo più buono che avesse mai odorato.
Sollevò la coperta e si alzò di soprassalto.
Il divano era di un marroncino chiaro ed era appoggiato al muro.
Si avvicinò alla finestra e vide che la neve aveva preso a cadere con maggiore frequenza, scatenandosi in una bufera: non avrebbe potuto tornare a casa senza il rischio di perdersi.
Si guardò intorno, cercando di capire dove si trovasse, ma le faceva ancora dannatamente male la testa e quel profumo la confondeva ancora di più.
SI girò e notò, muovendo la testa, che aveva i capelli sciolti.
I boccoli ricadevano lungo la nuca, scendendo fino alle spalle.
Si posò una mano sulla fronte e chiuse gli occhi, cercando di far mente locale.
Niente, non si ricordava niente.
Di fianco al divano c’era un albero, decorato con lucine azzurre e bianche e con gli addobbi di vetro.
Si accucciò e ne prese uno fra le mani, ammirandolo in tutta la sua bellezza.
Un angelo bianco, con le ali dorate.
Sorrise e tornò a guardarsi intorno.
Le era tutto stranamente familiare e quel profumo, che le aveva ormai del tutto inondato le narici lo aveva già annusato e amato …
Sotto l’albero notò dei pacchettini di diversa grandezza, incartati di mille colori.
Ogni pacchettino aveva  attaccato un fogliettino bianco con su scritto, in nero, un nome diverso.
Li esaminò tutti e poi, sorpresa, ne notò uno con il suo nome.

Per Felicity.

Era piccolino, ma sembrava quasi essere il più bello.
Era incartato con una carta color blu chiaro, il suo colore preferito, e sopra stava attaccata una ciocca di nastro bianco.
Lo prese fra le mani con delicatezza e lo ammirò per un paio di minuti, quando poi un pensiero ruppe la sua magia.
Ci saranno un centinaio di Felicity in questa città.
Si tirò su in piedi e per un attimo si sentì mancare.
La testa le girava ancora parecchio.
Si rimise un attimo a sedere, ma, tenendo gli occhi chiusi e tendendo l’orecchio percepì un pizzicare di corde di chitarra che invase in un attimo la casa.
Si guardò attorno e seguì quel suono.
Era armonico ed intonato.
Percorse il corridoio e mano a mano il suono si faceva sempre più deciso.
Quel suono delicato le fece balzare in testa un migliaio di immagini e sensazioni che scatenarono il panico in lei.
Conosceva solamente una persona che suonava così.
Non se n’era nemmeno accorta, ma in casa c’era un odore di cioccolato e biscotti che la faceva impazzire.
Ormai persa in un turbine di emozioni giunse ad una stanza, la cui porta era spalancata: seduto sul letto, di spalle, c’era un ragazzo, la testa china sulle corde delle chitarra e le dita che si muovevano veloci.
I capelli neri ricadevano sul suo volto in mille e più ricci delicati.
Sorrise, osservando le sue spalle muscolose.
Si appoggiò allo stipite della porta e lo ascoltò suonare, finché non smise.
Il suono si interruppe e lui posò la chitarra.
Quando si voltò non poterono far altro che sorridersi.
Felicity era piacevolmente sorpresa che a “salvarla” da quella tremenda situazione fosse stato lui, ma era anche tremendamente in imbarazzo.
Non avrebbe dovuto vederla così, anche se era abituato a vederla ubriaca.
Joseph le si avvicinò.
Il suo volto esprimeva una marea di emozioni contemporaneamente e né lei né lui erano in gradi di capire quale predominava.
C’erano rabbia, comprensione, compassione, affetto, delusione, apprensione e altro ..
-Fel … che mi combini Fel?-chiese scuotendo la testa, chiaramente deluso.
Aveva le mani in tasca dei jeans e portava appena una maglietta col collo a V e le mezze maniche.
Felicity abbassò lo sguardo, colpevole.
Se  c’era una cosa che odiava era deluderlo.
Era una sensazione orribile che avrebbe potuto ucciderla a volte.
Forse doveva andarsene, prendere il cappotto, gli stivali e tornarsene a casa … no a casa no.
