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Autore: SAranel    13/03/2012    13 recensioni
Tutto è cominciato un lunedì mattina, a colazione, quando John sente Sherlock chiamarlo in una maniera decisamente...insolita. Cosa succederà, alla fine?
"John strabuzzò gli occhi e piantò lo sguardo su Sherlock come se avesse appena visto un fantasma. Pezzettini della sua colazione finirono inevitabilmente a decorare il parquet.
A quanto pareva però, Sherlock sembrava non essersi accorto nemmeno delle sue stesse parole.
“S-Subito” disse John, afferrando il set delle provette, senza staccargli gli occhi di dosso.
Adesso era decisamente sveglio, e anzi, in quel momento dubitava fortemente che sarebbe riuscito a riaddormentarsi, quella notte.[...]
Genere: Commedia, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le dieci e mezza! Stavo per esclamare un vivace ‘Buonasera!’ ma sarà meglio optare per un ‘Buonaquasinotte!’
Rieccomi qui (mancavo in questa sezione da quanto? Due, tre giorni? Lo so, sono esasperante e mi scuso!) con una storia nata ieri notte, e buttata giù oggi, che volevo come sempre condividere con tutti voi!
Sherlock potrebbe risultare leggermente OOC (e lo capirete da una particolare cosa nei confronti di John, che credo il vero Sherlock non farebbe mai nemmeno nelle più rosee speranze) ma che spero vivamente possa piacervi!
Grazie mille ancora a chi legge e recensisce! Non ci saranno mai abbastanza 'grazie' per voi! Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!

S.

 

 

 

Una piccola sfida per te, John

*

 

 

 

La prima volta che John si sentì chiamare in quel modo quasi rischiò di soffocarsi con il pane tostato. Era ancora assonnato, in piedi solo da dieci minuti quando si era seduto al tavolo della cucina davanti a Sherlock già perfettamente sveglio, anche se in pigiama e vestaglia intento ad osservare con vivo interesse qualcosa nel microscopio.
“Cosa fai?” domandò John più per cortesia che per un reale interesse. A quell’ora del mattino, le sue conversazioni erano dettate solo da una specie di automatismo involontario. Non capiva come Sherlock potesse possedere un tale livello di attenzione alle sette e trenta del lunedì mattina…ma con lui, tutto era possibile.

“Nulla. Sto dando un’occhiata ad alcuni campioni che ho raccolto ieri” rispose lui senza distaccare gli occhi dalla lente del microscopio, come se fosse una questione di vitale importanza.

“Sai che esistono innumerevoli tipologie diverse di terriccio, nella sola Londra?” disse con il tono di qualcuno che ha appena fatto una scoperta epocale. “Potrebbe essere un elemento fondamentale, in certe indagini”
“Interessante” fu tutto quello che John riuscì a dire, rimanendo a guardarlo lavorare, come incantato. Quando riuscì a riacquistare lucidità si alzò dalla sedia, sgranchendosi gli arti, e infilò due fette di pane nel tostapane e mise il bollitore sul fuoco.
“John puoi passarmi quel fascicolo sul tavolo per piacere?” Sherlock gli domandò poi mentre attendeva pazientemente che l’acqua arrivasse ad ebollizione. John lo guardò per un secondo, prima di individuare la cartellina in questione. Gliela porse e Sherlock, ancora senza staccare lo sguardo dal vetrino gli fece un cenno di ringraziamento.
John preparò il tè e lo verso nella sua tazza scheggiata, imburrando due fette in un piatto e tornando a sedersi accanto a Sherlock.
“E’ così importante?” domandò ancora a Sherlock, trovando irritante quell’eccessivo silenzio, nonostante avesse sopportato anche di peggio da parte del detective. Quell’esagerazione di scrupolosità però, per un motivo o per l’altro lo alterava parecchio. Come se vedesse del potenziale tempo da trascorrere con lui andare in fumo per…per i cento o chissà quanti tipi di terreno presenti nel suolo di Londra. John arrossì.
“Importantissimo” sottolineò Sherlock con voce impostata, concentrata. John scosse la testa, prevedendo una noiosa mattinata all’ambulatorio seguita da un pomeriggio di noia assoluta a osservare Sherlock lavorare e a guardare programmi spazzatura alla tv. Mangiucchiò svogliatamente il suo toast, masticando lentamente pur di avere qualcosa con cui tenersi impegnato.
Poi Sherlock tossi. John alzò lo sguardo ma nulla. Ancora totalmente preso.
“Ti dispiacerebbe passarmi la provetta accanto a te, amore?” domandò poi il detective. John strabuzzò gli occhi e piantò lo sguardo su Sherlock come se avesse appena visto un fantasma. Pezzettini della sua colazione finirono inevitabilmente a decorare il parquet.
A quanto pareva però, Sherlock sembrava non essersi accorto nemmeno delle sue stesse parole.
“S-Subito” disse John, afferrando il set delle provette, senza staccargli gli occhi di dosso.
Adesso era decisamente sveglio, e anzi, adesso dubitava fortemente che sarebbe riuscito a riaddormentarsi, quella notte.

