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Autore: _Velvet_    14/03/2012    3 recensioni
180 non sono nemmeno mezzo chilo. Non è una cifra facile da ricordare, non è un bel numero da pronunciare. Non te lo tatueresti su un braccio. Non lo scriveresti sul tuo diario. Questa cifra ha senso solo se collezioni vinili.
Non è questa una storia facile, vi avverto. E' la storia di Faith e dei suoi fantasmi, delle sue paure, dei suoi errori. Ma è anche la storia del suo grande amore per Michael.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO UNO: Faith (in inglese, fede)
 
 
C’era un pezzo di intonaco staccato sul muro, probabilmente appena lo avrebbero visto si sarebbero arrabbiati. Mi avrebbero punito. Avrebbero sfogato il loro nervosismo su di me.
Il muro mi chiamava. Mi aggrappai con le unghie al bordo scosceso dell’intonaco. Cominciai a grattare. La polvere mi scendeva sui jeans, impiastricciandoli di bianco. Cominciavo a vedere cosa si celava lì dietro. Un grande, enorme occhio mi guardava.
La porta si aprì, li sentii rientrare. Era ubriaca. Mi raggomitolai contro la parete, sentivo già il dolore delle loro percosse. Ero sotto l’attaccapanni, mi nascosi dietro un cappotto. Tremavo di paura, sarebbero entrati e lo avrebbero visto. Rimasi avvolta nel buio per quella che mi parve un’eternità.  
Mio padre accese la luce; naturalmente lo vide. Mi tirò per un braccio e mi portò in cucina. Mi tirò uno schiaffo e poi un altro. Cercavo di non piangere. Cercavo di sembrare forte e non una bambina debole. Mio padre uscì dalla cucina. Avevano lasciato la porta di casa aperta ed io uscii sul portico, poi percorsi il vialetto e mi recai in paese. Harry mi aspettava sotto un lampione. Mi allungò il sacchetto di plastica trasparente, che presi con mano tremante. Un attimo dopo stavo di nuovo bene e delle botte di mio padre non rimaneva che un vago ricordo.
 
 
La felpa mi si appiccicava alla pelle, il sudore stava cominciando ad impregnarmi i capelli e, di conseguenza, il cuscino.
Avrei dovuto togliermi tutto e rimanere in canottiera e pantaloni sformati. Ero, banalmente, infastidita dalla mia pigrizia, che mi impediva di alzarmi e infilarmi qualcosa di più fresco. Il momento magico stava per arrivare, quando bussarono alla porta. Non riuscivo a vedere chi ci fosse dall’altra parte a causa del vetro smerigliato. Sudata, infastidita e molto molto stanca a causa delle nottata in bianco, andai ad aprire.
Mi trovai davanti quella autentica piaga umana della Miller. Uno non può nemmeno starsene in camera propria ad incazzarsi con sé stessa, pensai.
-Andiamo, Faith, ti aspettano.
Faith, dio che nome del cavolo, odiavo tutte le volte che qualcuno lo pronunciava, odiavo i miei genitori per avermi chiamato così. Io non ero la “fede” di nessuno, io non credevo a nessuno e nessuno avrebbe mai creduto in me.
La Miller mi scortò giù per le scale, fino alla saletta dove ci riunivamo di solito. Odiavo parlare con quegli sbandati del cazzo. Non ero come loro, io ero meglio. Lo sapevo, io avevo ancora una possibilità, l’ultima. Non dovevo giocarmela, se no sarei finita come quei catorci con gli sguardi vuoti e le mani tremanti che non riuscivano a coordinare insieme verbo e soggetto.
Scesi le scale strabordante di rabbia. Non ci volevo andare. Sussurrai un “vaffanculo” contro le spalle massicce della Miller. Mi trovavo patetica da sola con questo comportamento infantile, ma ero tanto stanca, tanto arrabbiata e tanto infastidita da potermelo quasi permettere.
Lungo le scale incontrai una delle ragazze con cui avevo più legato, all’interno della clinica: Ann. Mi disse che per lei era l’ultimo giorno, così come tutti gli altri del gruppo. Sarebbero stati trasferiti in un altro centro, un passo più vicini alla libertà. Sentii le lacrime nascermi sugli occhi, tutto si ripeteva: loro ce la facevano, ma io no. Io rimanevo indietro, da sola, ad affrontare tutto da sola.
Corsi per gli ultimi tre gradini che mi separavano dal corridoio congedandomi da Ann senza nemmeno guardarla in faccia.
Entrai rapidamente nella piccola stanzetta grigia e anonima dove un gruppo di ragazzi era seduto in cerchio.



Non ero per nulla soddisfatta di questo inizio, perciò ho deciso di riscriverlo quasi dall'inizio. Mi scuso per eventuali disagi.

 
   
 
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