Le dieci e mezza! Stavo
per esclamare un vivace ‘Buonasera!’ ma
sarà meglio optare per un
‘Buonaquasinotte!’
Rieccomi qui (mancavo in questa sezione da quanto? Due, tre giorni? Lo
so, sono
esasperante e mi scuso!) con una storia nata ieri notte, e buttata
giù oggi,
che volevo come sempre condividere con tutti voi!
Sherlock potrebbe risultare leggermente OOC (e lo capirete da una
particolare cosa nei confronti di
John, che credo il
vero Sherlock non farebbe mai nemmeno nelle più rosee
speranze) ma che spero vivamente
possa piacervi!
Grazie mille ancora a chi legge e recensisce! Non ci saranno mai abbastanza 'grazie' per voi!
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.
Una
piccola sfida per te, John
*
La prima volta che John si
sentì chiamare in quel modo quasi rischiò di
soffocarsi con il pane tostato.
Era ancora assonnato, in piedi solo da dieci minuti quando si era
seduto al
tavolo della cucina davanti a Sherlock già perfettamente
sveglio, anche se in
pigiama e vestaglia intento ad osservare con vivo interesse qualcosa
nel
microscopio.
“Cosa fai?” domandò John più
per cortesia che per un reale interesse. A
quell’ora del mattino, le sue conversazioni erano dettate
solo da una specie di
automatismo involontario. Non capiva come Sherlock potesse possedere un
tale
livello di attenzione alle sette e trenta del lunedì
mattina…ma con lui, tutto era
possibile.
“Nulla. Sto dando
un’occhiata
ad alcuni campioni che ho raccolto ieri” rispose lui senza
distaccare gli occhi
dalla lente del microscopio, come se fosse una questione di vitale
importanza.
“Sai che esistono
innumerevoli tipologie diverse di terriccio, nella sola
Londra?” disse con il
tono di qualcuno che ha appena fatto una scoperta epocale.
“Potrebbe essere un
elemento fondamentale, in certe indagini”
“Interessante” fu tutto quello che John
riuscì a dire, rimanendo a guardarlo
lavorare, come incantato. Quando riuscì a riacquistare
lucidità si alzò dalla
sedia, sgranchendosi gli arti, e infilò due fette di pane
nel tostapane e mise
il bollitore sul fuoco.
“John puoi passarmi quel fascicolo sul tavolo per
piacere?” Sherlock gli
domandò poi mentre attendeva pazientemente che
l’acqua arrivasse ad
ebollizione. John lo guardò per un secondo, prima di
individuare la cartellina
in questione. Gliela porse e Sherlock, ancora senza staccare lo sguardo
dal
vetrino gli fece un cenno di ringraziamento.
John preparò il tè e lo verso nella sua tazza
scheggiata, imburrando due fette
in un piatto e tornando a sedersi accanto a Sherlock.
“E’ così importante?”
domandò ancora a Sherlock, trovando irritante
quell’eccessivo silenzio, nonostante avesse sopportato anche
di peggio da parte
del detective. Quell’esagerazione di scrupolosità
però, per un motivo o per
l’altro lo alterava parecchio. Come se vedesse del potenziale
tempo da
trascorrere con lui andare in fumo per…per i cento o
chissà quanti tipi di terreno
presenti nel suolo di Londra. John arrossì.
“Importantissimo” sottolineò Sherlock
con voce impostata, concentrata. John
scosse la testa, prevedendo una noiosa mattinata
all’ambulatorio seguita da un
pomeriggio di noia assoluta a osservare Sherlock lavorare e a guardare
programmi spazzatura alla tv. Mangiucchiò svogliatamente il
suo toast,
masticando lentamente pur di avere qualcosa con cui tenersi impegnato.
Poi Sherlock tossi. John alzò lo sguardo ma nulla. Ancora
totalmente preso.
“Ti dispiacerebbe passarmi la provetta accanto a te,
amore?” domandò poi il
detective. John strabuzzò gli occhi e piantò lo
sguardo su Sherlock come se
avesse appena visto un fantasma. Pezzettini della sua colazione
finirono
inevitabilmente a decorare il parquet.
A quanto pareva però, Sherlock sembrava non essersi accorto
nemmeno delle sue
stesse parole.
“S-Subito” disse John, afferrando il set delle
provette, senza staccargli gli
occhi di dosso.
Adesso era decisamente sveglio, e anzi, adesso dubitava fortemente che
sarebbe
riuscito a riaddormentarsi, quella notte.