 

§

 

La seconda volta che Sherlock si lasciò sfuggire quell’insolito vezzeggiativo, non erano soli.
Nell’obitorio del Barts, Sherlock sembrava decisamente interessato alla misteriose cause della morte di una modella bionda, sui venticinque anni, che presentava degli strani lividi all’altezza delle spalle. Concentrato com’era nell’annusare, osservare, toccare, come suo solito, John era diventato completamente estraneo alle attenzioni del detective. Il medico aveva preferito allontanarsi e osservare fin quando non sarebbe stato richiesto il suo parere. Molly, fino a qualche secondo prima intenta a scribacchiare qualcosa su di un foglio, posò il suo lavoro e lo raggiunse.
Sorrise al medico, che ricambiò più che volentieri tornando poi ad seguire le mosse di Sherlock seguita a ruota dalla ragazza, che come sempre era più che attenta ad ogni minimo movimento del detective.
“Concentrato eh? Sempre, ogni volta. Non gli sfugge mai nulla. Mi domando se scolleghi la mente ogni tanto” disse, a voce bassa per far si che Sherlock non sentisse. “Insomma, non fa mai nulla, non dice mai niente…sovrappensiero?

John trattenne un verso sorpreso quando le parole di Molly gli ricordarono il piccolo shock mattutino di soli due giorni prima. Deglutì e si costrinse a rivolgerle una scrollata di spalle e un lieve cenno di assenso.
“Capita, ma solo qualche volta” rispose. La ragazza sospirò, tornando a guardarlo. Voleva evitare la conversazione, almeno quella sullo ‘scollegare la mente’ riferito a Sherlock perché sapeva che lo avrebbe inevitabilmente portato ad un’altra notte insonne e di riflessione. Propose a Molly un caffè ed uscì nel corridoio verso il distributore.

John non aveva ancora saputo spiegare quello che era successo il lunedì precedente, il perché Sherlock lo avesse chiamato in quel modo quando era sicuro, strasicuro, che una cosa del genere fosse anni luce lontano dalla mentalità del coinquilino.
Sospirando, raccolse i due bicchieri colmi di caffè caldo e tornò nell’obitorio dove Molly sembrava aver ancorato gli occhi su Sherlock senza la minima intenzione di volersene scollare. Non riusciva a non provare pena, per lei.
“Caffè” disse, distogliendo per un secondo l’attenzione di Molly, focalizzandola su di lui. Lei sorrise, dolcemente e lo ringraziò.
“Sei molto gentile” disse, ritornando alla sua sognante osservazione.
Sherlock adesso aveva abbandonato la fase contemplativa della ragazza sul tavolo per passare ad un’intensa lettura del fascicolo del suo caso. John lo guardò mordersi le labbra, nervosamente, come se non riuscisse a venire a capo di qualcosa, come se avesse un dubbio irrisolto.
“Amore, puoi passarmi la penna di Molly?” domandò, leggendo allo stesso tempo alcuni dati annotati con dovizia da Lestrade.

John raggelò, per la seconda volta in soli tre giorni. Aprì e chiuse la bocca, senza sapere cosa fare, all’improvviso dimentico di come si usassero gambe e braccia. Con una lieve torsione del collo, unico movimento che fosse riuscito a compiere, incrociò lo sguardo incredulo e sbigottito di Molly. Scosse la testa piano, come a dirle di non chiedere spiegazioni a Sherlock, che con tutta la naturalezza del mondo aveva alzato il palmo per la penna, ma che era ancora immerso tra le righe d’inchiostro. Lei gli porse la penna e John la passò al detective, sbloccandosi Dio solo sa come.
“Grazie mille” fu tutto quello che Sherlock disse.
Il caffè di John andò a colorare di un vivace marrone scuro il pavimento asettico della sala.

