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Autore: ellephedre    20/03/2012    10 recensioni
Serenity, principessa della Luna. Figlia di sua maestà la Regina Serenity e di... La storia di una regina al termine della sua vita, una sovrana che imparò di nuovo a vivere.
Indossava i colori del roseto terrestre - verde intenso e rosso vivo - quando si sentiva come una ragazza, il suo corpo un fusto di rami che ancora non aveva messo radici, pronto a cercare gioia nel terreno più adatto.
Lei era come le rose terrestri: ritrosa a svelarsi, bella solo quando curata, da ammirare in segreto.
La Serenity dei momenti successivi al riposo era una donna sola, in pace con se stessa. Reclinava il capo sul letto di pensiero, godendosi il vento che richiamava su se stessa, la brezza che si insinuava sotto la veste accarezzandole il corpo.
Sorrideva, Serenity.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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reny

 

Note: il titolo della storia si legge con una 'r' leggera, alla giapponese, come nella parola 'volare'. Ma di sicuro si dedurrà già alla fine di questa prima parte.

 

Reny
 
Autore: ellephedre
 
Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

 


 

Roseto.

Soffiava il nome tra le labbra quando il sonno la abbandonava e la sua stanza si apriva al giardino, il trono di fiori ad attenderla per un primo saluto.

Rosa di Terra e bais di Ichìan, truus di Contues e flèon di Mriaase. I suoi preferiti. Indossava i colori del roseto terrestre - verde intenso e rosso vivo - quando si sentiva come una ragazza, il suo corpo un fusto di rami che ancora non aveva messo radici, pronto a cercare gioia nel terreno più adatto.

Era come le rose terrestri: ritrosa a svelarsi, bella solo quando curata, da ammirare in segreto.

La Serenity dei momenti successivi al riposo era una donna sola, in pace con se stessa. Reclinava il capo sul letto di pensiero, godendosi il vento che richiamava su se stessa, la brezza che si insinuava sotto la veste accarezzandole il corpo.

Sorrideva, Serenity.

Vivevano con lei le rose che aveva fatto crescere tra lunghi sforzi, senza infondere loro potere: aveva rispettato la loro ferrea volontà di esistere con regole che lei non poteva distorcere. Permetteva loro di morire quando lo desideravano, e creava un nuovo rapporto d'amore coi figli dei loro figli, boccioli che nascevano, fiorivano e appassivano nel tempo di un soffio. Effimeri.

Aveva concesso il favore della morte a ogni fiore alieno che risiedeva nel suo giardino, ma le rose erano speciali.

Il giallo sfrontato dei baisis la faceva ridere. Il blu intenso dei truusn la incantava. I flèonas la confondevano, fiori bianchi che avevano scelto di privarsi del colore. Erano immacolati, candidi, privi di esperienza. Li ammirava.

Ma le rose erano sempre state con lei, sin dal principio di tutto. Un dono di suo padre, per insegnarle la caparbietà. Non tutto può andare come vuoi tu. Le rose sgargianti l'avevano vista crescere e cambiare. Davanti a loro, con loro, era diventata una regina. Le rose, rose mie, l'avevano osservata nel riposo mentre i periodi si susseguivano l'un l'altro senza cambiamenti. L'avevano accompagnata discrete, compagne tenaci, guardandola da fuori la sua stanza.

Non raccontava loro che era una sovrana amata. Lo sapevano. Mentre tagliava i loro rami, le mani sporche di terra, una volta aveva sussurrato, 'Sono terminata'.

Si sentiva un fiore appassito quando apriva gli occhi e ricordava che l'attendevano momenti già vissuti, una vita sperimentata per intero che si sarebbe ripetuta identica nel tempo, immutata.

Sono una regina vuota. Se la mia Luna sapesse?

Impossibile, pertanto lo nascondeva a chiunque. Presentandosi oltre la porta delle sue stanze, diveniva sua maestà eterna, ragione e cuore, anima della Luna.

I suoi sudditi la amavano.

E io, pensava lei, vi donerò una principessa quando sarà arrivato il mio tempo. La crescerò lontano da me, così che lei conosca la gioia e creda nella follia dell'amore. Sarà una regina che adorerete, una Luna di luce. Per morire io andrò lontano da qui, col mio roseto. Mi sdraierò ove il nostro Elios non giunge e mi addormenterò in eterno felice, sul suolo della Luna che fui.

