L’inverno nel
Sussex è incredibilmente rigido, lungo e tedioso.
Il Dottore dice
che con la vecchiaia divento insopportabile, io mi rendo conto del tempo che
abbiamo speso insieme e mi chiedo perché non mi abbia piantato in asso una
decina di anni fa.
Watson non è cambiato
di una virgola se non per il bianco brillante che si è sostituito al biondo
delle sue tempie, io mi sento invecchiato di secoli nonostante la mia salute
sia minacciata solo da un lieve male alle ossa nei mesi più umidi.
La tranquillità ha
preso il posto dell’avventura e lo studio della filosofia e l’apicoltura hanno preso
il posto delle pericolose vicende che ci hanno resi noti alla stampa e all’opinione
pubblica londinese.
Nonostante tutto,
la tranquillità è il giusto coronamento dalla nostra convivenza: ogni mattina ho
la calma necessaria per notare come le rughe attorno agli occhi blu di John
siano più evidenti e i suoi capelli sembrino più slavati, infine mi rallegro
pensando che stiamo invecchiando insieme.
I taccuini di
Watson sono allineati su una mensola della libreria, i più privati in un baule
e io mi sto godendo il tempo necessario a scrivere alcune delle vicende del
passato che temo un giorno di poter dimenticare.
Penso che in fondo
questa sia la nostra peggiore paura: svegliarci un mattino e scoprire che non
solo abbiamo scordato di togliere il the dal fuoco o abbiamo lasciato la
boccetta dell’inchiostro che uso per illustrare le mie monografie aperta a
seccarne il contenuto, ma ci siamo dimenticati anche di come tutto sia
cominciato.
Per alcune delle
nostre avventure il Dottore ha scritto pagine dettagliate ma ci sono momenti che
sento di dover descrivere di mio pugno. Ci sono alcuni dettagli che sicuramente
John avrà dimenticato o parti intere del racconto che avrà deciso di omettere.
Poi ci sono le
storie che non ha raccontato e la nostra prima vacanza insieme è una di queste.
Seduto immobile
sulla sabbia bianca della spiaggia di Brighton, con l’umore più scontroso che
si potesse immaginare, osservavo John Watson sdraiato al mio fianco in maniche
di camicia, i pantaloni arrotolati a scoprire i piedi nudi e le caviglie e
l’espressione più stomachevolmente felice che avessi mai visto dipinta sul viso
di un uomo.
Come un distinto
gentiluomo vittoriano potesse all’occasione diventare poco più di un dodicenne
esagitato alla sola vista del mare mi era ancora un meccanismo oscuro eppure
Watson ne era un esempio calzante.
Sapevo della sua
smodata passione per la neve ma non avrei certo mai immaginato che si sarebbe
rivelato un passionale amante anche del mare e delle spiagge, così
diametralmente opposte al clima associato alle nevicate invernali che
scendevano fitte su Londra.
Se una volontà
divina avesse mai desiderato creare una creatura dell’estate probabilmente si
sarebbe limitata a dare origine al Dottore: stava rilassato senza nessun segno
evidente di fastidio per il sole cocente che lo cucinava da circa un’ora e
senza apparente traccia di traspirazione da parte del suo corpo perfettamente a
suo agio sotto i raggi bollenti delle due del pomeriggio. La sua pelle aveva
già assunto quella affascinante e delicata sfumatura mielosa che io non sarei
riuscito ad eguagliare neppure vivendo sotto il sole di un paese tropicale per
una vita intera. Il suo viso straordinariamente fresco (quasi infantile, per
dirla tutta) si era riempito di lentiggini color caffè e i ciuffi biondi sulle
tempie si erano schiariti fino quasi al bianco, donandogli un buffo aspetto fanciullesco
smentito dalle spalle larghe e dai baffi chiari (un mistero come riuscissero a
non risultare ridicoli su di lui).
La sua abitudine
di passeggiare ad Hide Park con il viso rivolto al sole come un rettile che
cercasse di catturare più calore possibile mi aveva certo già rivelato il
piacere che traeva dal caldo delle stagioni più miti e la sua altissima
tolleranza alle alte temperature, lascito silenzioso dell’Afganistan, ma non
avrei mai immaginato che la vacanza potesse risultare per lui liberatoria fino
a questo punto.