 

§

 

La terza volta invece, erano soli. O almeno, erano soli nel negozio di camicie di Regent Street dove Sherlock aveva deciso di comprare il regalo di compleanno per John.

John non riusciva a non pensare al giorno prima, quando quella cosa era successa per la seconda volta. Ci aveva pensato tutta la notte, e il risultato erano le visibili e scure borse sotto i suoi occhi, e non era riuscito a venire a capo del dilemma. Non aveva semplicemente sbagliato il suo nome, come faceva con Molly o con Donovan, o Anderson. Aveva palesemente pronunciato la parola ‘Amore’. E questo mandava in crisi John più di qualunque altra cosa. Perché a John, il retto, etero –o almeno così era convinto fino a pochi giorni prima- quella cosa cominciava a piacere. Si sentiva lusingato, senza saperne il motivo, provava una sorta di gratificazione, eccitazione che non riusciva a spiegarsi a parole. Era qualcosa che sentiva e che lo faceva sentire stranamente bene.

Sherlock era impegnato in una fitta conversazione sms con Lestrade, che sembrava avere un altro caso da sottoporre alla sua attenzione. Le sue dita si muovevano veloci sulla tastiera virtuale e un lieve bip accompagnava i suoi movimenti. John sorrise quando lo vide giocherellare con la lingua sulle labbra, intento com’era in quel rapido botta e risposta.

Nel frattempo, stava osservando qualche camicia appesa all’espositore, soffermandosi su un paio che avevano attirato la sua attenzione. Andò allo specchio e cercò di immaginarsele indosso, optando per una delle due, bianca.
“Che ne dici Sherlock? Mi starà bene?” domandò John mostrando la camicia a Sherlock sventolando la stampella di legno. Il detective alzò leggermente lo sguardo quanto serviva per un occhiata veloce, che per lui bastava e avanzava per farsi un’idea perfetta, e annuì tornando poi al suo cellulare.
Il frenetico bip bip ricominciò, prima che parlasse per esprimere il suo giudizio.

“Secondo me è perfetta, amore” disse. “Andiamo a pagare”

John fece cadere la camicia sul pavimento e un commesso incravattato lo squadrò da capo a piedi. Il medico boccheggiò cercando di raccogliere la camicia da terra, ma trovando stranamente difficile coordinare il cervello con la presa della sua mano. Quando ci riuscì, tutto quello che riuscì a fare fu seguire Sherlock, che già si era avviato verso le casse, a passo svelto. Veloce quasi quanto il suo battito cardiaco, decisamente più rapido di un razzo.

“Oh per l’amor del Cielo” fu tutto quello che la sua mente riuscì a formulare.


§

La quarta volta, quella più importante, erano su di una scena del crimine assieme a Lestrade, Donovan e una decina di agenti della scientifica in azione. Era sera e Londra era avvolta in una coltre di gelo pungente. John si alzò il bavero del cappotto, cercando di coprirsi il più che poteva e Sherlock come al solito sembrava insensibile a qualsivoglia condizione atmosferica, stretto nel suo cappotto nero e nella sua sciarpa blu intorno al collo sottile.

Lestrade si avvicinò al detective, confabulando qualcosa che John non riuscì a udire, con il fruscio del vento che risuonava tra le pareti ampie di quel vecchio magazzino abbandonato.

“Quelle pozze d’acqua lì davanti sono sospette. Con questo freddo sarebbero dovute essere gelate ormai, invece l’acqua è addirittura calda, al tocco” riuscì poi a sentire, avvicinandosi. Sherlock gli lanciò una rapida occhiata. “Prendete qualche campione” propose a Lestrade che subito impartì ordini alla squadra.