Andarsene e basta, l’avrebbero trovata il giorno dopo, chissà dove, e avrebbe potuto riflettere e pentirsi di quello che aveva fatto.
Ma che diritto aveva lui di rimproverarla? Perché con tutte le persone che le andavano addosso doveva mettercisi pure lui?!
-Non ti ci mettere pure tu Joseph, ti prego.-disse ammorbidendosi un po’.
Joseph piegò gli angoli della bocca in un sorriso sghembo.
-Dai, andiamo di là, ti faccio un caffè.-azzardò uscendo dalla stanza e trascinandosi in cucina.
Felicity lo seguì poco dopo, sedendosi poi a tavola e attendendo il suo caffè fumante.
Joseph le porse una tazza bianca, con lo stemma verde e nero di Starbucks, comprata, probabilmente, in una delle tante caffetterie.
Felicity la prese fra le mani e soffiò con delicatezza, prima di andare ad appoggiare leggermente le labbra sul bordo e bere qualche piccolo sorso.
Il caffè nero e caldo le scese in gola, bruciandola quasi, e il suo corpo rinvigorì quasi subito, sotto l’effetto della caffeina.
Bevve in silenzio, mentre lui se ne stava appoggiato al piano cottura, con la testa bassa, china sulla sua tazza colma anch’essa di caffè che ancora non aveva toccato.
Felicity si sentiva a pezzi; non solo per la stanchezza e per tutto l’alcol che prima aveva bevuto ma anche perché le si spezzava il cuore a sapere che il ragazzo che amava l’aveva vista in una situazione a dir poco schifosa.
Aveva voglia di parlare, di spiegargli, di difendersi, ma le parole le morivano ogni volta in gola, spinte giù in fondo da quel liquido scuro e dalle lacrime che il suo corpo era costretto a reprimere.
Il cuore, però, aveva ripreso il suo battito regolare e, se non altro, respirava normalmente.
Rimasero in silenzio per una buona manciata di minuti, riuscendo a sentire solamente il rumore dei loro pensieri che battevano nella testa, per poter uscire ma che domavano puntualmente.
Felicity finì il suo caffè in pochissimo tempo e subito si sentì meglio, la testa più leggera, quasi come se tutto l’alcool stesse evaporando pian piano, Joseph invece non aveva ancora nemmeno appoggiato le labbra alla sua tazza.
Non riusciva nemmeno più a guardarla in faccia, non riusciva più a far incrociare i loro occhi perché teneva i propri quasi sempre fissi sui piedi.
Quell’orrenda situazione andava avanti ormai da tanto, troppo tempo e lui non era sicuro di poterla reggere ancora.
Vederla ogni giorno, imbevuta d’alcol fino al limite del possibile, che delirava, che vomitava era ormai un’immagine in grado di distruggerlo piano piano, di dissolverlo lentamente.
La guardò che scrutava il fondo della tazza per trangugiare anche l’ultimo sorso di caffè e non riuscì a sostenere quella scena. Ogni volta che la guardava, ormai, poteva vederla solamente china su un water, che vomitava, che piangeva.
E avrebbe voluto aiutarla, avrebbe voluto prenderla per mano e far sì che ogni paura sparisse.
-Basta Fel, devi smetterla.-disse d’un tratto, senza nemmeno accorgersene.
Felicity sentì il sangue gelarsi nelle vene, mentre posava sul tavolo la sua tazza e si alzava, incapace di alzare lo sguardo dal pavimento.
Avrebbe preferito che lui non avesse aperto bocca, lo avrebbe preferito in silenzio, che la scrutava, che la giudicava silenziosamente … ma adesso era arrivato il momento di affrontarlo, dovevano parlare.
Trattenne qualche lacrima che già cominciava a spingere e deglutì senza farsi sentire.
-Joseph senti io ..-sussurrò debole.
La sua voce arrivò fragile e sottile alle orecchie di lui.
-No Felicity. Sono stanco.-la interruppe deciso.
Al contrario di quella di lei, la sua voce risultò ferma e dura, di pietra, contro una sottile lama di vetro fragile.