§
La seconda volta che
Sherlock si lasciò sfuggire quell’insolito
vezzeggiativo, non erano soli.
Nell’obitorio del Barts, Sherlock sembrava decisamente
interessato alla
misteriose cause della morte di una modella bionda, sui venticinque
anni, che
presentava degli strani lividi all’altezza delle spalle.
Concentrato com’era
nell’annusare, osservare, toccare, come suo solito, John era
diventato
completamente estraneo alle attenzioni del detective. Il medico aveva
preferito
allontanarsi e osservare fin quando non sarebbe stato richiesto il suo
parere.
Molly, fino a qualche secondo prima intenta a scribacchiare qualcosa su
di un
foglio, posò il suo lavoro e lo raggiunse.
Sorrise al medico, che ricambiò più che
volentieri tornando poi ad seguire le
mosse di Sherlock seguita a ruota dalla ragazza, che come sempre era
più che
attenta ad ogni minimo movimento del detective.
“Concentrato eh? Sempre, ogni volta. Non gli sfugge mai
nulla. Mi domando se
scolleghi la mente ogni tanto” disse, a voce bassa per far si
che Sherlock non
sentisse. “Insomma, non fa mai nulla, non dice mai
niente…sovrappensiero?”
John trattenne un verso
sorpreso quando le parole di Molly gli ricordarono il piccolo shock
mattutino
di soli due giorni prima. Deglutì e si costrinse a
rivolgerle una scrollata di
spalle e un lieve cenno di assenso.
“Capita, ma solo qualche volta” rispose. La ragazza
sospirò, tornando a
guardarlo. Voleva evitare la conversazione, almeno quella sullo
‘scollegare la
mente’ riferito a Sherlock perché sapeva che lo
avrebbe inevitabilmente portato
ad un’altra notte insonne e di riflessione. Propose a Molly
un caffè ed uscì
nel corridoio verso il distributore.
John non aveva ancora
saputo spiegare quello che era successo il lunedì precedente, il
perché Sherlock lo
avesse chiamato in quel modo quando era sicuro, strasicuro, che una
cosa del
genere fosse anni luce lontano dalla mentalità del
coinquilino.
Sospirando, raccolse i due bicchieri colmi di caffè caldo e
tornò nell’obitorio
dove Molly sembrava aver ancorato gli occhi su Sherlock senza la minima
intenzione di volersene scollare. Non riusciva a non provare pena, per
lei.
“Caffè” disse, distogliendo per un
secondo l’attenzione di Molly,
focalizzandola su di lui. Lei sorrise, dolcemente e lo
ringraziò.
“Sei molto gentile” disse, ritornando alla sua
sognante osservazione.
Sherlock adesso aveva abbandonato la fase contemplativa della ragazza
sul
tavolo per passare ad un’intensa lettura del fascicolo del
suo caso. John lo
guardò mordersi le labbra, nervosamente, come se non
riuscisse a venire a capo
di qualcosa, come se avesse un dubbio irrisolto.
“Amore, puoi passarmi la penna di Molly?”
domandò, leggendo allo stesso tempo alcuni
dati annotati con dovizia da Lestrade.
John raggelò, per
la
seconda volta in soli tre giorni. Aprì e chiuse la bocca,
senza sapere cosa
fare, all’improvviso dimentico di come si usassero gambe e
braccia. Con una
lieve torsione del collo, unico movimento che fosse riuscito a
compiere,
incrociò lo sguardo incredulo e sbigottito di Molly. Scosse
la testa piano,
come a dirle di non chiedere spiegazioni a Sherlock, che con tutta la
naturalezza del mondo aveva alzato il palmo per la penna, ma che era
ancora
immerso tra le righe d’inchiostro. Lei gli porse la penna e
John la passò al
detective, sbloccandosi Dio solo sa come.
“Grazie mille” fu tutto quello che Sherlock disse.
Il caffè di John andò a colorare di un vivace
marrone scuro il pavimento
asettico della sala.
§
La terza volta invece,
erano soli. O almeno, erano soli nel negozio di camicie di Regent
Street dove
Sherlock aveva deciso di comprare il regalo di compleanno per John.
