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Autore: Angy_Valentine    12/03/2012    6 recensioni
«Ah, a proposito, io mi chiamo Lavi Bookman. Piacere di conoscerti!».
Non sembrava esserci modo di metter freno alla sua lingua, decisamente. Accennando un sorriso, allungò la mano verso quella che il giovane le stava tendendo, stringendola e lasciandosi avvolgere il palmo dalle sue dita.
«Rukia Kuchiki. Il piacere è tutto mio.».
[...]
Cominciava a covare il dubbio che i problemi di Lavi fossero, probabilmente, più grandi di quel che temeva. In cuor suo sperava davvero che il ragazzo non si offendesse per i suoi tentativi di aiutarlo. Perché dietro a quelle negazioni, quel nervoso, quegli sguardi frustrati e stizziti, sembrava scorgere solo una muta e disperata richiesta d’aiuto.

**
[Crossover Bleach/D.Gray-man][Crosspairing][LaviRuki][Byakuya x Hisana][Het][!Linguaggio][Angst]
[Sospesa in via definitiva]
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Byakuya Kuchiki, Hichigo, Hisana Kuchiki, Kuchiki Rukia
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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E rieccomi qui, col terzo capitolo della storia. Parto senza perder tempo con i ringraziamenti, partendo da I r i s, Kuchiki Chan, Kumiko Walker, Shaila Light, Tiamath e Ucha per averla inserita tra le seguite; Giuu, GLOGLOSSY, I r i s e N e m e per averla messa nelle preferite; di nuovo a Shaila Light, per averla inserita nelle ricordate; a N e m e, GLOGLOSSY e I r i s per avermi inserita tra gli autori preferiti. E grazie anche a chi ha recensito, davvero! <3
Detto questo, buona lettura! *-*

*** *** *** ***

Capitolo 3 – Not a pleasure to meet you




Rukia richiuse i libri in borsa, sospirando. Il professore di letteratura non li aveva di certo risparmiati, in quanto ad appunti da prendere e versioni da sistemare. Stando alla tabella di marcia sarebbero seguite due ore di Museologia, poi avrebbe avuto la giornata libera. Era stata fortunata a trovare quel posto a metà delle file, arraffato quasi al limite: più di qualcuno infatti era rimasto seduto a terra, sotto la lunga fila di appendiabiti da cui pendevano sciarpe e giacconi, cercando la posizione più confortevole per riuscire a scrivere decentemente. Per l’ora successiva molti se ne stavano andando, lasciando liberi abbastanza posti da permettere anche a quei pochi rimasti di poter stare comodi sui banchi. Sospirò, preparando il libro e il quaderno su un angolo, e raccattò un succo dalla borsa.
Il professore era appena entrato e la classe si stava lentamente ripopolando di gente quando, nella marea di persone, intravide una zazzera mora che riconobbe quasi subito. Kaien Shiba aveva appena varcato l’ingresso dell’aula, diretto subito verso la cattedra: teneva sottobraccio dei raccoglitori e nell’altra mano reggeva un grosso tomo che porse all’insegnante. Rimasero a parlare per un po’ e lei, ovviamente, non perse occasione per poter rimirare il profilo del ragazzo. Cercò di camuffare lo sguardo adorante per non farsi cogliere in flagrante, ma nel mentre seguiva ogni linea di quello splendido viso, a suo parere perfetto oltre ogni dire. Per non parlare dei suoi occhi: quanto li adorava! Così chiari e belli, sembravano riflettere il cielo in un giorno di primavera, e creavano un contrasto assai affascinante coi capelli neri come le piume di un corvo che, quel giorno come tante altre volte, stavano sparati in tutte le direzioni.