“Che ne pensi?” domandò poi John guardando Sherlock e la sua tipica espressione pensosa. Il detective non rispose, non subito. Aprì bocca solo qualche minuto dopo.
“Oh, nulla di troppo complicato. La macchina abbandonata è del Signor Brown che non è affatto scomparso, io temo. Il sedile posteriore è decisamente consunto, ma la coppia non ha figli e dubito scarrozzino in giro qualcuno tanto spesso a sentire la moglie, e ciò mi fa dedurre che l’utilizzo di quei sedili sia a puro scopo…ricreativo se mi permetti la sottile metafora. Il foulard ritrovato nel portaoggetti non è affatto della moglie, nonostante lei affermi il contrario, è da poche sterline, da bancarella e il portamento della donna, il tailleur da mille sterline e il profumo che indossa indicano una certa posizione in società, e la tessera di un prestigioso club è volutamente in bella vista nel suo portafoglio. Ha diverse amiche del suo stesso ceto e sono praticamente certo che abbia mentito per non sollevare uno scandalo che certamente farebbe scalpore negli ambienti che frequenta e preferisce decisamente affermare il falso davanti ad un ispettore di polizia che infangare il suo nome. Tutto questo conduce al maritino scomparso e alla sua amante, o almeno una di esse, presso la quale adesso è nascosto. E la moglie sa perfettamente di chi è quel foulard, macchiato di alcool etilico e candeggina, così scioccamente dimenticato, perché lo vede tutti i giorni indosso alla loro donna di servizio. Alla polizia basterà seguirla per arrivare al povero Signor Brown”

John lo guardò con la solita espressione mista tra l’ammirato e lo sconcertato che seguiva ogni sua brillante deduzione e Sherlock sembrò non poter trattenere un sorrisetto compiaciuto.

“E le pozze d’acqua cosa c’entrano?” domandò poi John, ricordandosi della conversazione con Lestrade di poco prima. Sherlock sospirò.
“Oh assolutamente nulla. Sono residui della pattuglia dell’igiene stradale suppongo. Ma nulla potrà togliermi il piacere di vedere Anderson svolgere un minuzioso lavoro completamente inutile”

John ridacchiò divertito mentre osservava la squadra lavorare senza sosta sulla macchina abbandonata e sulla scena tutt’intorno, catalogando, sigillando, faticando per un caso che era ormai praticamente chiuso. Sherlock a volte sapeva essere terribilmente vendicativo.

“Sei crudele, Sherlock” disse il medico con ancora un ghigno sul volto. “Perfido”
Sherlock rispose con un alzatina di spalle.
“Lo so. Più tardi informerò Lestrade. Dal mio comodo divano in Baker Street”

Lestrade si avvicinò ai due, e rimase con loro a farsi un quadro generale della situazione.
Sospirando si rivolse a Sherlock trascinandolo in un’altra conversazione che lo portò lontano dal medico, come se fosse qualcosa di incredibilmente privato, e non ci volle molto per capire, lo faceva ogni volta, che voleva chiedergli qualcosa su sua moglie. Sherlock sembrava spazientito mentre spiegava qualcosa all’Ispettore, gesticolando concitatamente come se l’altro non comprendesse qualcosa di elementare. John guardò l’ora, le undici passate, e all’improvviso sentì tutta la stanchezza della giornata gravargli sulle spalle.

“Sherlock, chiamo un taxi?” John gridò attirando l’attenzione del detective. Quest’ultimo si staccò appena dalla conversazione con l’Ispettore facendogli un segno d’assenso con la testa.
“Vengo subito amore, tu chiamalo!” gridò in risposta.

John inciampò sulla grata di un tombino mal sistemato sulla strada, improvvisamente dimentico delle regole del buon pedone. Fu quasi sicuro di cadere rovinosamente addosso al taxi che aveva cercato di fermare e fu solo grazie ad una colonna della posta provvidenzialmente presente accanto a lui che evitò una caduta rovinosa e una epocale, memorabile figuraccia davanti a una buona ventina di poliziotti. Ma era stato inevitabile, inaspettato, impossibile da prevedere. Sherlock lo aveva fatto un’altra volta, e John non riusciva mai a darsi un contegno, a mantenere un controllo tale da non sentirsi ogni volta come un perfetto idiota, nonostante ormai sapesse che era qualcosa che poteva accadere da un momento all’altro, all’improvviso. Erano passati tre giorni dall’ultima volta e John aveva quasi cominciato a pensare, con un certo disappunto che lo aveva reso ancora più confuso su ciò che realmente voleva, che Sherlock avesse solo avuto un momento di eccessiva iperattività mentale che lo aveva fatto straparlare così, senza secondi fini.
Adesso però era la quarta volta e quattro volte erano decisamente troppe per un qualcosa buttato via così, sovrappensiero.

