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Autore: alaisse_amehana    20/03/2012    14 recensioni
C’è qualcosa di strano in me.
L’ho sempre saputo. Non è una cosa di cui si possa parlare. Non che debba vergognarmene, almeno non credo. E’ solo che non posso spiegarlo. Non più di quanto posso spiegare cosa c’è nella mia testa. Per quanto mi sforzi, le parole sono insufficienti.
L’ho sempre saputo.
Quando la gente parla non capisce mai davvero cosa vuole dire l’altro.
Con le parole si possono creare così tante realtà alternative, ma queste realtà non potranno mai superare quelle presenti dentro ciascuno di noi. Io lo capisco bene.
Mi chiedo se sono l’unica.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Frequentare l’ultimo anno del liceo può risultare destabilizzante per una ragazza svogliata come me. Non che sia stupida, almeno non particolarmente, ma non ho voglia di applicarmi. Me lo sono sentito ripetere dalle elementari.
< Signora, sua figlia non è affatto una bambina stupida, ma non si impegna>.
< Sua figlia è molto brava quando si applica, peccato lo faccia così raramente!>.
< La ragazza mostra chiari sintomi di disturbo della personalità>.
Davvero poco incoraggianti.
Mia sorella è l’esatto opposto. Lei è bella, seria, studiosa. Ha un sacco di amici che le chiedono aiuto nei compiti e altrettanti ragazzi che fanno la fila sotto al nostro portone per poter uscire con lei. Non scherzo, l’ultima volta ne ho dovuti scavalcare un paio per entrare in casa. E il bello è che lei non fa nulla per attirarli. Voglio dire, non è una di quelle oche che sta tutto il tempo a flirtare con quelli che incontra. Diciamo che emette quelle che io chiamo “onde positive”.  Non ho ancora conosciuto nessuno che le possa sentire, quindi le chiamo come mi pare.
Per farla breve si tratta di quella sensazione che emanano le persone molto solari, quelle con cui è impossibile sentirsi a disagio. Forse non potete avvertire le onde, ma avrete capito di cosa parlo.
Mia sorella è un vero e proprio tornado di onde positive. Le emette pure mentre dorme. Inevitabile che i ragazzi ne siano attratti come falene dalla luce.
La cosa che mi dà più fastidio però non è mia sorella e le sue emanazioni positive, ma il fatto che percepisco chiaramente anche quello che provano i ragazzi, e le ragazze, che le stanno attorno. Questo è ciò che faccio. Fin da quando ero bambina.
Per questo so che mentre facciamo colazione, mia madre sta pensando alla riunione coi dipendenti, mio padre pensa a cosa mangerà a pranzo, e mia sorella sta ripetendo la lezione di immunologia.
Bah, secchiona.
< Cosa hai a scuola, tesoro?> mi chiede mia madre.
Aspetto tre secondi prima di rispondere. Tanto so che basteranno perché ritorni a concentrarsi sulla sua riunione e la domanda cada nel vuoto.
Mia sorella interrompe la lunga lista di sigle impronunciabili che stava elencando per posare i suoi enormi occhi azzurri su di me. E’ incredibile quanto siano grandi i suoi occhi. Quando ti fissano sembrano risucchiarti da qualche parte a metà strada tra il tuo cervello e il suo.
< Non avevi la versione di latino?> chiede innocente.
Mentre la guardo mi vedo rispecchiata nei suoi pensieri. Mi faccio forza per bloccare quelle immagini. E’ impossibile parlare con qualcuno e vedersi riflessi mentre lo si fa. Provare per credere.
Credo che sia per questo che pensano tutti che sia un po’ ritardata. Ma non è colpa mia se mi ci vuole tutta questa fatica per avere una normale conversazione.
< Mmmh, sì. Latino> rispondo masticando i cereali al cioccolato.
Riempirsi la bocca di qualcosa è sempre una buona scusa per evitare domande. Ormai i miei ci hanno fatto l’abitudine. Una volta ho proposto di comunicare con dei bigliettini. Mi hanno guardato così male che non ci ho più provato. Eppure sarebbe tanto più facile!
< Hai studiato?> chiede mio padre addentando la fetta biscottata ricoperta da mezzo centimetro di marmellata.
No, ho giocato a FreeCell sul computer fino alle due di notte e poi ho chattato fino alle quattro con un quarantenne che si spacciava per un sedicenne.