Ma ciò che adorava di più non erano i suoi occhi, né i suoi capelli, né il fisico atletico: ciò che per primo l’aveva colpita era stato il suo sorriso – così luminoso, istintivo e vivace. Metteva allegria solo a vederlo, sapeva contagiare chi lo circondava con la sua spontaneità. Riusciva a far amicizia con tutti senza grosse difficoltà, e anche nel loro gruppo si era fatto accettare praticamente subito. E quante volte l’aveva riaccompagnata quando uscivano insieme con la compagnia, scortandola per non lasciarla andare da sola. Un vero cavaliere, insomma, con cui talvolta si era ritrovata a studiare in biblioteca o in aula studio, od in un bar per un semplice caffè e quattro chiacchiere. Se doveva essere completamente sincera, per lei non era facile avvicinarlo. Mentre con chicchessia riusciva ad essere abbastanza spigliata, con lui ammutoliva già quando se lo trovava a cinque metri di distanza. Le piaceva ed era innegabile, e poi lui aveva quel modo di fare sempre così affabile…
Si riscosse dalla sua trance d’adorazione quando si accorse che Kaien le si stava avvicinando. Sperò per un attimo che non l’avesse beccata con quello sguardo da triglia inebetita a guardare proprio verso di lui, mentre cercava di riassumere una specie di posa composta. Fu parecchio difficile non concentrarsi sul suo sorriso per non restarne incantata di nuovo, ma fece del suo meglio, sistemando inutilmente i libri che aveva sul tavolo per scaricare la tensione.
«Ehilà, Kuchiki. Lezione pesante?» la salutò, appoggiandosi al banco con una mano.
Lei si sistemò nervosamente un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, ricambiando il sorriso che il ragazzo le stava rivolgendo.
«Più o meno.» rispose dopo una manciata di secondi «Diciamo che ha spiegato molto più di quanto mi aspettassi. Temo avrò parecchio da fare, a casa.».
«Sempre sui libri, eh? Immagino che tuo fratello non abbia veramente di che lamentarsi, di voi due.».
«Già. Almeno, spero sia così. So che non è cattivo, ma… insomma, sia io che mia sorella ci teniamo a non deluderlo. Specie contando il fatto che ora siamo entrambe sulle sue spalle.». Rukia si rigirò distrattamente una penna tra le mani, abbassando lo sguardo, salvo poi volgerlo di nuovo verso Kaien «Voialtri, piuttosto. Ho saputo che non avete ancora riavuto la vecchia aula.».
«Già, e non ti dico che macello è! Più che altro è una seccatura assurda, se non arrivi minimo venti minuti prima fai lezione per terra.» sospirò lui, grattandosi la nuca «Quel piccoletto del professor Gill ha chiamato la segreteria anche oggi, ma a quanto pare non hanno nessuna voglia e/o intenzione di metter mano a quei benedetti riscaldamenti.».
«Ed è l’unica classe in tutto l’istituto ad avere problemi…».
«Già, peccato sia anche una delle più grandi e una di quelle maggiormente utilizzate. E dire che coi soldi che sborsiamo per le tasse trimestrali, da queste parti dovremmo camminare sui tappeti rossi.»
Rukia rise, più per la sua aria da bambino imbronciato che della battuta in sé. Incredibile come riuscisse, spesso involontariamente, a metterla a suo agio con poche semplici parole. Per certi versi gli era pure grata, visto quanto spesso e volentieri si trovasse in difficoltà in sua presenza.
«Se nel mentre avete finito di fare salotto, voi due…».
La voce del professore li fece sobbalzare entrambi. La classe era nuovamente piena, poche altre anime stavano entrando in cerca di uno straccio di posto, e il proiettore era già impostato sui lucidi della lezione del giorno. Il ragazzo si voltò, grattandosi la nuca con fare imbarazzato.
«Sì, mi scusi, prof! Do un’ultima cosa a Kuchiki e sparisco, promesso.». disse, aprendo la borsa e cominciando a cercare freneticamente in mezzo a quaderni e libri. Ne tirò fuori una busta piena di fogli, che le porse frettolosamente. «Sono i documenti che mi aveva chiesto tuo fratello, ho fatto più un fretta che ho potuto, spero gli vadano bene. Ora mi eclisso, o il prof mi uccide. Scusate il disturbo!».