Aveva perso la ragione, si redarguiva poi, ancora immersa in quel fiume di pensieri. Si alzava, allontanandosi da tutto; rose, baisis, truusn, vegetali senza voce. Correva dai suoi sudditi a comportarsi da persona vera, a udire risposte, a tentare di ascoltare parole e assorbire pensieri. Quando il sonno la vinceva, nella solitudine agognata della sua camera, si chiedeva perché non l'avesse già fatto. Perché non si era già lasciata andare al cammino del termine? Una nuova e giovane Serenity le avrebbe permesso di andare, l'avrebbe sostituita in breve tempo.

Sarebbe stata la sua sconfitta.

Madre, padre. Mi mancate.

Non le avevano donato alcun fratello. Poteva essere il motivo della sua pazzia?

Sorrideva tra sé. L'universo era in disordine. Lei e le altre sovrane lo percepivano intensamente, lo temevano. Il bagliore del caos si era infiltrato tra loro in forme semplici, eventi casuali sparsi nelle ere.

Una Venere che si spegnava un periodo prima del tempo stabilito. La linea di Plutone che tagliava ogni legame col mondo esterno. La ribellione su Giove. La stirpe di Marte che entrava in lotta con se stessa. La Terra che si annullava per propria volontà. Mercurio, Urano e altri non avevano ancora dato segni di squilibrio o, come accadeva a lei, li tenevano celati.

Nessuno ne aveva sentore, ma la Luna aveva una Regina che desiderava perire. Quale offesa maggiore per l'ordine del cosmo?

Serenity attendeva e osservava.

Provava piacere nel guardare le vite altrui, storie che si compivano serenamente. Non le invidiava, lasciava che le strappassero un sorriso prima di addormentarsi, quando ormai era troppo stanca per pensare.

 

Cambiò tutto con la comparsa di una mano. 

Una mano, tre dita nel suo amato roseto che lo afferrarono ferendosi, le spine che affondavano nella carne estranea fino a fiorire di sangue.

Serenity si levò dal suo giaciglio, volò verso i giardini. Il comando di una punizione si spense sulle sue labbra. Tra il roseto e il baisien giaceva sul suolo duro un uomo con le vesti lacerate, il volto deformato da una smorfia. Il dolore gli strappò un grido rauco di sofferenza.

Chi sei?, gli ordinò lei.

La risposta la colpì alle gambe, un calcio contro stinchi che non avevano mai conosciuto colpo estraneo. Sgomenta, non reagì.

"Àisanee riòndas."

Il ringhio da bestia le impose di mostrare la propria potenza. Minacciò l'uomo con un'aura di forza, ma lui gridò, trafitto.

"Àisanee riòndaas!" L'estraneo si strinse lo stomaco grondante di sangue, lacerato su un lato.

Lei gli impose immobilità e lui tornò a urlare.

"Àisa Àisa Àisa..." Parole biascicate che seppero di minaccia.

Inconcepibile.

Serenity esercitò l'autorità della propria gola. "Parli con una sovrana, straniero."

Lui sputò a terra, striando di sangue marcio la durezza del marmo. "Riòndas!"

Lei decretò la propria pazienza esaurita. Colpì l'aria con una manata secca, trasferendo il colpo sulla nuca dell'uomo. Lui perse i sensi.

Alieno.

  

Mantenne rigida la dimensione dei giardini prima di portare l'estraneo all'interno delle proprie stanze. Lui era entrato tramite un varco spaziale di cui non si avvertiva più traccia.

Pericolo.

Come era riuscito quell'uomo ferito e privo di potere a fare breccia nell'area spaziale della Luna, nelle sue stanze? In quale mondo esistevano ancora esseri umani nella cui essenza non scorreva forza?

Ebbe le sue prime risposte quando iniziò a sanare le ferite di lui: caparbie, quelle rifiutarono la guarigione. Potenti a loro modo, le lacerazioni si opposero a tutto il suo potere e a qualunque tentativo di manipolazione di elementi umani e carne. Il sangue defluiva copioso sulle lenzuola d'argento.