Prese a camminare per la cucina, mentre lei sentiva le gambe pesanti, due lastre di cemento che non avrebbe potuto staccare dal pavimento in alcun modo.
-Ma non lo capisci? Ti fa male. Tutto questo ti sta consumando! Non mangi, non dormi, bevi e basta. Sai quanto tempo è che non ti vedo sorridere? Saranno mesi! Ti rendi conto che stai buttando via te stessa!? Ti rendi conto che cosi facendo fai stare male le persone che tengono a te!-urlò alzando le mani.
La sua voce fu una ventata d’aria gelida, feroce sul volto.
Rimase immobile, dov’era, senza sapere che fare, senza sapere che dire, senza riuscire a frenare le lacrime che la minacciavano.
Joseph si rese conto di aver urlato solamente quando vide le gote umide della ragazza che gli stava davanti.
Felicity parve aver smesso perfino di respirare e stava immobile, tentando di congelare quelle lacrime che ancora si ostinavano a macchiarle il viso.
Si rese conto di aver sbagliato, di aver affrontato l’argomento in maniera sbagliata e si pentì subito di ciò che le aveva detto, anche se sapeva essere nient’altro che la verità.
Ma teneva troppo a lei per poterla vedere buttarsi via in quel modo.
Il silenzio calò nella stanza, rivestendoli entrambi.
Felicity si sentiva intrappolata in una specie di campana di vetro, dove non poteva muoversi, da cui non poteva uscire e che le impediva di parlare.
Aveva le parole incastrate in gola, perché il nodo che aveva le impediva anche solo di schiudere le labbra e in un primo momento sembrò decisa a volerlo sciogliere, ma non ci fu verso, rimaneva intrappolata nel suo silenzio.
L’unica cosa che era in grado di fare era piangere in silenzio.
La situazione si sbloccò solamente quando la tensione di Joseph scivolò lentamente, liberandolo.
Prese un bel respiro profondo e si calmò, in fondo quelli non erano affari suoi.
-Scusa .. io non volevo.-disse sinceramente dispiaciuto, abbassando la testa e grattandosi la nuca.
Nonostante tutto non era in grado di guardarla in faccia, come non ne era in grado lei.
C’erano metri a separarli, perché uno stava da una parte e una dall’altra della cucina.
Dopo qualche minuto Felicity fece un passo verso di lui, ma quando gli arrivò abbastanza vicino da potergli parlare, lo sorpassò e si diresse verso la porta d’ingresso.
Accanto al portone c’erano i suoi stivali da neve ed il suo cappotto, appeso all’attaccapanni.
Si sfilò la felpa che aveva addosso, rimanendo intrappolata in quel magnifico profumo per qualche secondo e poi l’appoggiò con cura su quell’attaccapanni, al posto del suo giubbotto invernale.
Senza dire una parole si infilò stivali e cappotto e aprì la porta.
Joseph, incredulo, la guardava andarsene.
Le bastò un secondo per aprire la porta e richiudersela alle spalle.
Per un secondo pensò di lasciarla andare, che si era stancato di correrle dietro, ma poi si rese conto di quanto questo potesse essere egoista e di quanto realmente tenesse a lei.
In un secondo corse fuori, senza giubbotto e con le scarpe da ginnastica.
La neve lo congelò all’istante, ma la sensazione di averla persa lo fece stare peggio, molto peggio.
Guardò a destra e a sinistra, mentre il battito del suo cuore accelerava sempre di più.
L’aria fredda portava i fiocchi di neve a schiantarsi con violenza sul suo corpo e sul suo viso: la bufera era diventata più violenta nel giro di pochi minuti.
Senza esitare fece qualche passò avanti e, scorgendo una figura scura che camminava a fatica contro il vento, non esitò a raggiungerla.
-Felicity!-urlò in preda alla disperazione, ma lei sembrava non sentirlo, proseguendo in quel folle cammino.
-Felicity!-la chiamò ancora.
Ma lei non rispose.
Corse più veloce, e finalmente la raggiunse.
La abbracciò da dietro, senza riflettere, senza dire niente, perché capì che era solo di quello che aveva bisogno.