La salutò con un cenno della mano e corse fuori dall’aula, senza nemmeno preoccuparsi di richiudere la cartella. Appoggiato alla parete del corridoio c’era Lavi, intento a sgranocchiare un dolcetto alla cioccolata ancora mezzo incartato, tenendo nell’altra mano un succo di frutta. Aveva seguito Kaien per tutte le lezioni ed era riuscito a farsi dare tutti i programmi svolti fino a quel momento dai professori, bene o male era a buon punto.
Chissà come se la stava cavando suo fratello. Era parecchio tentato di chiamarlo al cellulare, ma la prospettiva di sentirsi sbattere il telefono in faccia dopo uno scocciato “Sto studiando, non rompere” l’aveva fatto desistere. Deak non era mai stato un fratello particolarmente affettuoso, o meglio, era sempre stato restio a dimostrarlo. Si poteva veramente dire che non si somigliassero affatto, a parte nell’aspetto fisico. Considerando i loro trascorsi non gli si poteva nemmeno dare torto, però Lavi aveva sempre fatto del suo meglio per far stare a suo agio chi gli stava intorno, cosa che Deak non si era mai sprecato a fare. Sebbene facesse finta di niente, in cuor suo Lavi ci restava un po’ male ogni volta che suo fratello gli rispondeva con la stessa freddezza con cui si rivolgeva a chiunque altro. Insomma, erano fratelli, tra loro avrebbe dovuto esserci un bel legame, anche solo di fondo. Eppure Deak sembrava non fidarsi di nessuno, nemmeno di lui. Per quanto ci stesse male, però, non poteva di certo piantarlo in asso, anche se ci aveva pensato innumerevoli volte, colto dalla rabbia. Ma alla fine si decideva sempre a portar pazienza, convinto che la sua non fosse autentica cattiveria – e per questo, non sapeva se lodarsi o darsi dell’ingenuo.
L’arrivo di Kaien lo distolse a forza dai suoi pensieri. Si staccò dal muro contro cui si era appoggiato, aspettando che il ragazzo richiudesse la cartella, per poi dirigersi con lui verso il piano terra. Dopo essersi divisi, fuori dal cancello della facoltà, Lavi era parecchio indeciso. L’aria si era fatta ancora più fredda e l’idea di stare ancora fuori non lo entusiasmava più di tanto. Sospirando, si rassegnò alla consapevolezza che avrebbe passato tutta la sera a studiare, se non altro per rimettersi in pari con eventuali argomenti mancanti. Alla fermata dell’autobus c’era parecchia gente in attesa, tra cui alcuni studenti che aveva visto di sfuggita nei corridoi o in aula, eppure non si fece avanti per fare quattro chiacchiere in attesa del mezzo. Affondò il mento nella sciarpa, cacciandosi le mani in tasca e fissando un punto indistinto davanti a sé. Vide la sagoma di se stesso riflessa nella vetrina del bar di fronte e qualche ombra oltre il vetro. La porta si aprì e due persone uscirono dal locale: una di queste aveva un cappottino beige e una sciarpa dello stesso colore ad avvolgerle morbidamente il collo, e ciuffi di capelli neri facevano capolino da sotto il baschetto ben calcato in testa. Una figura che gli era stata fondamentale, quella mattina, senza la quale si sarebbe sicuramente perso.
Il braccio scattò in alto ancora prima che se ne rendesse conto, la mano a sferzare l’aria nella speranza di farsi notare. Chiamò a gran voce il suo nome, ma la ragazza non si voltò, continuando a camminare noncurante fino a sparire dietro un angolo. Sentendosi uno stupido mentre tutti lo guardavano, Lavi abbassò lentamente la mano, stringendola appena a pugno e fissandosi i piedi. Preferiva pensare di essersi sbagliato o che lei non l’avesse sentito, piuttosto che valutare l’ipotesi che Rukia l’avesse volutamente ignorato.

