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Autore: 365feelings    21/03/2012    4 recensioni
I segnali erano chiari e posati con cura sul suo comodino: libri sull’arte del teatro, opuscoli informativi, volumi di antiche tragedie tra cui spiccava la Medea di Euripide.
Mia madre temeva che si sarebbe persa. Ricordo che diceva che Marja non sarebbe sopravvissuta ai suoi personaggi. Scioccamente non le ho mai dato retta, anzi l’ho più volte incolpata di volerle tarpare le ali.
[Fanfiction seconda vincitrice del Collapsing Ninght II edizione, indetto dal « Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 »]
[Seconda classificata al contest Aboliamo gli Happy Endings di Wodka Eiffel]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Collapsing Night'
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Nickname sul forum: KumaCla
Nickname su Efp: KumaCla
Titolo della fanfiction: Voci
Titolo del contest: Collapsing Night seconda edizione
Pairing: Marja-Medea/Emilian-Giasone
Personaggi: Marja Zarkovskaja, Tereza, Emilian, Inga
Generi: Angst - Introspettivo - Malinconico
Warnings: Death fic
Credits:
con by Boundary

«Non desidero una vita felice che rechi dolore, né una prosperità che mi pugna l‘animo», «Ah, se la nave Argo non avesse mai attraversato veloce le cerulee Simplegadi verso la terra dei Colchi», «O veneranda Temi e Artemide signora, vedete le cose che soffro, dopo che con grandi giuramenti a me legai lo sposo esecrabile?», «Lui e la giovane sposa possa io un giorno vedere annientati insieme la casa, per le ingiustizie che essi per primi sostennero di farmi», «Per me è finita e, perduta ogni gioia di vivere, o amiche, desidero morire. Infatti colui che per me era tutto, il mio sposo - ben me ne rendo conto - è risultato il peggiore degli uomini», «Agli dei non capita tutti i giorni la fortuna di avere a disposizione un‘anima così forte per i loro sporchi piani» Medea, Euripide (traduzione di Ester Cerbo)

Note personali: il grande interrogativo senza risposta: chi è Medea? Credo che tutti abbiano una personale opinione a riguardo. Anche Marja aveva la sua. Poi però qualcosa è andato storto: la sua schizofrenia è peggiorata, da lieve disturbo si è trasformato in una vera e propria malattia che l’ha portata alla follia. Non sapeva più chi era - era Marja o era Medea? -, confondeva realtà e immaginazione. Per le informazioni riguardanti la schizofrenia mi sono rivolta a Wikipedia: i disturbi possono essere di vario tipo, Marja, in particolare, è stata affetta dalla allucinazioni visive e uditive, problemi legati all’ambito del linguaggio e del pensiero (accelerazione, rallentamento e deragliamento). Ho voluto “giocare” con gli obblighi: si chiedeva che il personaggio compiesse un omicidio o fosse vittima di uno scandalo. Ebbene, Marja ha ucciso ed è stata travolta dallo scandalo: laddove la realtà si confondeva con la sua personale visione del mondo, Marja è stata vittima e carnefice. Spero di non aver osato troppo. Sempre per quanto riguarda gli obblighi (spero di non averne tralasciato nessuno) ho fatto rientrare Marja nel movimento teatrale: mi rendo conto che è molto vago e che non si tratta di un movimento, ma lei è un’attrice e il suo unico credo è quello della recitazione. Al diavolo la brevitas, me la sono giocata tutta facendo di Tereza l’io narrante; in ogni caso sono dieci pagine giuste giuste. L’invettiva è rivolta contro Karina Malik-Pashaeva (tutt’oggi rettore del GITIS) e l’ho realizzata attingendo dalla tradizione greca (Erinni e Giustizia). Nella narrazione ho fatto riferimenti al mito di Medea, attenendomi principalmente alla versione tramandataci dalla tragedia di Euripide. Per chi non lo sapesse, Chirone è un centauro che ha educato numerosi eroi mitologici, tra cui lo stesso Giasone, ed è presente all’inizio del film di Pasolini. Polyushko Polye, invece, è un canto russo sull’armata rossa e ha un ritmo molto dolce e lento.
Dopo queste chilometriche note (a cui so se ne aggiungeranno altre al momento della pubblicazione) auguro buona lettura.

Fanfiction seconda vincitrice del
  Collapsing Night - II Edizione, indetto dal « Collection of starlight », said Mr Fanfiction Contest, « since 01.06.08 »
E seconda classificata parimerito al contest Aboliamo gli Happy Endings
 


 

 

VOCI

Nemmeno per un attimo l'attore si trasformi completamente nel suo personaggio. ‘Non rappresentava re Lear, era Lear’ sarebbe un giudizio disastroso.