Avrebbe dovuto capirlo da subito e si sentì uno stupido per come l’aveva trattata.
-Fel…- sussurrò nel vento.
Felicity tremava, singhiozzava e pregava che quell’orribile nottata finisse all’istante.
Joseph la prese in braccio e la portò dentro, esattamente come aveva fatto prima.
Faticò un po’ a ritrovare il portone, ma alla fine entrambi si ritrovarono come prima nella stessa stanza, al caldo.
-Dai, ti prendo qualcosa di caldo.-disse tremando.
A dir la verità era lui ad aver bisogno di calore, ma questo non gli importava.
Le tolse il giubbotto in fretta e corse a prendere una coperta di lana dall’armadio.
La coprì teneramente, abbracciandola più che poté e tenendola il più possibile al caldo.
-Joseph … stai tremando.-
-No .. s-sto bene.-balbettò battendo i denti.
Le scappò un sorriso e si alzò all’istante, togliendosi la coperta e avvolgendola al ragazzo che aveva di fronte.
Si strinsero per una buona manciata di minuti, fin quando lui non si rese conto che era arrivato il momento di parlare.
Si alzò lentamente, stringendosi nella coperta e le fece segno di seguirla.
Senza farsi vedere si chinò accanto all’albero addobbato ed afferrò la scatolina azzurra.
Senza dire una parola si spostarono dalla cucina alla camera da letto.
Joseph si chiuse la porta alle spalle e si liberò della pesante coperta, dopodiché si accomodarono sul letto.
Felicity aveva sempre adorato quella camera: il suo profumo l’aveva invasa.
La chitarra stava appoggiata di fianco al letto e la libreria disordinata conteneva decine e decine di libri di cui ormai conosceva a memoria titoli e copertine.
La stanza era illuminata dalla debole luce che la bajour sul comodino diffondeva.
C’era un’atmosfera familiare che li avvolgeva, che li cullava delicatamente e che la fece sentire a casa.
-Felicity.-esordì lui prendendole la mano.
Il suo tocco la fece avvampare e ,senza che lui se ne accorgesse, prese a respirare più velocemente e pesantemente.
-Senti mi dispiace per prima .. non so che mi sia preso.-concluse scostandosi un ciuffo di capelli dagli occhi.
-Non fa niente … hai ragione.- Felicity scoprì la sua voce dannatamente roca e asciutta e fu costretta a schiarirsi la gola un paio di volte.
Joseph sorrise, scuotendo la testa.
-Lo so.-disse semplicemente.
La distanza che li separava sembrava essere fatta di vetro, perché entrambi si sentivano terribilmente vicini e la tensione che c’era nell’aria era palpabile.
Eppure nessuno dei due sapeva cosa sarebbe potuto succedere, nessuno dei due poteva aspettarsi una tale agitazione.
Joseph teneva la scatolina nascosta dietro la schiena, mentre tentava di trovare le parole giuste.
Felicity invece non faceva altro che vergognarsi di se stessa.
La sua mano tremava, mentre stringeva quella di lui ed il suo corpo anche.
Aveva le labbra viola per il freddo e gli occhi ancora leggermente arrossati.
Le gote, però, erano rosee, grazie al tocco di Joseph.
-Io sto male a vederti così.-
-Anche io.-
-E allora perché lo fai? Perché continui a farti così tanto male?- chiese accarezzandole il palmo della mano col pollice.
Nella sua voce non c’era rimprovero o collera, semplicemente curiosità.
Lei alzò le spalle.
-Forse perché quando bevo non mi sento sola, forse perché quando bevo non penso.-azzardò osservando il pollice di lui tracciare cerchi immaginari sul suo palmo pallido.
Joseph percepì la malinconia nelle parole di lei e si rese conto con amarezza di aver sbagliato tutto quanto.
Sfoderò un sorriso amaro e le si avvicinò.
-Non ti lascerò più sola, lo giuro.- sussurrò piano prendendole il mento fra due dita.
La guardò negli occhi, scrutò in quell’azzurro intenso e vi si perse per qualche secondo, finché non scese sulle sue labbra, dove si fermò ancora di più.
