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Autore: Whatadaph    20/03/2012    7 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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L’idea di scrivere una long-fiction Grindeldore è nata innanzitutto dalla voglia di leggerne una. Adoro questo pairing, con tutte le tinte fosche e brillanti che può assumere, tutto quel confuso miscuglio di genio e follia, occhi penetranti e occhi luccicanti. Tuttavia, benché esistano molte, splendide One-shot, di long-fic davvero long non ne ho trovata nessuna. E... beh, le parole hanno iniziato a muoversi da sole dentro la mia testa e qualcosa mi ha costretta a scrivere. Così, ecco qui! Mehr Licht è un’esclamazione di Goethe (che oltretutto ringrazio molto per tutta l’ispirazione che con I dolori del giovane Werther mi ha dato). Significa Più luce!

Prima che cominciate a leggere...

So bene che da Vita e menzogne di Albus Dumbledore di Rita Skeeter possiamo ricavare informazioni un po’ diverse da quelle riportate qui relativamente al momento della morte di Kendra Dumbledore. Da Harry Potter e i Doni della Morte: “I due giovani erano al Paiolo Magico a Londra [...] quando un gufo portò la notizia della morte della madre di Dumbledore.”

Sappiamo bene quanto la Skeeter sia inaffidabile, e per quanto mi riguarda le voci mi riferiscono che Albus e Aberforth avessero ricevuto la tragica notizia nelle ultime settimane di scuola (o perlomeno, ho immaginato che fosse avvenuto così).

Buona lettura!

 

A Ale, Silvia e Anna.
A Giulia, la mia adorabile beta.
E alla vittoria a Durbuy e tutte le mie compagne di corso, perché altrimenti non avrei cominciato a postare proprio oggi.


 

Mehr Licht

Wo viel Licht ist, ist auch viel Schatten.
Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera.
Johann Wolfgang von Goethe


Prima parte - Giugno 1899

Capitolo 1

“Una lunga serie di giornate pesanti”

 

Beta: Unbreakable Vow

 

Avrebbe potuto chiudere l’armadio con un colpo di bacchetta, ma non lo fece. I suoi occhi chiari e penetranti ricambiarono per l’ultima volta il suo sguardo, dal riflesso polveroso che lo specchio appeso all’interno dell’anta gli rimandava. Fu un’occhiata rapida, un breve lampo, l’ultima e definitiva comprensione che Albus Dumbledore avrebbe condiviso con la propria stessa immagine. Poi chiuse l’anta, e la sua figura riflessa si restrinse fino a scomparire nel buio di quell’interno vuoto. Accostato lo sportello, lo spinse leggermente per far scattare il meccanismo che lo teneva chiuso, facendo scorrere il palmo della mano su quella sottile fessura.

Si concesse ancora qualche istante, nel silenzio del dormitorio deserto, dritto come un fuso, per l’ultima volta. Tutti i suoi averi – abiti, cose di scuola, libri – erano adesso stipati con cura dentro il baule, che giaceva ai piedi del letto a baldacchino dalle cortine scarlatte.

Volse il capo: il sole si affacciava dalle finestre, generando sul pavimento un’eco mille volte ripetuta dei loro archi a sesto acuto. L’astro stava tramontando: i ricami di pietra delle finestre erano tinti degli avanzi brucianti dei suoi ultimi raggi. C’era quiete, sì, si respirava. Una quiete polverosa e triste come lo specchio in cui Albus si era osservato fino a neanche un minuto prima, adesso condannato a riflettere solo il fondo spoglio dell’armadio.

Udì uno scalpiccio risalire lungo la scala a chiocciola che portava al dormitorio, e non si stupì affatto nell’udire il respiro ansante e un poco ansioso di Elphias riecheggiare dall’altra parte della porta socchiusa.

“Albus,” lo sentì dire, premuroso. “A che punto sei con i bagagli? Stiamo scendendo tutti a cena.”

“Arrivo,” rispose. “Aspettami.”

Un secco ordine, venato di irritazione. Elphias Doge aveva bruscamente interrotto quel suo momento di contemplazione, con il suo tono concitato e impaziente. Albus si premurò di farlo attendere qualche istante più del necessario, prima di raggiungerlo sulla soglia.