Quanto a me posso
dire che il solo atto di pensarmi in relazione all’afa dell’estate mi faceva venire
brividi di puro disgusto perciò, quando avevo preso la decisione di partire per
Brighton e mi ero interrogato sul motivo di quella scelta, una sola ragione era
parsa convincente a giustificare il mio autolesionismo: John Hamish Watson, che
parlava del mare in toni entusiastici oltre ogni immaginazione.
Sentendosi
probabilmente osservato, Watson si voltò a cercare il mio viso con un sorriso
insopportabilmente deliziato a incurvargli le labbra, spento all’istante dalla
vista del mio aspetto a dir poco pietoso.
“Holmes, i tuoi
occhi!” si levò a sedere repentinamente, schermandomi il viso con le mani in un
gesto protettivo che inaspettatamente non trovai irritante.
“Cos’hanno i miei
occhi?” cantilenai, la voce fiacca. Mi sembrava l’ultimo dei miei problemi,
dato che sentivo il viso in fiamme e la camicia incollata alla schiena da un fastidioso
velo di sudore tiepido.
“Sono di un colore
preoccupante.” concluse, accarezzandomi la guancia brevemente e alzandosi con una
forza aggraziata a dir poco sorprendente (a volte riusciva a ignorare la sua gamba
con stupefacente noncuranza) per poi prendermi la mano.
Mi tirò in piedi e
mi accarezzò il fianco con tenerezza, spingendomi a seguirlo verso la casa
oltre lo steccato bianco che divideva la spiaggia dalla strada. Il piccolo
cottage che avevamo affittato per passarci solo una manciata di giorni era di
un brillante color latte e menta scrostato dalla salsedine fin quasi al legno
chiaro delle pareti esterne ed era a poco più di cinquanta metri dal bagnasciuga,
separato solo da una staccionata imbiancata di fresco e da un modesto muretto
di mattoni sbiancati dal sale.
“Andiamo al buio,
mio caro. Se posso essere sincero il tuo intero corpo è di un colore
preoccupante.” aggrottò la fronte abbronzata e poggiò un palmo fresco sulla
mia, bollente. Le sue dita e il suo intero corpo odoravano di sabbia e polvere,
tanto che avrei scommesso che le sue tasche nel fossero piene.
“Me la caverò da
solo, vai a goderti il sole.” lo liquidai con un gesto della mano.
Sapevo quanto
aveva desiderato questo tempo lontano da Londra, perso fra la scogliera e le
case bianche, il mare azzurro e i cespugli profumati, nell’assurda banalità di
un contesto che giudicavo a dir poco noioso.
Ventiquattr’ore
lontano dalla città e già la mia impazienza si stava facendo insopportabile e
il mio umore più cupo, una settimana era a dir poco una prospettiva
annichilente. Mi pentii di non aver portato con me l’astuccio con la siringa e
la boccetta di cocaina, poi mi sentii vagamente a disagio per aver pensato alla
droga mentre Watson era con me: gli avevo promesso che in sua presenza non l’avrei
più neppure nominata, figuriamoci toccata o iniettata.
“Ti salirà la
febbre se non mi occupo di te e ci rovinerai la vacanza.” sussurrò in tono
carezzevole, spingendo la porta che non avevamo sentito il bisogno di chiudere
a chiave tanto eravamo distanti dal villaggio.
L’ombra nella casa
era fresca e un brivido di sollievo mi attraversò dolcemente la schiena,
intercettato dalle dita del Dottore appoggiate al mio fianco. Ridacchiò
brevemente nell’ombra intercettando lo specchio all’entrata lasciando che mi ci
guardassi. Deglutii ripetutamente cercando di ricacciare sul fondo della mia
gola il gemito di sconforto che era la diretta conseguenza dell’apprendere la
mia penosa condizione: qualsiasi lembo di pelle scoperta dai miei vestiti aveva
assunto un preoccupante tono scarlatto a coprire il naturale pallore latteo
della mia cute chiara e gli occhi iniettati di sangue contrastavano con le
iridi incolori. Devo dire che, se Watson non fosse stato un medico in grado di
giudicare la gravità della situazione, si sarebbe certamente risparmiato la
risatina che aveva soffocato vedendomi allo specchio.
