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Autore: Flashbax    17/03/2012    4 recensioni
Un taccuino ed un fiume di parole marchiate da un lapis.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Kensigton Gardens. Quasi le quattro di pomeriggio.
Seduta sull'erba frizzante per la primavera in arrivo, cerco di concentrarmi sui riflessi che il sole, sì oggi è una giornata assolata, regala all'acqua leggermente increspata dalla brezza. Sì, oggi c'è un leggero venticello. Sì, oggi fa anche caldo. Caldo, sì. Un marzo davvero anomalo, questo.
Sono infastidita dai capelli che, ribelli, invadono tutto il campo visivo. Ho perso l'ennesimo elastico nero di Muji, l'elastico "alfa", come lo ha apostrofato un mio amico, qualche sera addietro, dopo una birra di troppo.
Oggi, sono stata sia dal dietologo sia dall'analista. Questi mi ha suggerito, mentre il dispensatore di essenze diffondeva una dolce fragranza di arancie, la mia preferita, di scrivere, non un diario, ma uno sfogo "ad inchiostro". Sostiene, questi, che rileggerlo potrà aiutare a "focalizzare le tue distopie". Senza chiedersi se io conoscessi il significato del termine. Così, sono entrata in un negozio di libri ed ho comprato questo taccuino, dopo aver cercato "distopia" sul dizionario.
Guardo gli alberi sulla sponda del lago, le persone distese sul prato accanto a me. Un ragazzino, intento a nutrire gli uccelli lacustri, si sbilancia e mette un piede in acqua. Avrà si e no l'età del mio bambino. Non sono più "bambini", devo ammettere.
Sospiro, osservando una coppia, non avranno più di trentacinque anni, che passeggia sulla riva. Spingono una carrozzina blu, vecchio stile, di quelle che potresti trovare in un film degli anni sessanta, con le ruote larghe, i raggi argentei, ed il prendellino ricamato. Mi ricordano...
No, devo essere sincera, dice l'analista. Non mi rammentano nessuno. I miei figli hanno avuto, certo, accessori molto più costosi, ma li ha scelti il mio agente, molto spesso. I loro genitori erano troppo impegnati a litigare, o a guadagnare soldi che, poi, avrebbero speso in feste e superalcolici. Pazzi quegli anni, dove pazzi non vuol avere nessuna sfumatura di positivo rimpianto. Quanto male ci siamo fatti, tutti quanti.
Ora i neogenitori si guardano attorno in cerca di una panchina. Quando ero una neogenitrice, cosa cercavo attorno a me? Non certo una panchina. Direi fotografi, riviste patinate, ed avvocati con i denti a sciabola. Già, perché ho avuto tanto bisogno di divorzisti quanto una manna di pannolini.
Non leggere, in queste parole, orgoglio, o falsa compassione. Ho scelto la mia vita, consapevolmente. Non ho mai cavalcato l'onda del ricatto emotivo per la stramba famiglia che mi era toccata in sorte. I mariti, invece, li ho scelti, sicuramente a lanterino spento.
Rosicchio il lapis arancione. Perché fingere di voler raccontare la storia dell'intera esistenza, magari condita di riflessioni universali, quanto ho solo voglia di mettere indietro le lancette del tempo, "fermare gli orologi" e "mostrati come avrebbe potuto essere".
Posso rubare i tuoi versi, Shekespeare altezzoso? Non volermene. Vedi, tu non mi hai mai sopportata: hai sbraitato e puntato i piedi, come un'amante gelosa, per me. Proprio non ti andavo a genio. Forse, era il mio aspetto belloccio. Non sai quanti problemi mi ha causato e quanti soldi iniettati mi costa mantenerlo ora che, a quarantadue anni, sono costretta a fingere unì'eterna giovinezza. Le tue rughe sono segni del sorriso, sono le cicatrici della tua maturità; le mie sono debolezza, vecchiaia, disinteresse, depauperizzazione sociale.