** ** **

Con un sospiro, Byakuya richiuse il tomo che occupava gran parte della sua scrivania. Il raffinato tavolo in mogano era pieno di volumi e scartoffie varie, tutte assurdamente necessarie per un solo caso. Non che stesse preparando un’accusa scrupolosa per timore di perdere la causa, figurarsi – non per niente era uno dei più promettenti avvocati che c'erano in giro, erede di una famiglia di legali da generazioni –, ma nemmeno voleva presentarsi al processo con argomentazioni sostenute alla meno peggio. Gli sbagli non facevano decisamente per lui, e tutti i suoi collaboratori lo sapevano benissimo. Il rigore che il giovane Kuchiki si imponeva si ripercuoteva di riflesso anche su di loro, motivo per cui nessuno si lamentava per quelle giornate in cui, spesso e volentieri, si superava l’orario di lavoro canonico. Di per contro, quella severità quasi marziale aveva comportato la rigorosa selezione di un personale scelto: tante segretarie, per un motivo o per l’altro – chi perché proprio non ce la faceva, chi perché aveva famiglia e non poteva stare ore in più, chi perché lo trovava un dispotico rompiscatole –, non riuscivano a reggere i suoi ritmi di lavoro, e l’avevano costretto più di qualche volta a nuove selezioni e periodi di prova.
Sistemando alcuni fogli nel fascicolo nero Byakuya alzò per un attimo lo sguardo verso la porta, vedendo mentalmente la scrivania della giovane che da poche settimane a quella parte era la sua nuova segretaria: parlava poco e lavorava molto, ma aveva un ché di così fragile che, per un attimo, si era chiesto cosa l’avesse spinta a proporsi proprio da lui, visto che la sua reputazione lo precedeva di molto. Insomma, a prima vista non sembrava assolutamente il tipo in grado di sopportare i periodi di stress e pressione psicologica a cui talvolta erano sottoposti, ma fino a quel momento aveva svolto un lavoro pressoché impeccabile. Era fresca di studi, non aveva una famiglia a carico e lavorare qualche ora extra non le costava affatto, a suo dire.
Quasi la vedeva mentre parlava al telefono, appuntando qualcosa sull’agenda che aveva davanti. Poche domande precise, che richiedevano risposte altrettanto precise, confronti di date e orari, appuntamenti di lavoro, cause che venivano rinviate per richiesta della difesa… lei appuntava e riorganizzava la sua giornata in base a quello. Byakuya doveva riconoscere l’effettiva efficienza della giovane, tutt’altro che presa a limarsi le unghie o a fargli gli occhi dolci come già in passato gli era capitato. Gli si rivolgeva con rispetto sincero, lasciava sempre l’ufficio insieme a lui, al mattino era già alla scrivania quando lui arrivava, ogni giorno impeccabile in un completo semplice ma elegante, che fosse un tailleur dal taglio giovane, ai pantaloni e camicetta. In cuor suo, sebbene non volesse ammetterlo, Byakuya sperava che quella fosse la volta buona, che almeno lei resistesse. Venne distratto dallo squillo del telefono, a cui rispose dopo una manciata di secondi ed un altro squillo.
«Dottore, c’è il signor giudice Yamamoto sulla linea 2.» eccola, quella voce bassa ma sempre gentile che ormai aveva imparato a conoscere. Facendo mente locale e scacciando i pensieri inutili, si sistemò meglio sulla poltrona.
«Grazie, Hisana.».
Si allungò per premere il numero della linea, provvedendo ad avvicinarsi le carte che gli sarebbero potute servire. Anche quello sarebbe stato un lungo pomeriggio, già se lo aspettava. Come aveva previsto, la chiamata riguardava il caso imminente per cui la difesa avversaria aveva chiesto il rinvio dell’udienza. “Necessità di verificare altre prove”, avevano detto. L’unica prova che avrebbe salvato l’imputato da una condanna certa era solo quella che confermava l’operato di una qualche entità superiore che gli aveva fatto il lavaggio del cervello. Ma proprio per non lasciare nulla al caso aveva deciso di preparare un’accusa impietosa, lo stesso trattamento che riservava a chiunque fosse il malcapitato imputato che aveva la sfortuna di avercelo contro.