Attratto da quelle labbra sottili non poté fare a meno di avvicinarsi di più, fino a rompere quella distanza fragile che li separava.
La scatolina cadde dal letto e finì atterra, ma nessuno dei due sembrò curarsene.
Piano piano, mentre si baciavano ancora lentamente, Joseph osò di più, tentando di far incrociare le loro lingue.
Il corpo di Felicity veniva percorso dalle scariche elettriche che la immobilizzavano e la scuotevano allo stesso tempo, mentre le loro lingue danzavano e i loro corpi si univano, fino a formare un disegno perfetto.
Con delicatezza Joseph l’adagiò sul letto,  mentre appoggiava il proprio corpo sul suo.
Continuarono a baciarsi per qualche minuto, fino a che il fuoco che li aveva invasi fin dal primo momento non prese a divampare pericolosamente, fino a trasformarsi in un incendio indomabile.
Le labbra di lui si staccarono da quelle di lei, scendendo e lasciandole una scia di baci infuocati sull’epidermide pallida.
Le tolse la maglia, mentre lei immergeva le mani sottili nei capelli scuri di lui.
Joseph si alzò un attimo e le carezzò un braccio, dopodiché gettò anche la sua maglia sul pavimento.
Con un gesto fluido e veloce si ritrovarono ben presto entrambi in intimo.
La bufera fuori si era placata ed il cielo rasserenato tanto che un paio di raggi lunari riuscirono a bucare la finestra e ad intrufolarsi nella stanza, complici anche loro di un amore da così tanto tempo desiderato.
I loro corpi brillavano quasi, sotto quella luce argentea ed entrambi non poterono fare a meno di sorridere, mentre continuavano piano piano ad assaggiarsi e ad esplorarsi.
I loro sospiri si facevano più pesanti mano a mano che i loro corpi venivano scoperti.
Entrambi nudi continuarono a baciarsi fino a diventare uno parte dell’altra, fino a che anche gli ultimi deboli raggi lunari non svanirono e lasciarono il posto a quelli solari del mattino.
Si amarono sempre quella notte, recuperando tutto quel tempo che avevano perso a non farlo e finalmente entrambi potevano dirsi completi, entrambi potevano dirsi felici.
Quando Felicity si svegliò, accanto a lui, capì che non era stato un sogno e sorrise perché sapeva che ora si appartenevano.
Riscaldati da quel calore che la luce emanava si abbracciarono e si rannicchiarono sotto le coperte.
-Fel … ti amo Fel.-sussurrò lui carezzandole la guancia con delicatezza.
-Anche io ti amo Joseph Jonas. Da impazzire.-
Rimasero lì fino a quando lui non si ricordò della scatolina che la sera prima aveva fatto cadere.
Si alzò dal letto e la cercò sul pavimento.
Sollevò la sua maglietta e la ritrovò lì, ancora chiusa.
-E quella cos’è?-chiese lei incuriosita, notando la scatolina.
-Il mio regalo di natale per te.-confessò lui girandosi e porgendogli il pacchetto.
Felicity sorrise: era quello che aveva notato ieri sera, il regalo che tanto l’aveva impressionata.
Lo prese delicatamente fra le mani e sciolse il fiocco, dopodiché lo aprì lentamente.
Dentro la scatolina blu rivestita di carta azzurrina c’era una catenina d’argento.
La estrasse con la massima attenzione e si soffermò sul ciondolo: un angelo bianco, con le ali dorate.
Le sue labbra curvarono in un radioso sorriso, mentre quell’angelo brillava alla luce.
Era esattamente uguale a quello appeso all’albero, con la differenza che questo era più piccolino e che sull’ala destra, scritto in nero c’era il nome Joseph.




Angolo Autrice.
*

Salve salve!  Racconto di poco conto che ho scritto ancora la sera della vigilia ... boh mi sentivo ispirata!
Il mio spirito natalizio fa sostanzialmente schifo!
Vabè godetevela :) E, come al solito, raccontatemi che ne pensate.
A presto.
Laura.
  
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