Era più basso di lui di tutta la testa, Elphias, ed era un amico fedele. Spesso lo sorprendeva a fissarlo pieno di ammirazione, con i suoi occhi grandi e devoti, un poco sporgenti. Fiato-di-cane Doge, lo chiamavano. Albus sapeva di essere la prima delle sue preoccupazioni, ma anche l’unica persona per la quale non si sarebbe mai preoccupato davvero. Non solo sopportava Elphias di buon grado, a tratti gratificato dalle sue costanti attenzioni, ma ne apprezzava la compagnia. L’amico non era il primo ad ammirarlo, ma probabilmente sarebbe stato uno degli ultimi... Si trattava di un ritornello costante, che nelle ultime settimane il giovane Dumbledore si era ripetuto di continuo, figurandosi i commenti dei propri insegnanti.

Che peccato,” li udiva sentenziare tristemente nella propria testa. “Un giovane talmente dotato... un così grande talento. Sprecato a non far nulla in quel villaggio sperduto.”

Che peccato, Albus, che peccato.

“Hai, uhm,” Elphias si schiarì la voce, riportandolo nuovamente alla realtà. “Hai finito di fare i bagagli?”

Albus si sforzò di sorridere, e annuì. “Sì, certo. Devo solo chiedere al professor Hopkins di restituirmi le bozze del mio trattato di Aritmanzia Comparata,” sospirò. “Ma posso farlo domattina.”

L’altro deglutì visibilmente. “Bene,” fu il suo commento.

Dumbledore annuì ancora, distrattamente.

Nella Sala Comune di Gryffindor, i compagni di dormitorio erano in attesa del loro arrivo. Non appena Albus ebbe disceso con Elphias l’ultimo gradino della scala a chiocciola, gli si strinsero tutti intorno: chi chiedendo come stava, chi ripetendo per l’ennesima volta quanto fosse dispiaciuto per la disgrazia avvenuta da poche settimane, chi domandando un parere sulla risposta ad un test dei M.A.G.O.. C’era sempre qualcuno che aveva qualcosa da dire ad Albus Dumbledore. Al suo fianco, Elphias sorrideva amabilmente, poco considerato ma per nulla dispiaciuto per questo fatto. Doveva avervi fatto l’abitudine, probabilmente, dopo tutti quegli anni.

Albus rispose alle domande con gentilezza e cordialità, come aveva sempre fatto. Dopo che furono esauriti i convenevoli, il gruppo di Gryffindor del settimo anno scese in Sala Grande. Faceva uno strano effetto, considerò Albus, pensare che era l’ultima volta che seguivano quel percorso tutti assieme. Studiò per qualche istante i volti dei suoi compagni, presi a conversare di qualcosa che il giovane Dumbledore ascoltava solo a metà e che – comunque – non gli interessava granché. Li osservò uno per uno, con distaccata attenzione, chiedendosi cosa ne sarebbe stato di loro.

Cosa ne sarà di me?

Cosa avrebbe fatto della sua vita? Al momento, la sua unica impressione era che il futuro che lo aspettava fosse tremendamente simile a una prigione. Un giorno dopo l’altro, finché non fossero divenuti anni, chiuso in quella casa grande e cupa, prigioniera a propria volta di quel ristretto, bigotto villaggio. Un giorno dopo l’altro, finché non fossero divenuti anni, a prendersi cura di Ariana.

Per carità, amava sua sorella. La amava di un bene profondo e sincero, sentiva per lei un vago istinto di protezione e di certo avrebbe ucciso chiunque avrebbe mai potuto avere la malaugurata intenzione di farle del male. Ma era cresciuto pensando che il futuro gli riservasse ben altro che badare a una sorella mentecatta per il resto dei propri giorni – anche se si sentiva in colpa, terribilmente in colpa anche solo a pensare una cosa simile. Si trattava di un brutto tiro giocatogli dal destino, davvero uno scherzo di cattivo gusto.

Non gli sfuggivano le occhiate vagamente apprensive che i compagni di Casa gli lanciavano di tanto in tanto – sebbene sapesse che per loro si trattasse di una preoccupazione passeggera. Dopotutto, Albus Dumbledore aveva sempre la soluzione in tasca. Tuttavia, gli eventi delle ultime settimane si erano susseguiti molto in fretta, sfuggendo al suo controllo. E come poteva essere altrimenti?

La notizia della morte di Kendra era giunta improvvisa, neanche due settimane prima. Ad Albus pareva che qualcosa si fosse spezzato nel suo petto, qualcosa che difficilmente si sarebbe rimarginato. Aveva provato a parlarne con Aberforth, ma il fratello minore in tale occasione non si era dimostrato meno sfuggente del solito. Sembrava sempre arrabbiato, Aberforth, con lui in particolare... anche se Albus non aveva mai prestato particolare attenzione alle sue beghe di quindicenne.