La rosa è morta, papà!

Attonita, si gettò sull'uomo e premette con le mani sulle ferite, strappandogli un lamento privo di coscienza.

Il potere non funzionava.

Infilò la mano dentro il corpo viscido di sangue e caldo di morte, trattenendo un conato. L'odore era nauseabondo.

E il suo potere non funzionava.

Non esisteva in tutto il loro sistema stellare un essere più potente di una Serenity.

Nell'universo non esiste una forza maggiore di Serenity, noi saremo...!

Farneticazioni che non avevano utilità. Fece apparire tra le mani pasta di chròs, gioco di un'infanzia dimenticata. La modellò sui vasi di sangue di lui; le sue dita scivolavano, il sangue non si fermava. Riuscì a tamponare la lacerazione interna, le mani immerse in un corpo estraneo che non pareva umano: fluidi, lezzo, consistenza di carne che non conteneva in sé alcun potere. Dov'era un uomo in tutto ciò?

Pulì la mano sulla mascella ruvida di lui, grumi di porpora brillante che coprirono peli biondi e corti, rigidi e fuori posto.

Alieno, un essere umano antico e superato.

Con la pasta di chròs terminò di rammendare il taglio netto sullo stomaco dell'estraneo. Come bende usò le lenzuola argentate che aveva confezionato con le sue stesse mani. Rovinate per sempre.

Si tirò indietro e poté tornare in piedi, l'emergenza svanita.

Guardò le proprie vesti chiazzate, i capelli chiari incrostati di sangue, il proprio volto in un riflesso.

Era sorpresa, colta alla sprovvista, disgustata.

Si sentì viva.

  

Si svegliò con occhi immobili, fissi su uno sguardo d'odio.

Bulbi oculari rosati, rovinati, e iridi della tinta del cielo spaziale, laddove esso era immenso e privo di vita.

Le palpebre dell'uomo tremavano, egli sudava dalla fronte. Aveva ugualmente la forza di detestarla. "Riòndas" sussurrò sprezzante, una sfida che la invitò a cogliere.

Serenity si levò in piedi, attese un momento. Il suo corpo smaltì lentamente i ricordi del sonno.

"Straniero."

Tentando di ignorarla, lui si sdraiò sulla schiena e deglutì il dolore. La osservò e non disse nulla, provò a stare fermo senza riuscirvi. Era scosso da brividi, una caricatura di forza.

Infezione.

Per controllare, Serenity ordinò alle bende di tagliarsi.

L'urlo rauco dell'uomo si trasformò in un attacco. Saltò fuori dal letto, verso di lei. Cadde prima di raggiungerla, toccando il suolo con un tonfo, il suo corpo un peso morto. Il dolore lo privò dei sensi.

Serenity lo compatì per la sua miseria. Per il suo ardore, lo invidiò.

  

Il regno ebbe presto notizia delle nuove intenzioni della sovrana: una pausa, di pace. Ella non desiderava essere disturbata.

La Luna affrontava la sua prima crisi da ere. Un uomo privo di potere, giunto da dimensioni e pianeti sconosciuti, penetrato nel mondo che doveva essere la culla della rinascita. Serenity non commise l'errore di sottovalutare la situazione, rimase a fianco del nemico. Lunaria dopo lunaria, lo studiò.

Nel delirio della febbre osservò le urla di lui, le sue grida, sempre le stesse parole. I tentativi di ribellione non avevano fine, egli non desiderava costrizioni, era pronto a rischiare la morte pur di opporsi.

Per sanare i suoi danni fisici, lei era tenuta ad aprire le ferite e a cambiare la pasta di chròs che impediva alla carne di sfaldarsi. Tentare di unire le ossa testarde della mascella dello straniero si era rivelato inutile: egli urlava e si agitava fino a perdere conoscenza. Sovente era lui stesso a cercare l'oblio, premendosi le mani nella lacerazione.

Nella sua folle determinazione, era caparbio e metodico: odiava il potere, lo disprezzava con tutto il suo essere. Ne percepiva l'alone, ne aveva il sentore, e si dimenava per passare all'attacco, le labbra morse fino a schizzare sangue.

