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Autore: Mephistopheles    20/03/2012    0 recensioni
Lei era lì, nel suo appartamento. Bella, come sempre. E senza una spiegazione, apparentemente. La Squadra c'entrava qualcosa con tutto questo? Erano venuti a prenderla.
Seconda storia del ciclo Metropolys:
« Quello di Metropolys è un universo alternativo, a tratti simile al nostro, a tratti distopico, a tratti fantascientifico. Il colore della metropoli e della vita dei suoi abitanti è il grigio della noia, e i protagonisti delle storie (indipendenti tra loro a livello di trama) cercano ognuno una propria diversa tonalità, qualcosa che animi le loro esistenze e permetta loro di evadere dalla monotonia. Un quadro inquietante, dall'interpretazione oscura e mai univoca, si propone come disturbante rappresentazione di un mondo "underground" specchio della società contemporanea ».
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rosso sangue
II.



 

Ero lì, sul letto.
Il soffitto era dipinto di bianco, ma intorno agli spigoli riportava un motivo. Ghirigori neri, morbide pennellate, lasciate da lei. Volute scure come fuliggine. Partivano dai quattro angoli e si ramificavano, facendosi più sottili e articolate tendendo verso il centro. Come braccia e mani di bambini rachitici e deformi, con poche o troppe piccolissime dita. Non credo avesse veramente pensato ai bambini, lei. L'effetto era piuttosto intrigante lo stesso.
Respirai a pieni polmoni il suo profumo. Chissà se se l'era spruzzato addosso prima di compiere l'estremo gesto o se riuscivo a sentirlo perché aleggiava semplicemente nella stanza. Mi venne la tentazione di andarle ad odorare il collo, ma non mi mossi. Iniziai invece a tamburellare con le mani sulla trapunta. Tum, tap. Pat, pat.
Improvvisamente pensai che avrei dovuto fare qualcosa. Qualunque cosa. “Metabolizzare il lutto”, tanto per cominciare. Molte persone reagiscono in maniera immediata ed emotivamente esplicita a cose del genere. Pianti, grida. Io non ero evidentemente una di loro. Credo mi trovassi in una sorta di fase mentale intermedia, sospesa.
Il cervello isola in qualche modo la parte emotiva, impedendole di entrare in contatto con la coscienza. Qualcosa del genere; è un meccanismo di autodifesa. Qualsiasi cosa appare filtrata, lontana, aliena, surreale. Come se ogni percezione facesse parte della vita di qualcun altro, osservata da una certa distanza, qualcuno che magari non vorresti essere tu.
Pensai che prima o poi le due parti sarebbero venute a contatto, la bolla emotiva sarebbe esplosa e io sarei crollato. Ma forse no. In quel momento, in ogni caso, ero lucidissimo.
Registrai le nuove informazioni con una freddezza ultraterrena. Lei era morta. Era andata così. Forse doveva succedere.
Amen.
Mi chiesi se avrei reagito allo stesso modo alla mia, di morte. “Ehi, quello è un autotreno, quello che ti sta arrivando in faccia”. Ok, voglio dire, perché no.
Mi alzai e mi stiracchiai, bello lungo, braccia e schiena. Avevo veramente intenzione di andare a casa? Impegnare la mente in attività ordinarie, cercando di mantenere viva quella dimensione di parziale incoscienza: non suonava come un brutto programma. Del resto, non riuscivo a pensare a nient'altro che potesse avere altrettanto senso.
Posai lo sguardo sul suo viso per l'ultima volta. Cosa stava fissando lei, prima di chiudere gli occhi?
Beh, il suo stesso braccio, apparentemente. Il braccio che aveva disteso per il lungo, con la mano in fondo semiaperta. Con l'indice che sporgeva leggermente rispetto alle altre dita. Rabbrividii. Il profilo del suo volto tracciava una retta ideale che coincideva perfettamente con la direzione dell'arto, come a voler puntare qualcosa. L'indicazione era, in effetti, delle più banali ed esplicite. Mi riproverai di non essermene accorto prima. La ringraziai mentalmente: sapeva che non ero esattamente un tipo sveglio.
Improvvisamente avevo trovato qualcosa da fare.
La retta immaginaria terminava dritta sulla piccola cassettiera addossata alla parete, uno dei pochi mobili della stanza. Mi avvicinai e aprii tutti i cassetti. Chi cazzo se ne fregava delle impronte digitali.
Afferravo vestiti e altra robaccia con una naturalezza meccanica, lanciandola alle mie spalle. Raschiai con le dita il fondo del primo cassetto. Bianco, vuoto. Il secondo, il terzo. Niente. Non c'era niente.
Forse non importava davvero: era già stato abbastanza bello crederci, per un attimo. Ma credere a cosa? Che avesse lasciato un messaggio nascosto in uno dei cassetti? Piuttosto banale da parte sua. Forse c'era ancora una possibilità.
Mi piazzai a fianco della cassettiera e la spinsi con entrambe le braccia. Sorrisi nel vedere che c'avevo preso. Sulla parete, tracce di inchiostro nero riportavano, nella sua inconfondibile morbida grafia, una scritta. Tutta per me.

Stanno arrivando anche per te. Scusa. Ti amo”.


 

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