Non appena i Gryffindor fecero il loro ingresso in Sala Grande, una figura massiccia tagliò loro la strada.

“Salve, Albus,” gli si rivolse con fare solenne. “Come stai?”

Si trattava di Horace Slughorn, un giovane Slytherin che aveva qualche anno meno di lui e con cui spesso Dumbledore si intratteneva per brevi conversazioni. Gli era simpatico, Horace, nonostante i suoi modi un poco pomposi e l’assoluta mancanza di pudore con la quale ricercava il favore degli insegnanti o di chiunque ricoprisse ruoli di potere. Probabilmente, nella sua mente Albus apparteneva a questa seconda categoria, giacché gli si rivolgeva con fare amichevole ma estremamente ossequioso. Nonostante ciò, il giovane Dumbledore riteneva che avesse una mente brillante, ed era una compagnia piacevole.

“Bene,” sorrise. “Al meglio.”

Slughorn era troppo sveglio per bersi quelle fandonie, tuttavia fece finta niente: non tanto per delicatezza, quanto piuttosto perché non gliene importava granché.

“Ottimo,” fu il suo commento. “Ottimo. Non scomparire, eh, mi raccomando! Dovrai raccontarmi per filo e per segno dei tuoi studi sul sangue di drago!”

“Naturalmente,” annuì Albus, facendogli eco. “Naturalmente.”

Dopo avergli stretto vigorosamente la mano – prestando bene attenzione che tutta la tavolata di Slytherin potesse avvedersene – Slughorn lo saluto allegramente per poi dirigersi al proprio posto, più che pronto a servirsi di almeno tre o quattro porzioni di maiale al salmì. O di arrosto in salsa di mele. O di qualunque altra prelibatezza gli elfi domestici di Hogwarts avessero preparato quella sera.

Come ogni giorno, diverse teste si volsero al passaggio di Dumbledore: chi avesse l’onore di conoscerlo di persona, si levava in piedi per rivolgergli un “Salve, Albus!” in tono orgogliosamente fremente.

Che pensino ciò che vogliono, finché possono. Finché ancora mi sentiranno nominare, o si ricorderanno di me.

Finalmente, riuscì a raggiungere il tavolo di Gryffindor e a lasciarsi cadere sulla panca. Il suo sguardo corse rapido lungo la serie di teste chine a mangiare, finché non incrociò lo sguardo di Aberforth. Quest’ultimo levò il mento in un cenno di saluto, lanciandogli una breve occhiata penetrante prima di riprendere a piluccare distrattamente dal proprio piatto.

Albus sospirò e distolse lo sguardo.

 

 

****

 

Era ormai un bel pezzo che Albus si rigirava fra le coltri, ma proprio non gli riusciva di dormire. Era sempre stato un problema quello del sonno, per lui: la sua mente lavorava alacremente e incessantemente, registrando e rielaborando informazioni senza tregua. Certe volte, da bambino, gli pareva di avere la testa talmente fitta di pensieri che temeva potesse da un momento all’altro scoppiare con un fragoroso botto. Erano come voci, milioni voci che si sovrapponevano l’una all’altra, idee su idee da analizzare e catalogare senza mai fermarsi: altrimenti, avrebbe rischiato di dimenticare un’idea geniale.

Ma anche un genio a volte ha bisogno di riposare, Albus in quel momento ne aveva più che mai: era stata una giornata pesante. Era stata una lunga serie di giornate pesanti.

Si rigirò per l’ennesima volta fra le coperte, sbuffò.

“Sei sveglio?” sussurrò improvvisamente la voce di Elphias, dal letto accanto al suo.

“Sì,” rispose lui semplicemente, fissando la tenda del letto a baldacchino stesa sopra la propria testa.

Udì un frusciare di lenzuola da qualche parte alla sua sinistra, seguito dal lieve tonfo di piedi nudi sul tappeto. Dopo pochi istanti, percepì il peso di un’altra persona incurvare leggermente il materasso.

Senza una parola, Elphias si allungò, poggiando la propria testa sul guanciale, proprio accanto a quella di Albus. A dividerli, meno di due pollici di cotone bianco e piume d’oca.

“Mi mancherai,” sussurrò Elphias. “Lo so che è da egoisti, dopo tutto quello che hai passato, ma mi mancherai.”