Come ne sei capace?

Serenity aveva smesso di porgli la domanda mentale. Serviva solamente a distruggere i pochi momenti di apparente tranquillità.

L'odio, aveva concluso tra sé. L'odio per il potere permetteva all'uomo di respingere anche la potenza più grande. Nel suo essere inerme, egli era forte in una maniera che le risultava ignota, inquietante.

Quale pericolo saresti per la mia gente, se fossi accompagnato da tuoi simili?

"Riòndaas!"

Egli era monotono nelle sue proteste, deciso come se stesse comunicando lo scopo della propria vita in una singola parola. La urlava per opporsi alla sua forza ogni volta che lei tentava un tocco lenitivo di energia.

Per non sentirlo più gridare, Serenity gli coprìva la bocca con le lenzuola.

  

Veglia e sonno si ripeterono per entrambi in una sequenza priva di ordine, di nuovo e ancora.

Infine, mentre lui dormiva, lei decise di sollevare una sua palpebra.

Rosso e giallo erano colori svaniti in quell'occhio alieno.

Bulbo oculare bianco, iride blu, pupilla nera. Occhio in salute.

Forse sopravviverai.

  

La prima parola che tentò di fargli comprendere fu basilare, semplice.

"Acqua."

Lo invitò a bere da un recipiente creato appositamente per lui: con la gola secca e le labbra screpolate, l'uomo si era già rifiutato di bere dall'aria. Era fiero, nella sua stupidità.

"Acqua" gli ripeté lei una seconda volta, quando di nuovo lo fece bere. E "acqua" fu ciò che disse lui in seguito, quando iniziò a rivolgersi a lei come ad un altro essere umano.

  

Dopo la prima comunicazione vi fu un lungo silenzio, un periodo di studio.

La febbre svanita, l'uomo osservava le pareti della stanza, gli occhi vacui. Sveglio, contemplava immobile il nulla.

Durante le prime lunarie la guardò poche volte, senza interesse. Lei non era importante per lui ed egli, concluse Serenity, pareva innocuo.

Ma se ti rivelerai una minaccia per il mio popolo, ti ucciderò.

  

Coesistevano come due rose in un roseto, ognuno preoccupato di esistere senza accorgersi dell'altro.

La voce dello straniero la colse di sorpresa quando si fece viva fuori da urla, in un intero discorso.

"Ista ra mèias."

Voltandosi, Serenity lo trovò come morto, le braccia distese lungo il corpo, le palpebre socchiuse. Non guardava lei. Le sue parole erano state un soffio di vento, leggere nel silenzio.

"Oidèsen mer... fìndare so."

Era una preghiera. Un'invocazione, un sussurro che chiedeva di essere ascoltato da una presenza invisibile. Egli si rivolgeva alle pareti trasparenti, al cielo. Anelava la volta oscura dello spazio.

"Riòndas màighe." Il suo tono si spezzò, riprese ad una nuova cadenza. "Àirami. Àirami, àven."

Spezzato.

La conversazione proseguì lenta e dolorosa. Lei non esisteva in quella stanza.

Quando le parole smisero di defluirgli dalle labbra, l'uomo si addormentò.

  

"Serenity" gli disse lei due risvegli dopo, certa di avergli concesso tempo a sufficienza per una ripresa adeguata. "Serenity" ripeté, premendo due volte la mano sul petto, il gesto che con cui aveva già accompagnato il proprio nome. Indicò lo straniero con grazia di sovrana, la risposta un ordine che non poteva essere disatteso.

Egli non si curò dei tempi imposti, la studiò come se fosse un'incombenza che lo affliggeva. "Reny" disse infine. Annuì.

"Reny?" domandò lei, insistendo con la mano nella sua direzione. 

Contrariato, egli la indicò con la testa, deciso. "Reny." Voltò il capo verso la luce, lontano da lei. Si addormentò su quelle parole, vinto dalla stanchezza.

Aveva storpiato il suo nome, comprese Serenity. Di proposito, ne fu sicura.

   

Il silenzio proseguì senza sosta, ulteriori tentativi di contatto rimandati a tempi di maggiore sopportazione. Infine, come la Terra che sorge all'orizzonte senza preavviso alcuno, l'uomo focalizzò lo sguardo su di lei, le pupille che diventavano scure con intento.