< Sì, studiato tutto> mugugno con la bocca piena di cereali. Un po’ di latte mi cola sul mento. Ecco, ora sì che devo avere l’aria da ritardata.
Mia sorella storce la bocca e riprende con la sua litania di virus.
In effetti, per essere precisi, non leggo i pensieri in senso stretto. Piuttosto è come se davanti alle persone si aprisse uno schermo piatto su cui scorrono delle immagini. Ma è più complicato di così perché non mi limito a vedere, ma anche a sentire. Ultimamente, poi, è peggio del solito. Fino a qualche tempo fa non mi succedeva con tutti, e soprattutto non con la stessa intensità. Da qualche settimana, però, mi sento come una tv con il digitale terrestre. Centinaia di canali e nessun libretto di istruzioni per usarli.
< Sono le otto, farai tardi> dice mia madre alzandosi per portare la tazza nel lavandino.
< Ci penso io, oggi ho lezione alle dieci> si offre mia sorella saltando in piedi come una molla e prendendole la tazza di mano.
Mi chiedo dove prenda tutta quest’energia la mattina presto.
< Grazie, tesoro>.
Mio padre continua a mangiare la sua fetta biscottata e a pensare al pranzo.
Di tutta la famiglia, lui è quello con cui è più facile stare. Se i pensieri di mia madre e mia sorella sono come popcorn scoppiettanti, quelli di mio padre sono un placido laghetto, non troppo profondo a dirla tutta.
< Alice?> mi chiama mia madre sulla porta.
Anche se non potessi sentire i suoi pensieri, il tono basta per avvertirmi che sta perdendo la pazienza. Lascio perdere i cereali e vado a prendere lo zaino in camera. Mettendomelo sulle spalle rischio di cadere all’indietro ma recupero l’equilibrio all’ultimo minuto. Medito se lasciare a casa il dizionario di latino. Ma poi fare la versione in classe potrebbe essere problematico.
< Alice!> questa volta il tono di mia madre è di aperta minaccia.
Lascio stare il dizionario ed esco.
< Ciao!> saluto uscendo sul pianerottolo.
Mi rispondono le loro voci sfalsate. Mia sorella ha ripreso a ripetere a mente la lezione. Sento che mi perfora il cervello anche con una porta a separarci.
Non posso andare avanti così.
Me ne rendo conto mentre sono alla fermata del pullman e il tizio accanto a me sta pensando alla notte di fuoco appena passata con l’amante. La sola idea di continuare così tutto il giorno mi fa venire voglia di mettermi in un angolo a urlare.
Infilo le cuffiette dell’mp3, a tutt’oggi l’unico metodo efficace che ho trovato contro i pensieri molesti. Grazie alla musica riesco a filtrare ciò che sento. E’ come premere off sui suoni indesiderati. In sottofondo riesco a sentire il rumore del traffico, ma l’uomo accanto a me è di nuovo un tizio qualunque che non ha nulla da dirmi. Sempre se non lo guardo.
Arriva il pullman, pieno come sempre. Per entrare devo premere contro le persone che stanno in mezzo alle porte. Ho qualcosa di duro incastrato nelle costole e i capelli di una ragazza mi solleticano il naso minacciando di farmi starnutire.
Ci fermiamo ad una fermata. Mentre una signora di mezz’età spinge per uscire mi cade un auricolare. Subito i pensieri di tutti quelli intorno mi si riversano addosso come un fiume in piena. Barcollo e per non cadere sono costretta a posare un piede a terra. Le porte cominciano a chiudersi e faccio appena in tempo a scendere prima che mi pizzichino in mezzo.
Guardo l’autobus che si allontana mentre riprendo fiato.
Cominciamo bene.
Ormai è troppo tardi per aspettare il pullman dopo. Tanto mancano solo un paio di fermate. Mi avvio sul marciapiede strascicando i piedi. Sono tentata di fare dietro front e tornarmene a casa. I miei saranno già usciti e sicuramente mia sorella sarà andata in università prima per prendere i posti a lezione. Solo lei può alzarsi all’alba per ripetere la lezione del giorno prima e andare a tenere il posto per le amiche. Io non lo farei nemmeno sotto tortura. E’ anche vero che io non ho amiche a cui tenere il posto.