John non riusciva a non
pensare al giorno prima, quando quella
cosa era successa per la seconda volta. Ci aveva pensato
tutta la notte, e
il risultato erano le visibili e scure borse sotto i suoi occhi, e non
era
riuscito a venire a capo del dilemma. Non aveva semplicemente sbagliato
il suo
nome, come faceva con Molly o con Donovan, o Anderson. Aveva
palesemente
pronunciato la parola ‘Amore’. E questo mandava in
crisi John più di qualunque
altra cosa. Perché a John, il retto, etero
–o almeno così era convinto fino a pochi
giorni prima- quella cosa
cominciava a piacere. Si sentiva
lusingato, senza saperne il motivo, provava una sorta di
gratificazione,
eccitazione che non riusciva a spiegarsi a parole. Era qualcosa che
sentiva e
che lo faceva sentire stranamente bene.
Sherlock era impegnato in
una fitta conversazione sms con Lestrade, che sembrava avere un altro
caso da
sottoporre alla sua attenzione. Le sue dita si muovevano veloci sulla
tastiera
virtuale e un lieve bip
accompagnava
i suoi movimenti. John sorrise quando lo vide giocherellare con la
lingua sulle
labbra, intento com’era in quel rapido botta e risposta.
Nel frattempo, stava
osservando qualche camicia appesa all’espositore,
soffermandosi su un paio che
avevano attirato la sua attenzione. Andò allo specchio e
cercò di immaginarsele
indosso, optando per una delle due, bianca.
“Che ne dici Sherlock? Mi starà bene?”
domandò John mostrando la camicia a
Sherlock sventolando la stampella di legno. Il detective
alzò leggermente lo
sguardo quanto serviva per un occhiata veloce, che per lui bastava e
avanzava
per farsi un’idea perfetta, e annuì tornando poi
al suo cellulare.
Il frenetico bip bip
ricominciò,
prima che parlasse per esprimere il suo giudizio.
“Secondo me
è perfetta,
amore” disse. “Andiamo a pagare”
John fece cadere la
camicia sul pavimento e un commesso incravattato lo squadrò
da capo a piedi. Il
medico boccheggiò cercando di raccogliere la camicia da
terra, ma trovando
stranamente difficile coordinare il cervello con la presa della sua
mano.
Quando ci riuscì, tutto quello che riuscì a fare
fu seguire Sherlock, che già
si era avviato verso le casse, a passo svelto. Veloce quasi quanto il
suo
battito cardiaco, decisamente più rapido di un razzo.
“Oh per
l’amor del Cielo”
fu tutto quello che la sua mente riuscì a formulare.
§
La quarta volta, quella
più importante, erano su di una scena del crimine assieme a
Lestrade, Donovan e
una decina di agenti della scientifica in azione. Era sera e Londra era
avvolta
in una coltre di gelo pungente. John si alzò il bavero del
cappotto, cercando
di coprirsi il più che poteva e Sherlock come al solito
sembrava insensibile a
qualsivoglia condizione atmosferica, stretto nel suo cappotto nero e
nella sua
sciarpa blu intorno al collo sottile.
Lestrade si
avvicinò al
detective, confabulando qualcosa che John non riuscì a
udire, con il fruscio
del vento che risuonava tra le pareti ampie di quel vecchio magazzino
abbandonato.
“Quelle pozze
d’acqua lì
davanti sono sospette. Con questo freddo sarebbero dovute essere gelate
ormai,
invece l’acqua è addirittura calda, al
tocco” riuscì poi a sentire,
avvicinandosi. Sherlock gli lanciò una rapida occhiata.
“Prendete qualche
campione” propose a Lestrade che subito impartì
ordini alla squadra.
“Che ne
pensi?” domandò
poi John guardando Sherlock e la sua tipica espressione pensosa. Il
detective
non rispose, non subito. Aprì bocca solo qualche minuto dopo.