Ad Albus tornarono alla mente i baci goffi che negli ultimi due anni aveva scambiato con l’amico, e che negli ultimi tempi erano divenuti molto meno goffi e molto più conturbanti. In giro si diceva che Albus Dumbledore avesse troppo da fare per pensare alle ragazze. La verità era che sì che aveva da fare, ma anche che le ragazze non gli interessavano affatto, e per un motivo molto semplice: gli piacevano i ragazzi. Non solo loro, forse, ma certamente più delle fanciulle che lo guardavano ammiccanti e sbattevano le ciglia: quelle avevano solo il potere di metterlo in imbarazzo. Baciando Elphias, invece, non si era mai sentito a disagio. Un po’ in colpa, forse, poiché temeva che quello che lui considerava solo un grande, fedele amico – seppure non alla sua altezza – provasse invece qualcosa di più profondo nei suoi confronti.

Tuttavia, in quel momento Elphias era triste, e Albus si sentiva immensamente solo. Gli riuscì quasi di udire un commento sprezzante di Aberforth risuonare nella sua testa.

Il destino crudele delle menti geniali, eh Albus? La solitudine eterna, il pensare che mai ci sarà una persona al tuo livello...

Riusciva a dire delle cose molto cattive, Abe, e con molta facilità. Lui non era così, lui era diverso: voleva vivere in armonia, non voleva una preoccupazione al mondo se non l’ardente necessità di scoprire qualcosa di nuovo e interessante. Una costante sfida con se stesso a colpi di intelletto, in cui usciva sempre vincente: era così che aveva sempre immaginato la propria vita. Era questo il futuro cui avrebbe rinunciato.

Perché?

“E la cosa peggiore,” proseguì Elphias, “è che mi sento davvero una brutta persona. Perché non mi sento triste per te, ma per me, al pensiero che ti perderò¹!”

Senza dire una parola, lui sollevò una mano e la posò sull’avambraccio di Elphias. Lo udì sobbalzare appena, prima che gli si rannicchiasse contro come un bambino indifeso, incuneando la testa riccioluta nell’incavo fra il collo e la spalla di Albus. Quest’ultimo sperò che l’altro non piangesse.

“Io ci penso, Albus,” confessò il giovane Doge. “Penso a quando sarò in qualche luogo sp-sperduto, in Transilvania o in Siberia, e mi sentirò perso senza di te.”

“Elphias,” mentì Albus, “anche io mi sentirò perduto senza di te.”

L’altro cessò all’istante di tremare, per poi sporgersi verso di lui e premere un’ultima volta le labbra su quelle di Albus Dumbledore.

 

 

****

 

Godric’s Hollow accolse i fratelli Dumbledore in una giornata brumosa: ad Albus mai prima d’ora la cittadina era parsa così bigia e cupa. Gettò un’occhiata ad Aberforth. Il suo volto era come sempre teso e corrucciato, ma nei suoi occhi ardeva una fiamma vagamente gioiosa, e faticava visibilmente a star fermo.

È felice, realizzò Albus. Felice di rivedere Ariana.

In parte si sentì un poco in colpa, in parte lo invidiò. Una minuscola briciola di lui, invece, pensò che il fratello minore si mostrasse contento per fargli dispetto.

“Non è così,” mugugnò Aberforth.

Albus inarcò le sopracciglia sopra agli occhiali a mezzaluna, perplesso. “Come, scusa?” replicò educatamente.

Erano secoli che non sentiva la voce del fratello: sebbene gli fosse familiare quanto la propria, suonò un poco strana alle sue orecchie.

Aberforth levò gli occhi al cielo. “So cosa pensi,” disse. “Pensi che non dovrei essere felice, perché tu stai rinunciando al tuo grande futuro.”

“Abe, ti rendi conto di cosa stai dicendo?”

“Non devi starci tu per forza, con Ariana,” proseguì il minore. “Posso... posso pensarci io.”

Per un solo, singolo istante, Albus esitò. Si figurò come sarebbe potuta essere la sua vita se Kendra non fosse morta – se Ariana non l’avesse uccisa per errore, erano le parole che si sforzava di non pensare solo perché amava la sorella, e sapeva bene che lei si sarebbe strappata i capelli dalla disperazione, se fosse stata consapevole delle proprie azioni. Ad ogni modo... sarebbe stato occupato a fare di nuovo i bagagli, adesso, ma per partire con Elphias nell’avventura in giro per l’Europa che progettavano da anni. Avrebbero trascorso mesi e mesi vedendo il mondo, infine sarebbero tornati in Inghilterra e Albus avrebbe lavorato a qualche importante ricerca di Trasfigurazione Avanzata. Avrebbe scritto pagine e pagine di trattati. Avrebbe scoperto tanti nuovi usi del sangue di drago. Sarebbe stato il mago più brillante che...