Bertolt Brecht

 

 

Guardo la giornalista, una giovane donna dall’aria simpatica, cercare in una grande borsa di cuoio gli strumenti del suo lavoro. Poco dopo sul tavolo compaiono un block notes nuovo, una biro e un iPhone.
«Le dispiace se registro l‘intervista?» mi chiede indicando il telefono.
«No, faccia pure».
La osservo sfiorare con una mano il grande schermo dell’iPhone, mentre l’altra impugna la penna.
«È il suo primo libro?»
«Sì».
«Ha mai scritto prima?»
«Poesie, brevi racconti. Più che altro annotazioni. Dovrei ancora avere il quaderno su cui scrivevo. Uno Zibaldone sepolto da qualche parte».
«Cosa l‘ha portata a scrivere la biografia di Marja Zarkovskaja?»
«Ha presente quando sente di dover far qualcosa ma non sa esattamente cosa? Ecco, questo. Poi un mattino ho capito».
«E così ha scritto il suo primo libro. Mi racconti qualcosa di lei. Fino all‘altro giorno nessuno conosceva il suo nome, ora io la sto intervistando. Cos‘è cambiato?»
«Sostanzialmente nulla. Sono sempre io, solo un nome e un volto sulla terra. Non ho intenzione di farmi sentire ancora, non mi interessa la notorietà. Ho una famiglia e una vita mie: non voglio che nulla venga mutato, desidero che l‘equilibrio che ho realizzato perduri».
«Quindi non ha intenzione di scrivere altri libri».
«Esatto. Mi sono affacciata al mondo della scrittura solo per dare l‘ultimo saluto a Marja e per renderle giustizia. Lei non era la drogata che i giornalisti hanno dipinto».
«La giovane Zarkovskaja è una vittima di se stessa, hanno scritto i giornali. Se qualcuno l’avesse aiutata, forse, non sarebbe morta. Condivide?»
«Nessuno, nemmeno io che le sono stata accanto per così tanto tempo, ha mai compreso fino a che punto si fosse spinta Marja. Sospettavamo che ci fosse qualcosa, in lei. Ma non sapevamo cosa. Da piccola era un po‘ strana, ma ho sempre collegato questa sua stranezza all‘ambiente in cui è cresciuta. Ed eravamo tutti concordi nell’ ammettere che un po‘ di stranezza era il pegno da pagare per una personalità così magnetica. Io avevo solo sentito parlare di schizofrenia, non sapevo di cosa si trattasse e quali fossero i suoi sintomi. I sogni che mi raccontava, le storie, i nomi con cui mi chiamava: ho sempre pensato che Marja fosse dotata di un‘incredibile immaginazione, l‘ho sempre ritenuto un pregio. Nessuno ha mai saputo che cosa stesse accadendo dentro di lei, quale dramma si stesse consumando».
«Lei parla di personalità magnetica. Ma Marja era una ragazza taciturna. Come possono le due cose collegarsi?»
«A Marja non occorreva necessariamente esprimere i suoi pensieri a voce alta. Bastavano gli occhi. Ma le assicuro che, quando decideva di parlare, non c‘era persona che potesse resisterle. Stare con lei era pericoloso; dialogare con lei lo era ancora di più. Era come un bicchiere di vodka. Aveva lo stesso sapore e produceva lo stesso effetto». 

Capitolo 1 Ma la terra con cui hai diviso il freddo mai più potrai fare a meno di amarla - Majakovskj

Era nata il tre dicembre, in un angolo di Russia chiamato Tver‘, nel momento cui il pallido sole invernale tramontava sui ghiacci di una terra indurita dal freddo. Una luce malata sfocava l’orizzonte e proiettava lunghe ombre pallide sui muri, mentre le fiammelle opache dei lampioni si riflettevano sul placido scorrere del Volga e brillavano tenui. Il vento che soffiava dall’Asia si insinuava tra le chiome degli alberi e i pertugi delle case dopo aver grattato le cime degli Urali e strappato a quelle vette il gelo delle nevi perenni.
Era venuta al mondo con il grido prepotente di chi divora la vita, anche quella degli altri. Sua madre lo aveva capito nel momento esatto in cui le doglie le avevano spezzato il respiro.
Marja l’avevano chiamata, come la nonna che in un angolo della stanza aveva osservato con i suoi occhi vitrei la nascita della bambina. La schiena curva sotto il peso dell’età e la neve sui capelli, la vecchia Marja Avgustvna si era alzata e, con l’appoggio del nodoso bastone da passeggio di suo marito, aveva raggiunto la nipote e l’aveva fissata negli occhi, l’aveva scrutata in profondità, quasi vi stesse cercando un segno del suo destino, un presagio e poi aveva annuito, tornando a sedersi.
La nutrice, Inga, aveva pulito la bambina, l’aveva avvolta in una spessa coperta e se l’era portata via, stretta al petto, per lasciare alla famiglia il tempo e lo spazio per piangere la morte della madre.
«Non ti preoccupare, crescerai sana e bella, felice» le aveva detto sentendo il bisogno di rassicurarla, ma lei stava già dormendo. Sembrava una bambina tranquilla e forte. Di cristallo.

