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Autore: FitzChevalier    11/03/2012    3 recensioni
Un racconto breve nato come tema scolastico.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei.
I secondi passano lenti, ma lą fuori non si muove niente.
Mi alzo, e mi allontano dalla porta. La mano pesante di El mi lascia la spalla.
«Č finita» mormoro. Mi giro. «C'č silenzio, ora.»
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei.

I secondi passano lenti, ma lą fuori non si muove niente.

Mi alzo, e mi allontano dalla porta. La mano pesante di El mi lascia la spalla.

«Č finita» mormoro. Mi giro. «C'č silenzio, ora.»

El annuisce. Cammina verso il lungo tavolo con il passo pesante e cadenzato del militare. Indossa il suo elmo dorato, e il volto pieno di cicatrici del dio scompare sotto la celata a forma di muso di lupo, dalla quale spunta solo una folta barba scura. «Sai cosa devi fare» mormora. Tende un braccio verso un angolo vuoto della stanza. Lo spazio si piega al suo volere, e un arco di pietra si materializza lģ dove il dio aveva indicato.

«Gli dei ti hanno scelta» dice ancora El. Incurva le spalle massicce e oltrepassa l'arco, che scompare con lui.

Io mi guardo attorno. Accanto al camino spento c'č un baule. Lo raggiungo, lo apro. Dentro c'č solo una cassetta di legno, dipinta di blu, con un cervo balzante sul coperchio. Mi tolgo il velo, e lo uso per avvolgere il cofanetto. Con il fagotto sottobraccio avanzo a lunghi passi verso la porta. Appoggio una mano sul legno ruvido e umido. Il battente si apre cigolando. Sollevo la gonna e scendo in strada, dove il fango mi arriva al polpaccio, sporcando gli stivali di cuoio.

Arriccio il naso per il forte odore salmastro.

Il rumore delle onde che colpiscono i frangiflutti del porto č debole, quasi impercettibile dopo i boati di prima.

La mia casa č l'unica rimasta in piedi. Per volere di El, beninteso. Si erge in mezzo a cumuli di detriti e rovine. Mi avvio lungo la strada che si apre ala mia destra, stringendomi nel mantello per il freddo.

Poi le abitazioni si aprono all'improvviso, come un sipario. Scuoto la testa. Non mi ero accorta di essere arrivata fino alla Piazza Sofia, ora che il gigantesco obelisco di marmo giace per terra, spezzano in quattro enormi blocchi. La punta d'oro č girata verso sud, verso il porto. La mano di El mi indica la via.

Scavalco un cumulo di detriti, colpendo con la punta dello stivale una mano. Il fagotto m'impaccia pił delle gonne, ma non posso liberarmene. Non oso.

Con un balzo atterro nella Via delle Spezie, e il fango torna ad abbracciarmi le gambe.

La Via delle Spezie č la strada maestra della cittą, che collega il porto al palazzo del feudatario. Una strada larga, dritta, con il suolo in basalto ora ricoperto dal fango.

Oltrepasso due carri ammaccati e ribaltati, salvatisi dalla furia di El. La testa di un cavallo mi fissa da uno di quei carri, con il corpo che giace sull'altro lato della strada.

Tre corpi umani sono rimasti impigliati fra i rami di un grosso ulivo, con gli arti penzolanti che ondeggiano piano nel vento freddo che si č alzato.

Anche il porto č quasi irriconoscibile: passo sotto lo scheletro della carena di una nave finita contro i magazzini, distrutti. Tutte le merci gelosamente custodite dai funzionari statali si sono riversate sui moli, o galleggiano sull'acqua.

Mi affretto, e raggiungo l'Uncino. Allungo una mano, tocco un masso scivoloso per l'acqua. Alzo gli occhi. Sono quasi arrivata.

Mi aggrappo ad una sporgenza, cerco con i piedi una rientranza, m'impunto e inizio a scalare la scogliera.

Salgo a fatica, lentamente, tastando con cautela la pietra sopra la mia testa. Il vento cambia in continuazione: ora forte, ora debole, sembra divertirsi a cercare di staccarmi dai miei appigli insicuri.

Infine raggiungo la cima dell'uncino. Appoggio il fagotto e mi isso con le braccia doloranti. Prendo il fagotto, con un sospiro. Libero i cofanetto dal velo, e lo apro. Dentro c'č il pugnale rituale. Alzo la testa. Eda mi guarda, i riccioli dorati che incorniciano il volto senza etą della dea. Mi sorride, materna. Indica il mare.

Afferro il pugnale. «Io vivo per servirvi.»

Arranco fino al bordo frastagliato dell'Uncino, e guardo gił. Le onde si abbattono con forza contro gli scogli aguzzi, frantumandovi contro detriti d'ogni tipo. Alzo il pugnale sopra la testa, la lama rivolta verso di me.

«Gli uomini si sono mostrati deboli» aveva detto El, «indegni del mare che ho donato loro. Ma tu, come Concordia prima di te, vivrai, e donerai il tuo sangue ad una nuova stirpe di uomini, pił forti, che costruiranno di nuovo agili navi da guerra, e che razzieranno e conquisteranno nel mio nome.»

Mi pugnalo il ventre, e cado in avanti.

 

   
 
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