Basta un istante, un alito di questa brezza, per farmi tornare al 1995, quando incontrai un ragazzo ignorante, scostante, presuntuoso, arrogante, attaccabrighe, dall'aspetto angelico. Era tanto più giovane di me, ma, a me, non importava.
Caddi subito tra le sue braccia, e nel suo letto. Mi amava, allora, con passione.
Assieme, siamo saliti sul carro del vincitore, lo guidava il "mio peggior nemico".
Ogni mattina mi svegliavo in una camera d'albergo diversa, ma uguale era lo scenario. Bottiglie di birra, vino e Cristal sparse sulla moquette. Cicche di sigarette, resti di canne e strisce di cocaina sul, consueto, tavolino di vetro basso. La mia carta di credito sporca di bianco, giaceva su un lato del mobile. La mia biancheria era disfatta intorno al letto. Io nuda giacevo in esso. Nelle orecchie, le urla della sera prima. le nostre litigate erano leggendarie. Credo che abbiano pagato l'università a molti figli di giornalisti musicali. A qualcosa, almeno, sono servite.
Lui tornava in stanza sovraeccitato, già fatto ed ubriaco. Io lo aspettavo, depressa, sorseggiando whisky. Molto Scarface, lo so.
Sentivo il profumo di donna sul suo corpo, odore da quattro soldi di donne a buon mercato. Ed allora urlavo, sbraitavo, gli lanciavo contro il bicchiere. Lui rideva, mi umiliava, mi faceva sentire vecchia.
Poi mi prendeva, affondava le mani nella mia intimità, ed io provavo un immenso piacere. Lo odiavo, mentre mi diceva che ero sua. Lo odiavo tanto quanto l'amavo nell'atto di farmi sentire femmina. Ero sua, davvero.
C'erano anche giorni "buoni". Giorni in cui mi trattava con i guanti di velluto, come una principessa. Vivevo di quei momenti, respiravo il suo sorriso, mi cibavo delle sue carezze. Ogni cosa avrei fatto per lui, come, ad esempio, sposarlo.
  Una settimana dopo, nasceva la sua prima figlia. Non ho mai avuto figlie femmine, io.
Qualche rotazione solare dopo, cedetti sempre più spesso al freddo invito del lavandino mattutino. La sindrome della crocerossina mi aveva illuso che il frutto del mio ventre avrebbe sistemato ogni cosa.
Alla stampa disse di essere felice di diventare padre "per la prima volta". Mi portava fuori ogni sera, anche quando le scarpe non riuscivo ad infilarle tanto gonfi avevo i piedi. Mi esibiva, io lo esibivo, ci esibivamo. "Lui è mio", sembrava gridare ogni mia prossemica.
Partorii circondata dagli agi e dal lusso. Lui scelse l'ospedale migliore che i soldi possano comprare. Assecondai anche la sua mania per i morti. E come un defunto, dal cui fantasma era ossessionato ogni notte, tanto da tenere la luce accesa, chiamai il mio bambino.
Tornò presto ad ignorarmi, mentre fuori casa era un padre amorevole ed affettuoso. Lo ricordo fasciato in un cappotto verde, passeggiare col nostro piccolo nel marsupio. Agitava le braccia un direttore d'orchestra e lo baciava teneramente.
Un giorno si stancò di litigare e chiese il divorzio. Assecondai i miei istinti più biechi e lo "spennai". Come sguazzavano i tabloid, che virago ero, come piangevo la sera.
Crescevo quel piccolo simulacro di lui, un tesoro biondo dai grandi occhi grigi, ogni giorno. Poco dopo, nel ventre di un'altra donna, cresceva un feto, dalle stesse luci glauche e dall'identica pelle di porcellana.
Da allora sono stata spettatrice della sua vita: padre dell'anno, non ho mai ostato la sua volontà di tirar su i piccoli assieme. Alla finestra, vedevo una moglie bionda, come me, dagli occhi verde, come me, crescere un bimbo, come il mio, assieme al mio.
Eppure, nella vita, ho amato solo lui.
Ed oggi, in questo istante, vorrei "fermare gli orologi" e "mostrarti come avrebbe potuto essere".
  
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