Mi fermo un attimo ad un incrocio. La tristezza mi assale. Per quanto cerchi di negarlo è ovvio il motivo per cui trovo così insopportabile mia sorella. La ragione è che la invidio. La invidio con tutta me stessa, con ogni fibra del mio corpo. Vorrei essere lei.
Ma anche questo non è del tutto vero. Vorrei essere chiunque, tranne me stessa.
Sono arrivata al cavalcavia. Superato quello mancheranno un paio di isolati prima della scuola.
Una bella salita per cominciare la giornata col piede giusto!
Le macchine mi sfrecciano sulla sinistra rombando. Comincio a scendere dall’altra parte con un sospiro di sollievo. Lo zaino pesa come se l’avessi riempito di pietre.
Avrei dovuto lasciare a casa il dizionario, tanto non servirà a nulla. Arrivo al semaforo di Via Nizza. Corso Dante è un lungo tappeto di cemento che mi accoglie famelico. I rami scheletrici degli alberi con le foglie appena cadute ancora sui marciapiedi non aiutano a migliorare l’umore.
Avete una vaga idea di cosa voglia dire passare sei ore chiusa in una stanza con venticinque persone che vi urlano nelle orecchie? Ovviamente no. Ma lasciate che ve lo dica: è un Inferno. Con la I maiuscola. Mica per scherzo.
Certo, non mi urlano davvero nelle orecchie, ma il concetto è lo stesso.
Mentre mi avvicino i passi diventano più lenti e corti. Non lo faccio apposta. E’ che non riesco ad avvicinarmi più velocemente.
Indugio un secondo sul cancello aperto. Un ragazzo più piccolo mi supera con una falcata da centometrista. Dietro si lascia degli stralci di formule chimiche. Le vedo volteggiare nell’aria come coriandoli. Non ci vuole molto per capire che corre incontro ad una verifica che lo terrorizza. Gli auguro mentalmente buona fortuna e varco la soglia per la tortura giornaliera.
Il nostro liceo non poteva nascere in un luogo più appropriato. Mi sento come se sull’architrave ci fosse scritto di lasciare ogni speranza.
In ogni caso tutte le mie speranze di passare una giornata piacevole, o per lo meno indolore, le ho lasciate a casa, chiuse in un cassetto.
Dopo aver aspettato un ascensore che ha deciso di darsi alla macchia, salgo le cinque rampe di scale che mi separano dalla classe. Arrivo con il fiato corto e la lezione iniziata da cinque minuti. La prof di latino e greco mi guarda con compassione. Per fortuna ho ancora le cuffie nelle orecchie e non posso sentirla. Però mi vedo  benissimo riflessa nei suoi pensieri. Secondo il suo punto di vista sembro un pulcino bagnato e infreddolito.
< Croisées, devi farti dare il biglietto all’entrata>.
Odio quando pronunciano il mio cognome. Nessuno sembra rendersi conto che è francese. Non è colpa mia se uno dei miei bisnonni era francese. Scusate tanto! Però un piccolo sforzo per dirlo correttamente potrebbero farlo.
< Ma sono le otto e trentacinque…> provo a protestare.
Cerco di non guardarla. Forse così sembrerò anche più umile e implorante. Non mi importa cosa crede. Non posso farmi segnare un altro ritardo dai bidelli. Quei maledetti biglietti gialli finiscono nel registro e quando diventano troppi vengono convocati i genitori. Dall’inizio dell’anno sarebbe la terza volta.
La prof di latino è particolarmente ligia su questo punto. Per somma sfortuna, tre giorni su cinque me la becco alla prima ora.
< Dovresti cercare di arrivare in orario. In fondo non abiti nemmeno lontano> dice con tono compassionevole. Sembrerebbe quasi che si stia scusando, ma non demorde. Quel fottuto biglietto me lo farà prendere a costo di buttarmi giù dalle scale.
< Sì, ma vede…>.
< No, no. Mi spiace, ma devi farti segnare il ritardo> questa volta il suo tono è fermo.
Non resisto alla tentazione di guardarla. Mi vedo riflessa in versione lacrimosa.
Ehi, ma scherziamo? Non ho gli occhi lucidi!
E’ questo, più di tutto, a farmi decidere a tornare di sotto.
Mentre scendo le scale con calma- tanto vale godersi il ritardo- cerco di pensare ad una soluzione. Le vie di fuga, però, sono piuttosto esigue.
Numero uno. Emigro in un paese straniero dove la gente non pensa. Inesistente, credo.