“Oh, nulla di troppo complicato. La macchina abbandonata
è del Signor Brown che
non è affatto scomparso, io temo. Il sedile posteriore
è decisamente consunto,
ma la coppia non ha figli e dubito scarrozzino in giro qualcuno tanto
spesso a
sentire la moglie, e ciò mi fa dedurre che
l’utilizzo di quei sedili sia a puro
scopo…ricreativo se mi
permetti la
sottile metafora. Il foulard ritrovato nel portaoggetti non
è affatto della
moglie, nonostante lei affermi il contrario, è da poche
sterline, da bancarella
e il portamento della donna, il tailleur da mille sterline e il profumo
che
indossa indicano una certa posizione in società, e la
tessera di un prestigioso
club è volutamente in bella vista nel suo portafoglio. Ha
diverse amiche del
suo stesso ceto e sono praticamente certo che abbia mentito per non
sollevare
uno scandalo che certamente farebbe scalpore negli ambienti che
frequenta e
preferisce decisamente affermare il falso davanti ad un ispettore di
polizia
che infangare il suo nome. Tutto questo conduce al maritino scomparso e
alla
sua amante, o almeno una di esse, presso la quale adesso è
nascosto. E la
moglie sa perfettamente di chi è quel foulard, macchiato di
alcool etilico e
candeggina, così scioccamente dimenticato, perché
lo vede tutti i giorni
indosso alla loro donna di servizio. Alla polizia basterà
seguirla per arrivare
al povero Signor Brown”
John lo guardò con
la
solita espressione mista tra l’ammirato e lo sconcertato che
seguiva ogni sua
brillante deduzione e Sherlock sembrò non poter trattenere
un sorrisetto compiaciuto.
“E le pozze
d’acqua cosa
c’entrano?” domandò poi John,
ricordandosi della conversazione con Lestrade di
poco prima. Sherlock sospirò.
“Oh assolutamente nulla. Sono residui della pattuglia
dell’igiene stradale
suppongo. Ma nulla potrà togliermi il piacere di vedere
Anderson svolgere un
minuzioso lavoro completamente inutile”
John ridacchiò
divertito
mentre osservava la squadra lavorare senza sosta sulla macchina
abbandonata e
sulla scena tutt’intorno, catalogando, sigillando, faticando
per un caso che
era ormai praticamente chiuso. Sherlock a volte sapeva essere
terribilmente vendicativo.
“Sei crudele,
Sherlock”
disse il medico con ancora un ghigno sul volto.
“Perfido”
Sherlock rispose con un alzatina di spalle.
“Lo so. Più tardi informerò Lestrade.
Dal mio comodo divano in Baker Street”
Lestrade si
avvicinò ai
due, e rimase con loro a farsi un quadro generale della situazione.
Sospirando si rivolse a Sherlock trascinandolo in un’altra
conversazione che lo
portò lontano dal medico, come se fosse qualcosa di
incredibilmente privato, e
non ci volle molto per capire, lo faceva ogni volta, che voleva
chiedergli
qualcosa su sua moglie. Sherlock sembrava spazientito mentre spiegava
qualcosa
all’Ispettore, gesticolando concitatamente come se
l’altro non comprendesse
qualcosa di elementare. John guardò l’ora, le
undici passate, e all’improvviso
sentì tutta la stanchezza della giornata gravargli sulle
spalle.
“Sherlock, chiamo un
taxi?” John gridò attirando l’attenzione
del detective. Quest’ultimo si staccò
appena dalla conversazione con l’Ispettore facendogli un
segno d’assenso con la
testa.
“Vengo subito amore, tu chiamalo!” gridò
in risposta.
John inciampò sulla
grata
di un tombino mal sistemato sulla strada, improvvisamente dimentico
delle
regole del buon pedone. Fu quasi sicuro di cadere rovinosamente addosso
al taxi
che aveva cercato di fermare e fu solo grazie ad una colonna della
posta
provvidenzialmente presente accanto a lui che evitò una
caduta rovinosa e una
epocale, memorabile figuraccia davanti a una buona ventina di
poliziotti. Ma
era stato inevitabile, inaspettato, impossibile da prevedere. Sherlock
lo aveva
fatto un’altra volta, e John non riusciva mai a darsi un
contegno, a mantenere
un controllo tale da non sentirsi ogni volta come un perfetto idiota,
nonostante ormai sapesse che era qualcosa che poteva accadere da un
momento
all’altro, all’improvviso. Erano passati tre giorni
dall’ultima volta e John aveva
quasi cominciato a pensare, con un certo disappunto che lo aveva reso
ancora
più confuso su ciò che realmente voleva, che
Sherlock avesse solo avuto un
momento di eccessiva iperattività mentale che lo aveva fatto
straparlare così,
senza secondi fini.
Adesso però era la quarta volta e quattro volte erano
decisamente troppe per un
qualcosa buttato via così, sovrappensiero.
Lestrade, se possibile,
aveva un’espressione ancora più sconvolta di
quella che aveva avuto Molly tempo
prima. Continuava ad osservare Sherlock e poi John, John e poi Sherlock
come se
stesse seguendo un’animata partita di tennis.
