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Autore: AmeOokami    21/03/2012    2 recensioni
Storia partecipante al concorso "Profumo: Storia di un... originale!" "Mi pervade e annebbia i miei sensi, lo sento deciso farsi strada dentro di me, nel naso e tra i denti, come se fosse vento che sibila tra le foglie. Mi ricorda vagamente l’odore del sesso, benché esso sia più dolce. Chissà come, paradossalmente, una cosa che porta alla morte assomigli così tanto a quella che invece ha permesso la vita al mio piccolo."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando ero bambino, guardando il cielo pieno di nuvole, credevo che fossimo ricoperti da uno strato di batuffoli di cotone e che perciò chiunque viaggiasse in aereo saltellasse di qua e di là fino alla sua meta. Ed è un po' così che vedo la mia vita: bianca, senza una traccia d’inchiostro, non perché non ci abbia scritto nessuno, ma per il fatto che ho assorbito tutto come fa il cotone e poi, esposto al sole, mi sono asciugato. Il mio sole non ha smesso un attimo di riscaldarmi, di illuminare il mio cammino con i suoi iridescenti raggi. Mi accorgo solo ora che mi ha prosciugato e quanto avessi inizialmente bisogno di quel calore. Il manto di nuvole l'ho odiato fin dalla prima apparizione, quando il mio sole stava in un angolo, troppo timido e oppresso per farsi strada in mezzo a tutto quel bianco. 
Ricordo le folte chiome dei cedri, il frusciare melodioso delle foglie agli inizi di primavera e una timida e incerta camminata del piccolo bimbo che tenevo tra le mani. I suoi piedini talmente piccoli non facevano neanche rumore. La sua felicità si mostrava radiosa nel suo sorrisetto, con le labbra dolcemente dischiuse. Certe volte nel sonno ancora allungo le braccia, stringendo il vuoto, e mi sento spoglio come quegli alberi sono diventati al gelo d’inverno. 
Riaffiorano alla memoria piccoli particolari dei quali in quel momento non avevo neanche tenuto conto: un piccolo stormo d’uccelli che volava spaesato nel cielo, i raggi del sole in mezzo ai rami, in un forte chiaroscuro. Come in un quadro, un padre che tiene amorevolmente suo figlio in mezzo a un verde cangiante. 
Davide mi rivolgeva uno sguardo divertito ogni qualvolta mi vedesse sorpreso dal suo “papà” pronunciato poco prima. Mi è sempre stato detto che la mia capacità di meravigliarmi per ogni cosa, anche se insignificante, fosse simbolo di grande sensibilità. All’epoca ridevo, mentre adesso vorrei non riuscire a far caso a nulla. Una miopia dei ricordi sarebbe l’ideale. 
-Papà!- con la manina Davide mi mostrava l’altro lato della strada, dove altri due bimbi un po’ più grandi di lui, tenevano tra le dita una stecca di zucchero filato. Nell’aria, candido si librava quel dolce, giungendo leggero tra le narici e sulle labbra che già pregustavano il sapore di fragola. I suoi occhi, dalla forma un po’ a mandorla, mi scrutavano ancora e sapevo che Davide aveva una voglia spropositata di trovarsi davanti quella nuvola di zucchero, perciò gli presi ancora una volta la mano, stretta saldamente con la mia, e attraversai la strada sulle strisce. 

Sorridevo, ricordo solo questo di quegli ultimi istanti prima di vedere il buio. E’ stato come viaggiare. Ogni volta che ci si ritrova metaforicamente con la valigia in mano, non si sa ancora se si è pronti o meno ad affrontare quel passo, perciò ci si estrania da sé stessi, come se ci si guardasse da una diversa prospettiva. E io mi sentivo esattamente così. Il resto è nulla, non ho sentito neanche la mano del mio piccolo che si staccava dalla mia. L’oscurità mi ha accompagnato per vari mesi, allora sì che ho pregato di vedere di nuovo quelle nuvole. Ho lottato con tutto me stesso per uscire dalla cecità dei miei occhi. Ho lottato per risvegliarmi dal coma e ce l’ho fatta, ma contro il buio non ho potuto fare niente. Ho pensato di non potermi più meritare la vista di quel verde degli alberi, di quel bianco dello zucchero e di quegli occhietti grigi. Mi è stato detto, un tempo, che il maledetto semaforo fosse rosso e che lo scontro con la macchina fosse inevitabile, ma io ero troppo felice per accorgermene. I miei occhi erano troppo annebbiati dalla gioia di una giornata insieme a mio figlio. E adesso cosa mi resta? L’odio da parte di sua madre, gli sguardi ostili della gente che sento sulla mia pelle nonostante non li veda, le chiacchiere dei parenti, la solitudine. 