Albus,” nella sua mente riecheggiò la voce di Kendra. “Ci penserai tu ad Ariana, quando io non ci sarò più. Vero?”

“Non se ne parla,” disse ad Aberforth, scuotendo la testa. “Devi finire la tua istruzione.”

“Ma –”

“Non dirò altro.”

Aberforth sbuffò e strascicò i piedi. “Non puoi -”

“Posso, Abe,” evitò di guardarlo in faccia. “Sei minorenne. Sotto la mia responsabilità. Non posso lasciare che tu rovini il tuo futuro solo perché ti preoccupi del mio.”

Con suo immenso stupore, il fratello ridacchiò. “È qui che sbagli, Albus. Io non lo faccio per te, capisci? Lo faccio per me.”

Avevano ormai raggiunto la via dove sorgeva la loro abitazione.

“Non sei al centro del mondo, Albus.”

Il giovane Dumbledore fece uno sforzo per ignorare queste ultime parole di Aberforth. “E comunque non lo fai,” si limitò a dirgli. “Lo farò io.”

Per tutta risposta, l’altro fece una smorfia: “Cambierai idea,” gli assicurò. “Cambierai idea.”

“Oh, no,” fece Albus. “Non cambierò idea, fidati.”

In qualche modo, quelle parole avevano il sapore di un giuramento.

Non si scambiarono altre parole, né lungo la strada né quando si arrestarono di fronte al cancello della loro abitazione. Albus sospirò profondamente, prima di tirare il chiavistello e aprire il cancelletto – che stridette rumorosamente nei suoi cardini. Percorsero in religioso silenzio il breve vialetto che conducevano alla porta d’ingresso. Dall’interno dell’abitazione, si udì un tonfo. Aberforth si agitò un poco.

“Starà sicuramente bene,” si ritrovò ad assicurargli il maggiore. “Bathilda Bagshot è una persona affidabile, e –”

“Lo so,” lo interruppe Abe. “Lo so.”

Il suo volto, tuttavia, rimase contratto. Albus conosceva la natura delle sue preoccupazioni: dubitava che Bathilda fosse in grado di occuparsi di Ariana a dovere – e probabilmente aveva anche ragione.

Quando entrarono in casa, il giovane Dumbledore sì stupì di quanto l’assenza di Kendra l’avesse travolto come una ventata gelida. Era una mancanza opprimente, che pareva impregnare le pareti e il soffitto.

Perché, madre? Perché?

Immediatamente, Aberforth mollò i propri bagagli a terra, scomparendo nei meandri della casa.

“Bathilda!” chiamò Albus. “Bathilda, siamo tornati!”

 

 

 


 

 

¹ Il discorso che fa Elphias sul sentirsi in colpa perché non soffre per Albus ma per se stesso, non è del tutto farina del mio sacco. Riprende infatti un passo del Fedone (dialogo di Platone che tratta della morte di Socrate, per chi non lo sapesse), nel quale Socrate ha appena bevuto la cicuta e tutti scoppiano in lacrime. E Fedone dice all’incirca così: “Io non piangevo per lui, ma per me, pensando a quale grande amico avrei perduto.”

 


Note dell’Autrice

Questo primo capitolo è decisamente corto, poiché doveva essere più che altro introduttivo e sono dell’idea che sia meglio non dilungarsi troppo con questo genere di capitolo. Diciamo che fino all’incontro fra Gellert e Albus difficilmente i capitoli saranno più lunghi di tanto... ma non ci vorrà molto, vi assicuro.

Passando all’argomento “capitoli in genere”, in questa long-fic saranno presenti i POV di entrambi i protagonisti, ma mai nello stesso capitolo. Il punto di vista di Gellert e quello di Albus saranno più o meno alternati.

Vi ringrazio per aver letto questo capitolo, e vi sarei ancor più grata se mi lasciaste un’opinione in proposito.

Per i lettori di Sulla tua pelle: ho iniziato a postare anche questa long, ma non per questo trascurerò l'altra! Posterò a settimane alterne Mehr Litch e Sulla tua pelle. Tuttavia, la prossima settimana posterò entrambe. Quindi... ci vediamo il prossimo martedì!

Daphne

   
 
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