Ascoltò tutto ciò che il giudice aveva da dire, riponendo la cornetta solo dieci minuti più tardi. Si alzò dalla poltrona per sgranchirsi un po’ le gambe, in fondo era seduto da ore e aveva lavorato senza sosta. Optò alla fine per un bel caffé e uscì dallo studio, incrociando quasi per caso lo sguardo di Hisana che, come lo vide, scattò in piedi come un soldato sull’attenti, facendogli scappare un sorriso.
«Dottore, è forse successo qualcosa?» chiese, sinceramente preoccupata.
«No, nulla di che.» rispose lui, facendole cenno con la mano di rimettersi seduta «Avevo solo voglia di prendermi un caffé.».
«Potevate dirmelo, dottore, ve l’avrei portato subito. Non è necessario che vi disturbiate.».
La giovane si alzò nuovamente, facendo il giro della scrivania, nonostante l’invito di Byakuya a restare seduta. Si appartò in un angolo della stanza dove c’era una piccola credenza e tutto il necessario per intrattenere qualche cliente particolarmente importante con qualche bevanda. Ben presto nella saletta aleggiò l’aroma di caffé appena fatto, mentre il gorgogliare della moka riempiva il silenzio che si era creato tra di loro.
Byakuya osservò attentamente la scrivania della giovane: il famoso calendario/agenda era riposto aperto vicino al telefono, i documenti erano ben impilati e suddivisi per cliente o tempi di urgenza, una semplice tazza decorata con fiori dai colori pastello fungeva da portapenne. Su un angolo, lontano dallo schermo del pc, aveva  messo un vasetto con una piccola stella di Natale, di quelle probabilmente prese in un supermercato per pochi yen. Il vaso era avvolto con della carta da pacchi rosso brillante, tenuta ferma da un nastro dorato chiuso a fiocco. Una piantina che le si addiceva, minuta ed elegante come lei. Notò anche, però, la totale assenza di fotografie. Solitamente le sue precedenti segretarie si portavano le foto dei mariti, dei figli, dei fidanzati, per averli vicini anche se solo sulla carta stampata. Lei invece no, sulla sua scrivania non vi era la minima traccia di un portafoto, nonostante le avesse detto di decorare il proprio tavolo come meglio preferiva. Come se non avesse affetti a cui tenersi aggrappata, o momenti racchiusi nella carta e inchiostro, immortalati per essere sempre ricordati.
Si voltò verso di lei, indaffarata su quel piccolo fornelletto a parete un po’ nascosto dal resto dell’ambiente, mentre afferrava la caffettiera con una presina per non scottarsi e versava quel liquido scuro e bollente in una tazza. Gli pareva così strano che in quel corpo tanto esile ci fosse la forza di tirare avanti tutta la giornata senza mai risentirne, anche prolungando l’orario lavorativo di svariate ore. Eppure Hisana non si lamentava mai, anzi, lavorava con solerzia da quando arrivava a quando lasciavano l’ufficio. Certo, anche le altre segretarie erano state altrettanto diligenti nel proprio mestiere, ma lei aveva… qualcosa in più. Sembrava veramente metterci l’anima in ciò che faceva, per non deluderlo e per facilitargli il più possibile il lavoro. Si era presa carico anche di tenere i contatti con gli amministratori della palazzina dove c’era il loro studio, di sistemare le scartoffie per banca e poste… insomma, si dava decisamente da fare.
Sorrise, il giovane, mentre Hisana gli porgeva la tazza con la bevanda già zuccherata – due cucchiai, non di più. Sicuramente non era una santa scesa dal cielo, ma per quello che poteva, avrebbe fatto il possibile per tenersela stretta.