La mia vita è cambiata così in fretta da quel giorno, iniziato come il più bello e terminato come la più terribile delle disgrazie. La consapevolezza che sono solo, ma che nonostante tutto e tutta la gente, in mezzo al mondo ci sono anch’io. Che cosa posso fare perché mio figlio riesca a essere fiero di me? Non sento nulla che mi appartenga, non riesco a toccare le lenzuola senza sentirmi un lurido bastardo che ancora può dormire e risvegliarsi la mattina. Passare un altro giorno in attesa che la vita mi dia ciò che ha riservato per me. Ma voglio andar contro questa Fortuna. Mi alzo in piedi, barcollando, e sento in bocca un gusto amaro. Ho la nausea. 
Come ci si sente quando fai qualcosa di sbagliato? La mia coscienza non lo sa, perché anche se penso che tutto ciò che è successo sia colpa mia, non riesco a sentirmi sporco. Come posso fare questo a mio figlio? Un oltraggio simile per un’anima innocente come la sua. Voglio essere cattivo, voglio punire questa mia stupida coscienza. In questo istante miliardi di globuli rossi stanno attraversando il mio corpo. Chissà come reagiranno ad un po’ di acido.

Tasto con le mani per trovare la maniglia dello sportello sotto il lavandino e lentamente lo apro. 
Ma cosa sto facendo? Bambino mio, ho voglia di rivederti, di stringerti a me e cullarti fino a quando ti addormenti. 

Le mie mani trovano quella piccola tanica. La riconosco subito dall’odore acre. E’ strano come, dopo essere diventato cieco, il mio olfatto abbia subìto un così grande miglioramento. Sento un leggero tremolio alle mani, prendo un forte respiro e ancora aleggia tra le mie narici. La svito con decisione, dopo un piccolo momento di ansia e mi avvolge un forte tanfo, simile al cloro, quello usato in piscina. Mi pervade e annebbia i miei sensi, lo sento deciso farsi strada dentro di me, nel naso e tra i denti, come se fosse vento che sibila tra le foglie. Mi ricorda vagamente l’odore del sesso, benché esso sia più dolce. 
Chissà come, paradossalmente, una cosa che porta alla morte assomigli così tanto a quella che invece ha permesso la vita al mio piccolo. 
Si concentra ancora dentro di me, arriva al mio cervello e penso che se fossi in macchina adesso potrei sbandare. Sì, i miei sensi stanno andando in tilt. 

Riesco a tenere impresso nella memoria un altro istante: la prima volta che portai Davide al mare e immersi i suoi piedini nell’acqua salata. Il loro profumo allora, quando in seguito li asciugai, era delicato, ma allo stesso tempo pungente. Mi faceva paura. Sì, avevo il terrore di fargli male anche solo con una minuscola carezza, per quanto fosse piccolo e indifeso. E così adesso, ho paura. 
Ecco il vero odore di ciò che ho davanti, di qualcuno che si è appena pisciato sotto dalla paura e io penso che sia quello che mi merito. 

“Ci sono parole e se che hanno il potere di tormentarti per tutta la vita.” Questo è ciò che mi accompagna da un paio di anni, la mia consapevolezza di non essere più giusto e di non valere più un cazzo in questo mondo. E ancora mi comporto da vigliacco. Ho paura. Spero solo che l’Inferno non abbia più posto per me, ché ho voglia di te piccolo mio. Apri le tue piccole braccia, pronto ad accogliermi. 
Tutto gira, sotto i miei piedi la vita è presente, attraverso i miei occhi c’è stata una storia immensa e non importa quanto tempo ci abbia messo o quanto sia giusto farlo o meno, su questa terra ogni mia impronta ha simboleggiato la mia esistenza, ormai inutile. E’ arrivato il momento in cui il bisogno di ritrovare e riacquistare me stesso, mi fa muovere un altro passo. Un passo verso il posto che tutti noi chiamiamo casa. 


Bevo un sorso. Veloce scende giù il mio squisito veleno. Sono io la mia condanna. Davide, aspettami… 

  
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