“Guardati Holmes:
avresti dovuto dirmi che non volevi venire a passeggiare con me sulla
spiaggia.” mi prese il viso fra le mani e leccò la mia bocca con tenerezza. Il solo
avvicinarsi delle sue labbra aveva intercettato per un istante molto lungo
tutta la mia attenzione e lo schiudersi lento della sua bocca aveva arrestato
per un attimo il lavorio incessante della mia mente, costringendolo ad un ignorabile
ronzio di sottofondo.
“Non sei fatto per
il sole.” sussurrò, accarezzandomi i capelli madidi. Per quando mi sforzassi di
riprendere il filo del pensiero che avevo così prontamente inseguito fino ad un
istante prima la riuscita dell’operazione mi sembrava un’impresa impossibile,
le dita calde di John mi fecero infine desistere.
“Ma tu si.”
mormorai, le dita a scompigliargli i capelli chiarissimi. I suoi colori si
erano adattati dolcemente a quelli della costa, dal petrolio maroso dei suoi
occhi blu al color sabbia che aveva assunto la sua pelle mielata. Scavai
intensamente nel fondo delle sue iridi disarmanti rendendomi improvvisamente
conto di aver smesso semplicemente di pensare, anche il debole ronzio si era
acquietato lasciandomi nel vuoto e nel silenzio.
“Hai gli occhi più
belli che abbia mai visto. Chiudili, non riesco a pensare.” glielo dissi con
tono scocciato, non senza un po’ di rammarico per non aver costruito la frase
in modo che sembrasse più un rimprovero che un complimento. L’amore è la più
grande debolezza della mente umana, questo l’avevo sempre saputo, eppure
sembrava non dovesse più importare granché delle mie conoscenze da sei mesi a
quella parte
“Non sono così
straordinari. Non direi, no.” rispose, sollevandosi sulle punte per baciarmi le
palpebre chiuse una per una. Quando le risollevai la luce, per quanto tenue,
ferì le mie pupille per un istante e Watson mi sfiorò l’angolo della palpebra
con il pollice, carezzando le ciglia scure.
“Occhi freddi come
il gelido vento scozzese*. Suppongo di poter dire che guardarti è come essere a
casa mia.” sorrise, le dita sulle mie guance febbricitanti. Ebbi la decenza di
non arrossire ma deglutii a vuoto con sorprendente silenziosità per far
scomparire il groppo in fondo alla mia gola.
“Penso sia un
insieme di collegamenti mentali con i nostri ricordi a determinare l’affetto
per le persone che amiamo. Guarda i tuoi occhi per esempio, perdonami perché
sto per impiegare i miei metodi su di te
John ma lo farò solo questa volta, sono dello stesso blu scuro del mare delle
coste francesi. Eravamo soliti passare le estati della nostra infanzia in una
casa di parenti in Provenza, io e mio fratello Mycroft. Avevano la spiaggia a
pochi passi dalla grande villa e, sinceramente, ricordo la pacifica solitudine
di quel periodo passato a curiosare per la tenuta come uno dei ricordi migliori
della mia infanzia. Suppongo non fosse facile avere a che fare con me, un
bambino troppo perspicace che non sapeva dosare le proprie maniere nei
confronti della collettività, e risultavo spesso inopportuno e a conoscenza di
segreti pericolosi per la tranquillità della famiglia. Stare solo era
illuminante e il silenzio e le onde che si infrangevano con ritmo costante
erano i soli suoni che riempivano e chetavano la mia mente laboriosa.
Non mi è mai
piaciuto il sole, a cinque anni la mia pelle sapeva diventare molto peggio di
così per un’esposizione molto più breve alla luce del primo pomeriggio, ma il
mare è sempre stato una compagnia piacevole.
Ora sono cambiate
molte cose: i parenti francesi sono morti, la salsedine ha scrostato l’intonaco
della casa dei miei ricordi e ho infine imparato a fingere di essere una
persona cortese per compiacere i miei clienti. Poi c’è casa nostra a Londra
dove la Francia, l’infanzia, la vecchia villa e il viso di mia madre si fanno
ricordi sempre più lontani.