** ** **

Quando entrarono in aula studio, non si aspettavano sicuramente di trovare così tanta calca. Certo, l’orario scelto era parecchio infelice, un po’ se l’aspettavano… tuttavia, dato che parlare in biblioteca era impossibile – c’era gente pronta a zittirli al minimo sibilo, figurarsi! – non avevano alternative. Darukia sospirò pesantemente, tirandosi dietro Hichigo che, sottilmente, sperava che non ci fosse nemmeno un posto libero. Evitò di dirlo ad alta voce, prima che la piccoletta che lo stava trascinando per una manica gli sparasse un colpo dei suoi. Darukia era minuta, certo, ma sapeva dove e come colpire. Il suo stomaco aveva provato più volte il tenero impatto con un suo pugno, e detta francamente non ci teneva a replicare l’esperienza, specie davanti a tre quarti di facoltà. Non che uno grande e grosso come lui ci facesse una bella figura, a farsi trascinare per la stanza da una piccoletta pelle e ossa, ma d’altro canto lo rincuorava il fatto che nessuno avrebbe osato deriderlo – non se ci tenevano a tornare a casa con tutte le ossa intere.
Darukia continuava a guardarsi intorno con aria meditabonda, rallentando il passo man mano che realizzava il fatto che la stanza era completamente piena. Dentro di sé Hichigo ringraziò la propria buona stella: sapeva che non sarebbe sfuggito alle famose ripetizioni, ma se non altro poteva posare il fondoschiena sul divano, e non su una di quelle scomodissime sedie in plastica rossa, tre quarti delle volte anche schifosamente traballanti. Stavano per fare retro-front quando, quasi per caso, la ragazza notò due posti ad uno dei tavoli nascosti dall’angolo della stanza, vicino all’uscita d’emergenza. Ci trascinò il compagno con l’espressione più allegra che le avesse mai visto, il sorriso che le piegava le labbra andava da un orecchio all’altro, neanche le avessero dato sul momento la laurea con il massimo dei voti e la lode. Rallentò quando si accorse che il tavolo era già occupato da un ragazzo dai capelli rossi, e che uno dei due posti liberi veniva usato come appendiabiti e appoggio per la borsa. Il giovane non alzò minimamente la testa quando gli andarono vicino, continuando a giocherellare con una matita mentre studiava sul grosso tomo di psicologia clinica.
«Ehm, scusa… questi posti sono liberi?».
Lo sconosciuto alzò lo sguardo verso di lei con aria quasi seccata, neanche gli avesse urlato nell’orecchio, rispondendo solo con un cenno del capo e togliendo la propria roba dalla sedia accanto.
Darukia lo ringraziò esitante e pure un po’ sconcertata: non si poteva certo dire che quel tipo fosse un chiacchierone, men che meno un mostro di simpatia. In fondo si era scusata prima di parlare, e la sua era stata una domanda innocente e quanto mai breve, eppure l’aveva guardata come se fosse la peggiore delle rompiscatole in Terra. Tutt’altro che impensierito dalla reazione dell’altro Hichigo tirò la sedia in questione verso di sé, poggiandola in malo modo e stravaccandocisi sopra, con la borsa stretta in grembo. Se ne fregò bellamente dell’occhiata truce che il rosso gli aveva rivolto, dato che gli voltava le spalle senza preoccuparsi di risultare maleducato. Sospirando, la ragazza si sedette a propria volta, disponendo sul tavolo il necessario, tra cui il quaderno aperto sugli appunti presi dall’albino.
«Ah, no, eh. Quelli non si toccano.»  sbottò lui, indicandole il quaderno «Sono perfetti così come sono.».
«Hichi, lascia perdere, quelli li rivediamo dopo. Ora tira fuori il libro di neuroscienze, dai.» replicò lei a bassa voce, aprendo il libro e avvicinandosi il quaderno.
«Uuuh, che facciamo, stavolta? E comunque, perché parli così piano? Mica ci sono i rompipalle della biblioteca, qui.».
Darukia gli indicò con un cenno del mento il ragazzo di fronte a loro, come a fargli capire che non voleva disturbarlo, già pareva abbastanza irritato. L’albino se ne uscì con un’alzata di spalle totalmente menefreghista, gettando con un tonfo il libro sul tavolo e la borsa per terra, e ghignando soddisfatto quando vide l’altro prendere le cuffie dell’ipod e cacciarsele sulle orecchie.