Boccheggiò, senza sapere cosa
dire davanti a quella situazione, mentre John, mordendosi un labbro,
troppo
lontano per far segni a Lestrade senza farsi scorgere da Sherlock
pregava che
l’Ispettore non facesse domande.
“Sh-Sherlock” lo chiamò Lestrade,
ricevendo da questi solo un’occhiata annoiata.
“Che…che hai detto?”
John avrebbe voluto
eclissarsi mentre attendeva che Sherlock rispondesse, come si attende
la
risposta di una domanda da un milione di sterline ad un quiz
televisivo. Il
respiro era corto e non riusciva a tenere ferme le mani, che stritolava
l’una
con l’altra, compulsivamente.
Sherlock però, sembrò non capire e
guardò Lestrade con aria di sufficienza.
“Ho chiesto a John di chiamare il taxi. Cosa ti sconvolge
tanto?”
John espirò tutto il fiato che aveva trattenuto da circa due
minuti e mezzo, il
petto che si alzava e abbassava rapido, sentendo il nervosismo salire
dentro,
inevitabilmente.
Eccolo li, che scendeva di nuovo dalle nuvole, senza accorgersi di nulla, facendo come se
niente fosse
successo.
L’ispettore non rispose, ma si limitò a grattarsi
la fronte, pensieroso. John
comprese che probabilmente stava pensando alla probabilità
che avesse sentito
male. Cosa che John sapeva benissimo non essere vera. Lestrade
guardò John che
si limitò a ricambiare il suo sguardo, scrollando le spalle.
Il poliziotto
scosse la testa e si allontanò.
John era combattuto, curioso e confuso. Un indefinibile
varietà di sentimenti
stava lottando dentro di lui, e nessuno di essi era così
definito da scuoterlo
fino a dirsi: -Ecco! Posso farcela! Posso chiedergli di conoscere la
verità!- e
questo rammaricava John più di qualunque altra cosa.
Guardò Sherlock
raggiungerlo e affiancarlo mentre sul bordo della strada attendevano
pazientemente il passaggio di un altro taxi.
“Freddino,
eh?” John
riuscì a dire, cercando di rompere quel silenzio
imbarazzante. Sherlock lo
osservò con espressione enigmatica e un sorriso sottile
pieno di parole non
dette.
“Parli del tempo, John? Sei imbarazzato?”
esclamò, con tono interrogativo. John
si strinse nella sua giacca, arrossendo e pregando dentro di
sè che il compagno
non se ne accorgesse.
“Facevo
conversazione.
Stiamo in silenzio, se vuoi” rispose il medico, sulla
difensiva.
“Oh no, mi piace sentirti parlare” si
lasciò sfuggire Sherlock, lasciando John
senza alcuna possibilità di risposta. John guardò
il coinquilino a fondo,
cercando di capire, comprendere il motivo di quel comportamento, di
quella
palese quanto sottile dichiarazione di affetto appena pronunciata.
Sommata con quello
che era successo nei giorni precedenti, un campanello di allarme
comparve nella
testa di John facendogli aprire gli occhi e la mente.
Qualcosa doveva succedere, perché andare avanti a quel modo,
con piccole frasi,
figuracce sfiorate o palesi, ammiccamenti vari e involontari gesti
d’affetto
non era davvero più qualcosa di sostenibile.
Doveva parlare, John lo sapeva, lo sentiva, lo voleva.
Respirò profondamente,
in una sorta di training autogeno per prepararsi al meglio a quello che
aveva
intenzione di fare. Chiuse gli occhi.
“C’è
un taxi, John”
Sherlock frantumò tutti i suoi buoni propositi.
“Se corriamo riusciamo ad
arrivare prima di quei due”
John vide una coppietta che si stava avviando di buona lena verso la
macchina
nera parcheggiata al marciapiede.
Sherlock prese a correre e John lo seguì, maledicendosi per
non essersi deciso
prima, mordendosi la lingua per aver perso un’occasione che
non si sarebbe
ripresentata così facilmente. Ci aveva messo talmente tanto!
Quando arrivarono davanti alla macchina però, vennero
preceduti da una terza
persona, che entrò nella macchina, intimando
all’autista di partire.
Sherlock batté un pugno sul palo giallo, con evidente
disappunto.
“Torneremo a casa domattina, me lo sento. Per uno sciocco
caso di relazione
extraconiugale”
John sorrise, senza riuscire ad evitarlo.