Numero due. Mi cavo gli occhi e mi rompo i timpani ascoltando la musica col volume al massimo per due ore. Secondo i miei è possibile. Potrei provare se è vero. Ma temo che non siano i miei timpani il problema. Rischierei di trovarmi sorda, ma ancora in grado di avvertire i pensieri.
Numero tre. Mi chiudo in cantina fino alla fine del mondo o alla guerra nucleare. A quel punto sarò l’unica sopravvissuta e il problema sarebbe risolto alla radice.
Nel frattempo ho raggiunto il banco dei bidelli, di fronte all’entrata.
Maria, la bidella napoletana che veglia sulle nostre povere esistenze, mi allunga un biglietto giallo con sopra scarabocchiati il mio nome, la data e l’ora di arrivo. Sapeva già tutto, brava la nostra Maria. L’angelo custode che ci urla dietro in dialetto stretto. Dopo cinque anni in questa scuola ancora non capisco quello che dice. Ma potendo vedere e sentire cosa pensa non è molto importante.
< Alice bella, e cerca di arrivare in orario! Lo sai che quella è una strega> mi urla.
Per fortuna l’atrio è vuoto. Forse in strada l’hanno sentita.
< Ci proverò, Maria> rispondo arrendevole.
Ci provo, ma non ci riesco spesso.
Di nuovo cinque piani di scale in salita.
Entro in classe, senza parlare poso il biglietto giallo sulla cattedra e faccio lo slalom tra i banchi per trovare il mio posto. Per la versione in classe i banchi sono stati spostati in mezzo alla stanza come relitti lasciati a naufragare in mezzo al mare.
Per sedermi sulla mia sedia, esattamente al centro dell’aula, devo quasi volare sopra un banco e passare in mezzo alle gambe di un mio compagno. Quando finalmente mi siedo, trovo già ad aspettarmi la fotocopia della versione da tradurre.
Cicerone.
Mi lascio sfuggire un gemito mentre mi tolgo la felpa e tiro fuori il dizionario. Lo lascio cadere sul banco con un tonfo. Nessuno bada a me, sono tutti a capo chino sul brano da tradurre. Sulle loro teste posso vedere scorrere le parole come nelle vignette di un fumetto. Per un attimo mi incanto a guardarle. Se non fosse così complicato distinguere esattamente cosa pensa ciascuno, sarebbe uno scherzo copiare la versione. Invece mi tocca farmela da sola.
< Croisées, togliti le cuffie> mi ordina la prof, in piedi di fianco alla cattedra.
Durante le versioni resta in piedi a passeggiare davanti alla lavagna come un cane da guardia.
Togliermi le cuffie?
No, mai!
< Togliti le cuffie> ripete la prof.
Giulia e Carlotta, sedute vicino a me, si girano a lanciarmi un’occhiata di biasimo. Giulia, una ragazza minuta dai capelli castani tagliati a caschetto, si sta visualizzando molto chiaramente mentre mi strappa gli auricolari dalle orecchie per far tacere la prof.
Mi affretto a togliere le cuffie e i pensieri mi sommergono come una valanga. Metà della classe sta urlando, metaforicamente parlando, in latino, mentre l’altra metà insulta a fasi alterne l’insegnante e Cicerone.
Prendo un foglio protocollo a righe mentre la testa sta per esplodermi. Se solo potessi avere un attimo di pausa, di respiro per riordinare le idee… ma nessuno sembra intenzionato a smettere di pensare. Davvero poco rispettoso nei miei confronti.
La penna trema nelle mie mani mentre sottolineo i verbi sul foglio per poterli cercare. Stefano, il secchione della classe seduto dietro di me, ha già tradotto le prime due righe. Posso sentirlo compiacersi mentre trova un verbo particolarmente complicato. Mi aggrappo ai suoi pensieri come ad un giubbotto di salvataggio. E’ difficile distinguerli dagli altri. Come sentire una voce particolare che canta in mezzo ad un coro, con la differenza che ognuno canta quello che gli pare al ritmo che vuole.
Lascio perdere la fotocopia e comincio a scrivere la traduzione sul foglio protocollo. Non so se è corretta, ma tanto non è che potrei fare di meglio da sola. Aspetto pazientemente che Stefano finisca di fare la costruzione della frase, seguendo i suoi ragionamenti. Ogni tanto perdo qualche passaggio, ma guardando la versione seguo vagamente il filo dei suoi pensieri.