Lestrade, se possibile, aveva un’espressione ancora più sconvolta di quella che aveva avuto Molly tempo prima. Continuava ad osservare Sherlock e poi John, John e poi Sherlock come se stesse seguendo un’animata partita di tennis. Boccheggiò, senza sapere cosa dire davanti a quella situazione, mentre John, mordendosi un labbro, troppo lontano per far segni a Lestrade senza farsi scorgere da Sherlock pregava che l’Ispettore non facesse domande.
“Sh-Sherlock” lo chiamò Lestrade, ricevendo da questi solo un’occhiata annoiata. “Che…che hai detto?”

John avrebbe voluto eclissarsi mentre attendeva che Sherlock rispondesse, come si attende la risposta di una domanda da un milione di sterline ad un quiz televisivo. Il respiro era corto e non riusciva a tenere ferme le mani, che stritolava l’una con l’altra, compulsivamente.
Sherlock però, sembrò non capire e guardò Lestrade con aria di sufficienza.
“Ho chiesto a John di chiamare il taxi. Cosa ti sconvolge tanto?”
John espirò tutto il fiato che aveva trattenuto da circa due minuti e mezzo, il petto che si alzava e abbassava rapido, sentendo il nervosismo salire dentro, inevitabilmente.           
Eccolo li, che scendeva di nuovo dalle nuvole, senza accorgersi  di nulla, facendo come se niente fosse successo.
L’ispettore non rispose, ma si limitò a grattarsi la fronte, pensieroso. John comprese che probabilmente stava pensando alla probabilità che avesse sentito male. Cosa che John sapeva benissimo non essere vera. Lestrade guardò John che si limitò a ricambiare il suo sguardo, scrollando le spalle. Il poliziotto scosse la testa e si allontanò.
John era combattuto, curioso e confuso. Un indefinibile varietà di sentimenti stava lottando dentro di lui, e nessuno di essi era così definito da scuoterlo fino a dirsi: -Ecco! Posso farcela! Posso chiedergli di conoscere la verità!- e questo rammaricava John più di qualunque altra cosa.

Guardò Sherlock raggiungerlo e affiancarlo mentre sul bordo della strada attendevano pazientemente il passaggio di un altro taxi.

“Freddino, eh?” John riuscì a dire, cercando di rompere quel silenzio imbarazzante. Sherlock lo osservò con espressione enigmatica e un sorriso sottile pieno di parole non dette.
“Parli del tempo, John? Sei imbarazzato?” esclamò, con tono interrogativo. John si strinse nella sua giacca, arrossendo e pregando dentro di sè che il compagno non se ne accorgesse.

“Facevo conversazione. Stiamo in silenzio, se vuoi” rispose il medico, sulla difensiva.
“Oh no, mi piace sentirti parlare” si lasciò sfuggire Sherlock, lasciando John senza alcuna possibilità di risposta. John guardò il coinquilino a fondo, cercando di capire, comprendere il motivo di quel comportamento, di quella palese quanto sottile dichiarazione di affetto appena pronunciata. Sommata con quello che era successo nei giorni precedenti, un campanello di allarme comparve nella testa di John facendogli aprire gli occhi e la mente.
Qualcosa doveva succedere, perché andare avanti a quel modo, con piccole frasi, figuracce sfiorate o palesi, ammiccamenti vari e involontari gesti d’affetto non era davvero più qualcosa di sostenibile.
Doveva parlare, John lo sapeva, lo sentiva, lo voleva. Respirò profondamente, in una sorta di training autogeno per prepararsi al meglio a quello che aveva intenzione di fare. Chiuse gli occhi.

“C’è un taxi, John” Sherlock frantumò tutti i suoi buoni propositi. “Se corriamo riusciamo ad arrivare prima di quei due”
John vide una coppietta che si stava avviando di buona lena verso la macchina nera parcheggiata al marciapiede.
Sherlock prese a correre e John lo seguì, maledicendosi per non essersi deciso prima, mordendosi la lingua per aver perso un’occasione che non si sarebbe ripresentata così facilmente. Ci aveva messo talmente tanto!
Quando arrivarono davanti alla macchina però, vennero preceduti da una terza persona, che entrò nella macchina, intimando all’autista di partire.
Sherlock batté un pugno sul palo giallo, con evidente disappunto.
“Torneremo a casa domattina, me lo sento. Per uno sciocco caso di relazione extraconiugale”
John sorrise, senza riuscire ad evitarlo.
“E’ la tua punizione per il tuo piccolo scherzetto a Lestrade e compagnia” disse sicuro,  cercando di mettere da parte il suo disappunto, e beccandosi un’occhiata curiosa da Sherlock. Questi sospirò sistemandosi ancora il bavero del cappotto con aria di chi non è affatto pentito delle sue azioni.
“Può essere” rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Poco male”