Infine ci sono i
tuoi occhi, che hanno il colore del mare profondo e della costa rocciosa, e la
capacità singolare di farmi sentire al posto opportuno nel momento giusto ogni
volta che li guardo. Non ho mai conosciuto il concetto di casa, non ho mai
desiderato appartenere a nessun luogo eppure il concetto di appartenenza a te
si impone come una costante.” terminai, aspettando che dicesse che aveva perso
il filo del monologo. L’unica cosa che fece fu sbattere le ciglia umide e
sorridermi, una buffa smorfia commossa che gli illuminò gli occhi e mi spinse a
desiderare di baciarlo per il resto della giornata.
“Non devi dire
queste cose.” mugugnò sulla mia bocca mentre mi baciava, le mie guance calde
contro la sua bocca fresca e la lingua bollente a ustionarmi la pelle scottata
della mascella.
“Non dici che sono
sempre troppo formale?” chiesi, faticando a seguire il filo dei miei pensieri
con le sue labbra contro la gola.
“Solitamente lo
sei, si. Poi dici le cose tutte in una volta, dovresti dosarle così eviterei di
commuovermi come una donnetta.” sorrise, gli occhi lucidi e la bocca rossa. Mi
chinai su di lui per abbracciarlo, le mie braccia lunghe che lo avvolgevano
fino a posarsi su tutta la schiena, mentre lui si alzava sulle punte per
baciarmi la fronte.
“Grazie a Dio sei
un uomo: se tu fossi mia moglie sarebbe a dir poco imbarazzante.” rise,
dimenticando che il nostro bacio era illegale e il nostro rapporto punibile con
la prigione. Quanto coraggio e quanta stoltezza riuscivo a vedere nei suoi
occhi giovani!
“Ti amo, Sherlock
Holmes.” sussurrò e feci fatica a respirare per un attimo. Nessuno di noi due lo
diceva mai, restava un verbo nascosto fra le righe di mio adorato amico e mio caro
compagno in modo che nessuno a parte noi potesse sentirlo. Avevamo
tacitamente promesso a noi stessi che ci saremmo tenuti al sicuro da quella
frase per il resto dei giorni passati insieme eppure decisi di lanciare la
promessa alle ortiche.
“Ti amo, John Hamish Watson.” sussurrai. In fede mia, non vidi mai sguardo
più felice di quello che Watson mi rivolse nella penombra. Immaginai facilmente
quando dovessimo risultare palesi nei nostri sentimenti nell’intimità dell’ingresso
di quella casa che, dopo la nostra vacanza, non avremmo più visitato ma non
realizzai mia quanto lo saremmo stati anche fuori da quelle stanze, infine
ritornati ad indagare a Londa. Penso che per la maggior parte del tempo
Lestrade abbia fatto finta di non vedere l’ammirazione e l’attrazione che
scorreva nel nostro sguardo, come penso abbiano finto molte altre persone
inclusa Mrs Hudson. Gli unici che non si posero lo scrupolo di quella recita furono
Mycroft, che aveva compreso probabilmente da molto più tempo di me cosa sarebbe
successo, e il professor Moriarty, che seppe sfruttare la situazione a suo
vantaggio.
Noi, dal canto
nostro, spendevamo il nostro tempo e le nostre energie a coprirci le spalle a vicenda
e, se non ci riuscivamo a dovere, a medicarci a l’uno con l’altro le ferite. La
morte o la separazione non erano opzioni contemplabili.
Poi arrivò Mary
Morstan e io scelsi le cascate di Reichemback.
*le origini del Dottore mi sono ignote ma Doyle era scozzese perciò ecco perchè la scozia :)
nda: potevamo evitarci tutto
questo inutile spreco di lettere? certo che si, non porta da nessuna
parte. Holmes sembra una dodicenne? probabilmente. Non c'è una
ragione per tutto questo se non che volevo descrivere con minuzia le
lentiggini di Watson perchè nella mia testa ha la classica pelle
inglese che si riempie di efelidi e perchè volevo che si
dichiarassero il reciproco ammmmore <3