Il titolo della versione è “Amicizia eccessiva”.
Leggo la traduzione della prima riga.
Perciò, se siete d’accordo, vediamo innanzitutto fino a che punto deve spingersi l’amore per un amico.
Bella domanda.
Per me, che non ho mai avuto un amico degno di questo nome, è quasi incomprensibile.
I minuti scorrono veloci, ma non mollo i pensieri di Stefano. Se mi concentro riesco a isolarli dagli altri, ma è faticoso. Il suo modo di pensare è strano, contorto. Ritorna sulle frasi, per poi fare salti in avanti e indietro. Non riesco a stargli dietro. Percepire i pensieri di estranei è come sentire una radio sintonizzata male. Alcune frasi hanno senso, altre sono solo un feroce gracchiare degli altoparlanti.
Vorrei alzarmi in piedi e urlare: “Abbassate il volume!”, ma temo che la prof non la prenda troppo bene. E’ la donna dotata di meno senso dell’umorismo su tutta la terra.
Potrei fingere di avere una colica, o di svenire. Potrei persino ficcarmi due dita in gola e vomitare sullo zaino di Carlotta. La sua faccia orripilata sarebbe un premio sufficiente.
Invece resisto e Stefano mi premia con l’ultima frase della versione. Vorrei girarmi e dargli un bacio.
Se infatti è stata la tua fede nella virtù a concederti l’amicizia, difficilmente l’amicizia resterà se rinunci alla virtù.
E bravo il nostro Cicerone. Pure le frasi ad effetto ha voluto aggiungere. Ma non poteva copiare i suoi temi da qualcun altro, come fanno tutti?
Suona la campanella della seconda ora. Gemiti di panico si alzano nell’aula.
< Ancora cinque minuti prof!> implora qualcuno.
L’insegnante agita le mani davanti alla faccia come per calmare un cavallo che sta per travolgerla.
< Ragazzi, non vi preoccupate: vi lascio tutto l’intervallo> dice.
La classe ripiomba nel silenzio mentre chi non ha ancora finito sfoglia febbrilmente il dizionario e gli altri ricopiano in bella.
E’ la prima volta dall’inizio dell’anno che finisco la versione in tempo. Ma so che dovrò pagarne il prezzo. Concentrarmi sui pensieri di Stefano per quasi due ore ha prosciugato tutte le mie energie. Sento il mal di testa in agguato, pronto a ghermirmi al primo attimo di disattenzione.
Consegno la versione senza nemmeno riguardarla e scappo in bagno dove mi sciacquo la faccia con l’acqua fresca.
In tasca ho un’ultima aspirina. La mando giù con due bei sorsi e mi appoggio contro il muro. Considerando l’igiene che regna nei bagni della scuola non so se è una mossa furba. Come minimo rischio di prendermi il vaiolo. O il tifo.
Mi tornano in mente tutti i nomi di virus schifosi che mia sorella recitava a colazione. Forse tra quelli ce n’era uno abbastanza brutto da annidarsi tra queste mattonelle lerce.
< Tutto bene?> mi chiede una voce famigliare.
Apro gli occhi e vedo Eleonora, l’unica ragazza della classe con cui posso vantare una sorta di legame. Quanto di più vicino all’amicizia posso avere.
Vengo avvolta dal profumo di fiori e sotto ai miei piedi compare un prato verde. Intorno alla mia testa volteggia una farfalla dalle ali dorate. Resto per un attimo abbagliata ad osservarla, poi mi ricordo di rispondere.
< Sì, tutto bene. Ho solo mal di testa> rispondo fissandomi i piedi per non essere distratta.
Ma anche così è piuttosto complicato, dato che una coccinella dalle ali iridescenti si sta arrampicando sui lacci.
Con lei è sempre stato così. Dal primo giorno che l’ho vista, spandeva intorno a sé un’aura di puro idillio. E’ qualcosa di diverso dalle onde positive di mia sorella. Meno evidente per chi non sa vedere, ma più sconvolgente per chi ci riesce. La cosa positiva è che non riesco a percepire i suoi pensieri. Nessuno schermo piatto in cui posso vedermi specchiata, nessun rumore molesto, almeno di solito. Il problema sono tutte le creature, insetti o animali, che le volteggiano intorno.
In questo momento ha uno scoiattolo che si arrampica sul braccio.