John chinò lo sguardo e scosse la testa. Qualcosa nella sua mente poi scattò e alzò di nuovo lo sguardo, incrociandolo con quello del detective che sembrava terribilmente interessato al suo viso. Il cuore di John batteva talmente forte che quasi temeva che il coinquilino potesse sentirlo.

“Sei unico, Sherlock”

Sherlock sembrò sorpreso. Tossicchiò, come se non sapesse esattamente cosa replicare.
“Grazie John. Non so bene se prenderlo come un complimento, ma grazie”
John sorrise con dolcezza allo stupore sincero sul volto di Sherlock. Eppure pensava che si fosse abituato al suo continuo lodare le sue capacità con tutti quei ‘fantastico’ o ‘eccezionale’. Evidentemente però, Sherlock non ne aveva ancora avuto abbastanza.

“Figurati” disse il medico, compiaciuto di essere riuscito a mettere Sherlock in difficoltà per una volta. Dopo tornò ad osservare la strada, adocchiando in fondo alla via un altro taxi.
“John, corri!” disse, dando una pacca sulle spalle dell’amico, spronandolo ad un rapido sprint iniziale. Impegnati in quel forsennato tentativo di rientrare a casa ad un orario decente, corsero a perdifiato verso la macchina.
“Dai amore, siamo quasi arrivati!” gridò poi John, nella foga.
Il mondo intorno a loro sembrò eclissarsi, all’improvviso. Sherlock si fermò, e John fece lo stesso, all’improvviso dimentichi del taxi, della strada, della prospettiva di tornare il prima possibile a Baker Street e ai loro letti.

Gli occhi chiari di Sherlock si spalancarono, quasi brillando mentre fissavano quelli più scuri del coinquilino, senza aver bisogno di parlare, con quello sguardo pieno di parole perfettamente comprensibili.
Le labbra di John tremarono per un secondo mentre cercava di recuperare la voce da qualche parte nella sua gola, sperando non uscisse la vocina flebile e stridula che gli veniva in situazioni come quella.
Sherlock però non gli diede occasione di aprir bocca quando si aprì in un sorriso, che definire meraviglioso era sminuirlo in maniera imbarazzante.
“Oh, finalmente John” disse, con un tono di voce che tradiva soddisfazione e un’abbondante dose di sollievo, come se avesse aspettato quella frase da chissà quanto tempo. “Per l’amor del Cielo, avevo cominciato a credere che non ci saresti mai arrivato”

John lo fissò ancora rimanendo in silenzio, a contemplare i possibili significati che quella frase portava con sé. Lui però, si focalizzò solamente su di uno, il più chiaro, il più evidente… quello che faceva ballare una danza stra-movimentata al suo cuore.

“Ah Sherlock” lo redarguì, finalmente con le idee chiare, limpide. “Non sono un genio come te. Hai fatto bene a darmi tempo” ridacchiò.
Sherlock allungò una mano e sfiorò il viso del dottore, che trasalì godendosi quel tocco dolce e delicato, riservato –e John ne era sicuro- solamente a lui.
“Una piccola sfida per te, John” disse, con voce bassa, roca. “…tempo ben speso” annunciò.
“Molto ben speso” il medico asserì.
Risero insieme, all’unisono, come a John piaceva tanto. Li faceva sentire…uniti.
“Ehi voi!” la voce del tassista li distolse per un secondo dall’attenta contemplazione affettuosa dei loro volti in cui erano totalmente assorti. “Avete ancora bisogno di un taxi? Vi ho visti correre!”
Sherlock piegò le labbra in un sorriso furbo, e rivolse al taxista un’espressione di finto rammarico, come se gli dispiacesse di qualcosa. John comprese, immediatamente.

“Oh, vada pure, grazie. Io e il mio…amico qui presente andremo a piedi. Abbiamo tantissime cose di cui parlare questa notte”

 

 

 

*

 

                                             

 

 

  
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