“E’ la tua punizione per il tuo piccolo scherzetto
a Lestrade e compagnia”
disse sicuro, cercando
di mettere da
parte il suo disappunto, e beccandosi un’occhiata curiosa da
Sherlock. Questi
sospirò sistemandosi ancora il bavero del cappotto con aria
di chi non è
affatto pentito delle sue azioni.
“Può essere” rispose, come se fosse la
cosa più ovvia del mondo. “Poco male”
John chinò lo
sguardo e
scosse la testa. Qualcosa nella sua mente poi scattò e
alzò di nuovo lo
sguardo, incrociandolo con quello del detective che sembrava
terribilmente
interessato al suo viso. Il cuore di John batteva talmente forte che
quasi
temeva che il coinquilino potesse sentirlo.
“Sei unico,
Sherlock”
Sherlock sembrò
sorpreso.
Tossicchiò, come se non sapesse esattamente cosa replicare.
“Grazie John. Non so bene se prenderlo come un complimento,
ma grazie”
John sorrise con dolcezza allo stupore sincero sul volto di Sherlock.
Eppure
pensava che si fosse abituato al suo continuo lodare le sue
capacità con tutti
quei ‘fantastico’ o
‘eccezionale’. Evidentemente però,
Sherlock non ne aveva
ancora avuto abbastanza.
“Figurati”
disse il medico,
compiaciuto di essere riuscito a mettere Sherlock in
difficoltà per una volta.
Dopo tornò ad osservare la strada, adocchiando in fondo alla
via un altro taxi.
“John, corri!” disse, dando una pacca sulle spalle
dell’amico, spronandolo ad
un rapido sprint iniziale. Impegnati in quel forsennato tentativo di
rientrare
a casa ad un orario decente, corsero a perdifiato verso la macchina.
“Dai amore, siamo quasi arrivati!” gridò
poi John, nella foga.
Il mondo intorno a loro sembrò eclissarsi,
all’improvviso. Sherlock si fermò, e
John fece lo stesso, all’improvviso dimentichi del taxi,
della strada, della
prospettiva di tornare il prima possibile a Baker Street e ai loro
letti.
Gli occhi chiari di
Sherlock si spalancarono, quasi brillando mentre fissavano quelli
più scuri del
coinquilino, senza aver bisogno di parlare, con quello sguardo pieno di
parole
perfettamente comprensibili.
Le labbra di John tremarono per un secondo mentre cercava di recuperare
la voce
da qualche parte nella sua gola, sperando non uscisse la vocina flebile
e
stridula che gli veniva in situazioni come quella.
Sherlock però non gli diede occasione di aprir bocca quando
si aprì in un
sorriso, che definire meraviglioso era sminuirlo in maniera
imbarazzante.
“Oh, finalmente John” disse, con un tono di voce
che tradiva soddisfazione e
un’abbondante dose di sollievo, come se avesse aspettato
quella frase da chissà
quanto tempo. “Per l’amor del Cielo, avevo
cominciato a credere che non ci
saresti mai arrivato”
John lo fissò
ancora
rimanendo in silenzio, a contemplare i possibili significati che quella
frase
portava con sé. Lui però, si focalizzò
solamente su di uno, il più chiaro, il
più evidente… quello che faceva ballare una danza
stra-movimentata al suo
cuore.
“Ah
Sherlock” lo redarguì,
finalmente con le idee chiare, limpide. “Non sono un genio
come te. Hai fatto
bene a darmi tempo” ridacchiò.
Sherlock allungò una mano e sfiorò il viso del
dottore, che trasalì godendosi
quel tocco dolce e delicato, riservato –e John ne era sicuro-
solamente a lui.
“Una piccola sfida per te, John” disse, con voce
bassa, roca. “…tempo ben
speso” annunciò.
“Molto ben speso” il medico asserì.
Risero insieme, all’unisono, come a John piaceva tanto. Li
faceva sentire…uniti.
“Ehi voi!” la voce del tassista li distolse per un
secondo dall’attenta
contemplazione affettuosa dei loro volti in cui erano totalmente
assorti. “Avete
ancora bisogno di un taxi? Vi ho visti correre!”
Sherlock piegò le labbra in un sorriso furbo, e rivolse al
taxista
un’espressione di finto rammarico, come se gli dispiacesse di
qualcosa. John
comprese, immediatamente.
“Oh, vada pure,
grazie. Io
e il mio…amico qui
presente andremo a
piedi. Abbiamo tantissime cose di
cui
parlare questa notte”
*