Reprimo a fatica l’impulso di allungare una mano e accarezzargli la coda. Il risultato sarebbe piuttosto imbarazzante.
< Hai finito in fretta> continua Eleonora nel tentativo di mandare avanti la conversazione.
Le sono grata per tutti gli sforzi che fa per essermi vicina. So che non è facile avere a che fare con me. Ma non sembra farci troppo caso. Forse perché anche lei non riesce a legare molto con gli altri.
Nonostante sia una ragazza incantevole, con due fossette irresistibili quando sorride e due occhi verde acqua da capogiro, fa fatica a relazionarsi con i nostri compagni. E’ timida, e non molto brillante a scuola. Gli altri della classe ricordano più un branco di cani randagi pronti a tuffarsi sul più debole del gruppo quando la fame si fa sentire. Non proprio l’ambiente ideale per due come noi.
< Ho trovato qualche frase fatta sul dizionario> mi invento.
Non mi piace mentirle, ma non è che posso dirle: “Sai, l’ho letta nella mente del primo della classe, una cosa che so fare da quando sono nata”. Temo che potrebbe prenderla male.
< Beata te. Io non ho dovuto inventare l’ultima frase… Hai capito cosa c’entrava la virtù?>.
Mi stringo nelle spalle. Chi può sapere cosa voleva dire quel vecchio?
< Forse intendeva la castità…> Eleonora si sta arrampicando per una strada pericolosa. Mai rimuginare su una versione appena fatta. In cinque anni non l’ha ancora capito? Quel che è fatto è fatto, dedichiamoci a qualcosa di più utile. La merenda ad esempio.
< Ma se parlava di castità perché uno dovrebbe averla per essere amico di qualcuno?>.
Mmm, davvero troppe domande a stomaco vuoto.
< Vado al bar a prendermi qualcosa, vieni?> le chiedo.
< Oh, sì. Ho voglia di saccottino al cioccolato>.
Il cibo risolve un sacco di problemi. Dico sul serio.
Usciamo dal bagno e cominciamo a scendere le scale, affollate di altri ragazzi con la nostra stessa intenzione. Oltre al vociare si aggiungono subito i pensieri sparati in tutte le direzioni da menti febbrili all’opera. Ho lasciato l’mp3 in classe e non posso certo usarlo mentre sono con Eleonora.
Sento il sangue defluirmi dal viso e barcollo appoggiandomi al muro. Sono tentata di dirle che ho cambiato idea.
< Tutto ok?> mi chiede subito posandomi una mano sulla spalla.
Il rumore intorno a me si attenua come se mi avessero infilato due batuffoli di cotone nelle orecchie. Mi guardo attorno incredula. Gli altri ragazzi sono sempre lì. Si muovono su e giù per le scale, si rincorrono, si salutano. Sento quello che dicono, ma è come se avessero iniziato a pensare sottovoce.
< Alice!> mi richiama Eleonora.
< Sto bene> rispondo rimettendomi dritta.
Non appena toglie la mano dalla mia spalla il frastuono di poco prima mi colpisce di nuovo.
< Pensandoci… non credo di stare proprio benissimo. Ti spiace se mi appoggio a te per scendere?> dico sudando freddo per la tensione.
< Certo>.
Mi appoggio alla sua spalla, nonostante sia più bassa di me di quasi tutta la testa, e il rumore si attenua. Vorrei urlare per la gioia.
Scendiamo per i cinque piani che ci separano dal bar e ci mettiamo in fila in mezzo al marasma di ragazzi in attesa. Per arrivare vicino al bancone dobbiamo farci strada a spintoni.
Cerco di non guardare nessuno e di non perdere il contatto con Eleonora. Anche se non ho capito come sia possibile, sembra che la sua vicinanza funzioni come l’mp3.
Arrivo al bancone dopo aver quasi calpestato una ragazza di quinta ginnasio e un ragazzino che sembra appena uscito dalle elementari. E il fatto che stia pensando alle carte dei Pokemon  non gioca a suo favore.
< Due saccottini> ordino al barista barbuto, un uomo sulla sessantina che ama il look alla Babbo Natale. Ogni tanto me lo immagino con un berretto rosso e un campanello in mano. Mi risolleva la giornata.
Pago e mi trascino fuori con Ele attaccata al braccio.
Appena siamo fuori dalla calca le do il suo saccottino e addento il mio. Il ripieno al cioccolato mi cola sul un lato della bocca e mi affretto a pulirlo con un dito.