«Ecco, così non rompe più le palle. Allora, cosa facciamo?».
«Vediamo… oh, beh. Credo che ti piacerà, Hichi.».
Gli mostrò il libro aperto su un nuovo capitolo, ben oltre la  metà del volume, che provocò nel ragazzo un sorrisetto da perfetto arrapato. Aprì il libro a propria volta, leggendo il titolo ad alta voce, incurante.
«“Gli ormoni sessuali, il cervello e il comportamento.”. Oggi siamo in vena di sconcezze, eh, Darkie? Guarda che so come reagiscono la patata e il condor quando si fanno le porcellate.».
«Non sono in vena di niente, scemo. Sei tu che non ascolti mai quando siamo in classe. Almeno questo speravo l’ascoltassi!».
«Ah, speravi?».
«Avremmo avuto meno da fare, ma dato che Vostra Pigra Magnificenza non aveva voglia di stare attento, ci tocca fare anche questo. Forza, meno commentini stupidi e più lavoro, o ‘ste cose te le fai spiegare da tuo fratello.»
«Seh, figurati. Quella pudica verginella morirebbe di vergogna, mi lancerebbe il libro e mi direbbe di arrangiarmi.».
Passarono così un’ora abbondante, condita di occhiatacce della ragazza al compagno che, con abilità quasi magistrale, era capace di trovare esempi e metafore assai azzeccati e convincenti. Darukia ormai aveva perso la speranza di vederlo seriamente concentrato, ma se quello era l’unico modo per farlo lavorare, tanto valeva adattarsi. Fortunatamente il rosso che era con loro non trovò mai da ridire, isolato com’era nello studio e nella musica alle cuffiette - era la prima volta che trovava qualcuno che studiava ascoltando i notturni di Chopin. Aveva aiutato Hichigo scribacchiandogli degli schemi per rendere il tutto più facile, e comunque ne approfittava a propria volta per ripassare, cosa che comunque non le avrebbe fatto male. La quantità di dolcetti e bicchierini di caffè andava ormai ad accumularsi sempre di più al lato del tavolo, dato che Hichigo esigeva la pausa merenda ad ogni argomento terminato, e pure nel bel mezzo. Per riporre il sacchetto di patatine aveva spinto il quaderno di psicologia dinamica vicino al ragazzo che, strano ma vero, distolse lo sguardo dal libro per dare una sbirciata a quei famigerati appunti. Nel frattempo, Hichigo aveva appena tirato fuori il libro di psicanalisi e si accingeva ad aprirlo alle pagine indicate da Darukia quando, per la prima volta da quando erano lì, il rosso si decise a parlare.
«… Ti prego, dimmi che ‘sta porcheria l’ha scritta tuo fratello delle elementari.» disse, indicando il foglio con la matita e guardando l’albino a metà tra lo schifato e l’incredulo «Mi rifiuto di credere di aver davanti un esemplare così sottodotato di materia cerebrale, specie se consideriamo il fatto che siamo in una delle facoltà di Psicologia migliori del Paese.».
Inutile dire che Hichigo non la prese esattamente bene. Scoccò all’altro un’occhiata di puro odio, digrignando i denti e stringendo tra le mani un paio di patatine, riducendole in briciole.
«Senti, sottospecie di barbabietola, mi rifiuto di credere che tu non abbia una fottuta padellata di cazzi tuoi a cui pensare.» ribatté, poggiando il mento su una mano e tentando di non fare una sfuriata nel bel mezzo dell’aula studio. Poco ma sicuro, se lo avesse incontrato fuori non gli avrebbe risparmiato qualche cazzotto. Si ripulì le mani gettando a terra le briciole, sfregandole poi su un fazzoletto di carta che gettò nel cestino con stizza. Ci mancava solo il saputello di turno, oh.
«Quegli appunti erano uno scherzo, non è scemo fino a questo punto.» soggiunse Darukia, richiudendo il quaderno con aria seccata e ricacciandolo in borsa.