Serenity lavorava nel roseto, fuori dalla stanza, le pareti aperte per lasciar entrare suoni e aria.

"Reny."

Colta di sorpresa, meditò di mantenere il silenzio. "Serenity" lo corresse ugualmente, pulendosi le mani dalla terra.

"Reny" insistette lui, un cuscino dietro le spalle, seduto sul letto creato per ospitarlo.

"Serenity."

"Reny." Alla decisione finale egli accompagnò l'ombra di un'espressione che Serenity faticò a riconoscere: bocca piegata all'insù, appena. Un sorriso, nascosto in una nuvola dura e gialla di peluria che non cessava di crescere.

Lei accarezzò un fiore tra le dita. "Rosa." Ne tagliò il gambo, la lanciò sul letto. L'uomo ne seguì il percorso con lo sguardo. Rimase a fissare i petali rossi che si erano sparsi sulle lenzuola.

"Rosa" ripeté Serenity.

Lui prese in mano il fiore. "Rosa." Cercò la puntura di una spina sulle dita e lacerò a fondo la carne del pollice. Soddisfatto, lasciò cadere il fiore di lato, al suolo. Scivolò sul cuscino fino a sdraiarsi e, ancora una volta, dormì.

  

Le loro conversazioni non conobbero più fine.

I discorsi di lui erano brevi monologhi di accusa, pronunciati a voce bassa, perentoria. Non la temeva o, come credeva Serenity, la temeva abbastanza da tentare di proposito di provocarla: cercava la fine, ma non per mano propria. Quando la sua testardaggine lo spossava delle poche energie che aveva in corpo, lui le poneva domande che non cercavano una risposta.

"Reny. Àivudros sà?"

"Da dove sei venuto?" ribatteva lei.

Lui la guardava. "Sàntrsel sa."

Quando parlavano l'uno con l'altra, parlavano solo con se stessi.

   

Acquisire i rudimenti del linguaggio dello straniero non fu complesso per lei, sovrana dalle infinite conoscenze.

"Àisanee sà?"

Con due sole parole si guadagnò un'occhiata rapida e lacerante. L'uomo rese gli occhi due fessure violente. Infine, decise che lei non era degna della sua attenzione e guardò altrove.

Quale insolenza.

"Riòndas sà?" insistette lei, premendo sulla parola odiosa e odiata.

"Sèprits."

"Io stessa preferisco il mio idioma al tuo. Ma prima o poi parleremo, straniero, e stabiliremo la sorte che ti attende."

La fierezza della disposizione non incontrò timore di rimando, ma solo sprezzante divertimento, l'ombra di un sentimento più forte.

"Sèprits."

"Se non hai niente da dire, fa' silenzio."

"Sèprits" fu l'ordine di lui.

Inaccettabile.

"Fa' silenzio!" La propria voce, acuta sul finale, le riempì le orecchie. Non urlava da...

Lui era scattato a sedere. "Sèprits" sibilò, una smorfia di dolore e insofferenza a minacciarla.

Pretendevano l'uno dall'altra il medesimo mutismo, capì lei.

Lo comprese lui stesso e la tensione abbandonò le sue membra. Emise un sussurro. "Sèprits, Reny."

Fu un'implorazione.

Serenity lasciò la camera.

  

Quando tornò, trovò lo spazio delle sue stanze differente, svuotato del corpo che aveva abitato perennemente il giaciglio di cura.

Lo straniero era in piedi, il braccio avvolto attorno al suo stesso corpo, a coprirlo un groviglio di lenzuola.

Respirava piano, a fatica, fermo a pochi passi dai giardini.

Serenity lo raggiunse e passò oltre, verso l'esterno. "Puoi uscire." Indicò la vegetazione.

Lo sguardo dell'uomo si posò sulle rose, sui truusn e sui candidi flèonas. Contemplò i colori come fossero vita per i suoi occhi. Ne fu sazio e indietreggiò lentamente, incerto sulle gambe.

Tornò a letto. La sua prima, timida escursione terminò così.