Chiudo gli occhi per assaporarlo meglio. La parte migliore della giornata.
Ci siamo appoggiate nel corridoio che porta alla palestra. Subito prima si aprono le porte che danno sull’Aula Magna, decisamente un nome un po’ altisonante. Lì c’è meno gente. Davanti al bar invece c’è ancora una folla di ragazzi affamati. Davvero uno spettacolo interessante da osservare.
Sono ancora abbastanza vicina a Eleonora da sfiorarle la spalla, così percepisco solo un lieve borbottio in sottofondo. Lei non sembra farci caso, concentrata sulla sua brioche. Ha un uccellino azzurro posato su una spalla che cinguetta allegramente. Per non fissarlo decido di dedicarmi anch’io alla mia merenda.
< Sia lodato il cioccolato> dice dopo aver ingoiato l’ultimo boccone.
Annuisco mugugnando la mia approvazione con la bocca piena. Un paio di briciole mi cadono sulla maglietta e cerco di spolverarmi senza farmi notare troppo.
Ele si allontana per buttare il tovagliolo nel cestino e i tappi nelle orecchie vengono bruscamente rimossi. La ragazza che mi passa vicino sta pensando intensamente a cosa dire al ragazzo che le piace. E’ indecisa tra un “Che fai?” e un “Come va?”. Se non fossi troppo impegnata a non vomitare la brioche che ho appena mangiato le suggerirei di saltargli addosso e darci un taglio con quella lagna.
Vorrei mettermi ad urlare per sovrastare il rumore e smettere di sentire.
Sta peggiorando sempre di più. Ormai il volume dei pensieri ha raggiunto l’equivalente di una cassa da discoteca sparata al massimo. E anche le immagini che vedo intorno agli altri sono sempre più nitide. Ma c’è qualcosa di strano.
All’improvviso è come se tutti gli schermi piatti su cui vedo riflessi i pensieri degli altri subissero la stessa interferenza. Le immagini tremano, si confondono in una massa indistinta di colori. Non sento più frasi coerenti, ma un forte frusciare, come se ci fossero dei disturbi nella trasmissione.
Subito dopo un peso opprimente mi blocca il respiro. Apro la bocca ma non riesco a far entrare aria nei polmoni. Annaspo, barcollo e mi accascio contro la parete. Due secondi dopo è tutto finito.
Inspiro bruscamente non riuscendo a credere di poterlo fare. Anche i suoni e le immagini sono tornate alla loro assordante manifestazione.
Mi guardo attorno. Nessuno si è accorto di quanto è appena successo.
Ovvio che sia così, certo, ma mi sento comunque scombussolata. E’ come se fossi l’unica ad aver sentito un allarme antincendio e dovessi decidere se scappare da sola o provare ad avvertire gli altri.
Suona la campanella.
Eleonora torna indietro e mi prende per mano correndo verso le scale. Un’orda di ragazzi parzialmente riposati sta facendo lo stesso.
< Presto, adesso abbiamo matematica!> dice Eleonora facendo i gradini due a due. Le sto dietro solo per non perdere il contatto con la sua mano. Se dessi retta al mio istinto me ne andrei senza voltarmi indietro.
Per le scale vado a sbattere contro un ragazzo più giovane. Dal suo petto spunta la zampa di un animale che si protende verso di me. Mi scanso con un urlo di sorpresa e il ragazzo mi guarda perplesso prima di correre verso la sua classe. È la prima volta che qualcosa esce dallo schermo piatto per tentare di avvicinarsi.
Eleonora mi strattona verso l’alto. Mancano ancora un paio di piani. Lascio perdere la brutta sorpresa della zampa di cane spuntata dal nulla (puah!), e mi concentro sull’evitare di scivolare sui gradini. Mi manca solo una gamba rotta per completare in bellezza la giornata.
Quando arriviamo la prof non c’è ancora.
Mi lascio cadere al mio posto, miracolosamente tornato in penultima fila, attaccato al muro, e prendo le cuffie da sotto al banco. Le infilo e accendo la musica. Finalmente salva.
Ho ancora lo stomaco contratto per quello che è successo di sotto. Vorrei tornare a casa, ma ho ancora cinque ore da sciropparmi tra matematica, storia e astronomia. Come se ci fosse qualcosa di utile tra loro.
  
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