Il ragazzo le rivolse un’occhiata dubbiosa, inarcando il sopracciglio dell’unico occhio non coperto dalla frangia rossiccia e tamburellando sul libro con la matita, la testa poggiata sulla mano con aria molto naturale e, soprattutto, annoiata.
«Forse a tal punto no, ma di certo non è una stella nel firmamento della Psicologia. Almeno, stando a quanto gli hai semplificato quelle spiegazioni di neuroscienze…».
«Non vedo il motivo per cui dovremmo complicarci la vita quando dei concetti tanto astrusi possono essere compresi e memorizzati anche in maniera più semplice. E se permetti, certe insinuazioni le potremmo accettare da Wolcott Sperry, Gasser o Erlanger, ma di certo non da uno sconosciuto, a meno che tu non sia un discendente diretto o una copia ringiovanita.».
«Uuuh, ragazzina, per essere così piccola ne sai, eh?» l’altro ghignò, guardandola con aria di sufficienza «Ma ti consiglio di aiutare il tuo amichetto in altre maniere… se ha quest’idea dello sviluppo psicosessuale, non batte chiodo da un pezzo, fossi in te gli darei una mano d’aiuto, e intendila nel senso che preferisci... Darkie. Tra le righe, che razza di nome è?».
Darukia arrossì indignata, ma non fece in tempo a replicare che Hichigo aveva già afferrato il ragazzo per il bavero della felpa, costringendolo ad alzarsi dalla sedia, e gli stava letteralmente ringhiando a pochi centimetri dal naso.
«Non ti azzardare. Ribadisco, non ti azzardare mai più a prenderti gioco di lei, o le palle degli occhi te le strappo e te le caccio in un posto che non vorresti sentire occupato.».
Il rosso non parve affatto impressionato, al contrario, non aveva perso né la calma né la compostezza, e tanto meno aveva risposto alla provocazione. Fissava Hichigo come a volerlo sfidare ad alzare le mani davanti a tutti, e infatti nella stanza era piombato il silenzio, con più di qualcuno che si era voltato a guardarli.
«Hichi… dai, lascia perdere, non ne vale la pena…» Darukia tentò di fargli mollare la presa, guardandosi nervosamente attorno e accorgendosi di avere ormai gli occhi di tutti puntati addosso «Dai, smettila, stiamo dando spettacolo, mollalo prima che la sicurezza ti butti fuori.».
Senza dire nulla Hichigo lo mollò sgarbatamente, guardandolo schifato, mentre l’altro si risistemava alla bell’e meglio la felpa. Chiuse i libri e li buttò nella borsa, lasciando tutta l’immondizia sul tavolo e prendendo il giaccone sottobraccio.
«Andiamocene a casa, ‘sto imbecille mi ha fatto passar la voglia di studiare.».
«Come se ne avessi mai avuta, tu.» fu il commento derisorio dell’altro, che se ne fregò altamente di poter ricevere un altro strattone… o un più probabile pugno.
«Senti, pure tu, la vuoi piantare? Dovresti veramente pensare ai cavoli tuoi.».
«Penso a quello che mi pare… Darukia Kuchiki, terza classificata agli esami di ammissione dell’indirizzo di scienze cognitive.».
«Pensi di impressionarmi solo perché sai chi sono? Caschi male, rosso.».
«Deak Bookman, veramente. Non “rosso”.».
«”Deak”? Bell’assonanza con “Dick”, penso proprio che “testa di cazzo” sia un soprannome che ti si addica, sai?» Hichigo ghignò alle sue spalle, grattandosi la nuca.
L’altro non si scompose, di nuovo, e Darukia non poté che ammirare il suo self-control. Tuttavia rimise a propria volta i libri in borsa, indossando poi il giaccone e buttando i bicchierini e gli involucri nel cestino.
«Piacere di averti conosciuta, piccoletta.».
«Peccato non poter dire lo stesso, Bookman.».
Si voltò e si diresse fuori dall’aula con Hichigo al seguito, sentendosi ancora sulla schiena il sorrisetto di scherno del guercio dai capelli rossi.

   
 
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