  

Lloygan. Un nuovo fiore lillà di rara eleganza, dono di un pretendente alla sua mano. Altro caos: quell'uomo non era altro che un sovrano del suo stesso sistema stellare. Inoltre... Ti illudi, ma non è necessario che tu lo sappia.

Gli attendenti di palazzo avevano lasciato il regalo fuori dalle sue stanze. I petali delicati avevano recato con sé l'accompagnamento di parole succinte e poetiche, impegno sprecato per conquistarla.

Ma il fiore le era gradito. Nelle sue stanze private poteva rendergli omaggio senza alimentare speranze inesistenti. Lo portò con sé fin nei giardini, posandolo sulla pavimentazione di marmo che circondava le aiuole adorate su cui aveva lavorato con cura. Con le braccia ormai alte, sollevate per creare uno squarcio preciso nelle ampie lastre quadrate, si interruppe.

Dall'interno della camera lo sguardo dello straniero era fisso su di lei, pronto ad odiarla.

Serenity osservò la durezza lucente del marmo e unì le labbra fino a sentirsi senza bocca, muta per la frustrazione.

Attorno alle aiuole il marmo era modellato in piccoli pezzi separati, in rilievo, come aveva voluto lei stessa. Ne individuò uno e affondò le mani nel terreno, incastrando le unghie sotto la sua superficie. Tirò con tutta la forza che aveva. Quando mollò la presa, ricadde all'indietro, nessun potere a fermare il colpo.

La accettò come una sfida.

Col tacco della scarpa, pestò il marmo nel punto di giuntura, più e più volte. La prima crepa la fece sentire vittoriosa.

Servirono sudore, muscoli e strumenti impropri per separare quel singolo pezzo di materiale, a sua volta nient'altro che uno strumento per attaccare le lastre in cui lei desiderava creare la sua nuova aiuola.

Con la Terra ormai tramontata all'orizzonte, Serenity percepì accanto a sé una presenza. Scelse di non gratificarla con lo sguardo desiderato.

"Reny."

Lei continuò col proprio lavoro. Il marmo rotto le feriva il palmo se tentava colpi dall'alto, perciò aveva ritenuto più saggio procedere con un'incisione paziente e continua delle lastre sui punti di unione, per allargare crepe finissime. Sarebbero occorse decine di lunarie per terminare l'opera.

Il sudore cominciò a scivolarle dalla fronte. Ancora non era rimasta sola.

Prese le lunghe code che continuavano a intralciarla nel suo lavoro e le annodò strette sulla testa. Percepì un suono di divertimento che le impose di distrarsi e guardare lo straniero.

Come osava lui?

Ma egli non stava ridendo di lei. Sorrideva esausto della situazione e fissava le sue dita che stringevano maldestre il pezzo di marmo.

"Reny" ripeté. Sollevò una mano nella sua direzione, stabilendo un collegamento tra lei e il nome, quindi la portò al proprio petto.

"Sian."

Annuì e premette le dita su di sé.

"Sian."

 

CONTINUA

 

 


 

NdA: sarà una storia in due parti. La seconda parte - su cui fantastico da tanto tanto tempo - meritava più spazio e attenzione.

Ci tengo a ringraziare Tomoyo_Daidoji per l'idea di questa fanfic. Tempo fa (più di un anno fa, incredibile), all'interno delle richieste per la raccolta Imagining, mi buttò giù l'idea di scrivere una storia basata sulla canzone di Franco Battiato, 'La cura'. Ho conosciuto questa canzone tramite lei e l'idea di questa storia è nata dal testo, più precisamente da questi passaggi:

 

Ti proteggerò [...] dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via.
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, [...]
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore, dalle ossessioni delle tue manie.
Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te.
[...]
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.
Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza.
[...]
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono.
[..]
TI salverò da ogni malinconia,
perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te...

Quell' essere speciale mi colpì molto a suo tempo. Sian, l'uomo che ho presentato in questa storia, è decisamente un essere speciale. Di lui capirete tutto - quasi - nella parte finale della storia.

Il testo della canzone, nei passaggi che ho riportato, delinea l'essenza della storia che voglio raccontare.

 

Grazie per aver letto, spero che mi farete sapere cosa ne pensate della storia.

 

ellephedre

 

   
 
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