Dall' uno ai tre anni di vita, Marja aveva passato le sue giornate avvolta in una vecchia coperta di lana bianca, tra le calde braccia di Inga o sulle ginocchia della nonna. Da quelle comode e rassicuranti postazioni aveva osservato il mondo che la circondava con una vivida curiosità: era tutto così bello e interessante, ogni giorno era una scoperta. E Marja era famelica, di vita.
Inga diceva che mai si era vista una bambina così abile nel farsi amare. C’era qualcosa in lei che catturava, che stregava: non potevi far altro che amarla.
Erano gli occhi, sì, non c’era dubbio.
Marja era nata con due occhi di inverosimile bellezza: erano così limpidi e puri, enormi e innocenti. «Amami, il tuo destino è amarmi!» questo sembravano dire le sue iridi di vetro. 

Capitolo 2 Perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e obbiettività- Kristof

Il ritmo martellante del cuore che si contraeva e si distendeva era la musica su cui ogni giorno faceva correre le sue gambe.
Gli stivaletti neri percorrevano veloci il selciato del viale davanti casa sua, calpestavano l’erba dei prati, sfioravano il terreno.
«Marja, cosa fai tutto il giorno fuori?» le aveva chiesto un giorno Inga.
«Corro» aveva risposto con estrema semplicità, come se questo spiegasse tutto.
Marja correva.
Correre andava bene. Correre era tutto ciò che desiderava fare. Correre la liberava.
Perché quando correva la rapidità dei suoi movimenti erano tali che le sembrava che i piedi si staccassero da terra, sebbene ancora non riuscisse a volare. Quando correva era tutta concentrata sull’attimo presente, si aggrappava a un millesimale frammento di tempo scisso dal passato e dal futuro e così, sottratta dalla continuità del divenire, non aveva pensieri.
Che pensieri poteva mai avare una bambina di cinque anni? Nessuno l’ha mai compreso. Né Inga, che la osservava da lontano, fino a quando i suoi occhi non perdevano di vista la minuta figura di Marja che sfocava all‘orizzonte; né tanto meno io, che di quegli anni ho solo ricordi vaghi e nebulosi. Quel che era certo è che correva, ogni giorno, quanto più poteva, il vento tra i capelli. Allora, la concezione del mondo si riduceva alla essenziale ammissione dellesistenza del solo cielo ceruleo sopra la sua testa e del solo prato sotto i suoi piedi. Lei si trovava a metà, fuori dal tempo, né terrestre né volatile, semplicemente Marja.
Fu durante una delle sue corse che la vidi per la prima volta. Era l’estate del 1980 e un sole pallido accarezzava i profili di Tver’, colorando d’argento il Volga. Nei campi l’erba cresceva con estenuante lentezza, tingendosi di un tenue verde, mentre sugli alberi le foglie cercavano con avidità un sole che non poteva riscaldarle. È così l’estate qui in Russia, solo un’ombra di ciò che dovrebbe essere.
Lei scivolava leggera sul terreno, con il volto arrossato sporto verso l’alto e le spalle basse: sembrava stesse cercando di prendere il volo, ma per quanto si sforzasse i suoi piedi non si sollevavano mai. Più la guardavo, più il mio animo si colmava di una misteriosa e inspiegabile nostalgia: non riuscivo a staccare il mio sguardo da lei, graziosa bambina che si aggirava come un’anima errante. Volevo raggiungerla, sapere come si chiamasse e, quasi rispondendo al mio tacito desiderio, lei fermò improvvisamente e mi guardò. Cosa accadde di preciso non lo so. Avevo solo sei anni, la mia concezione di vita si limitava agli abbracci di mia madre e alle merende di mia zia, ai giochi in giardino con i miei cugini e alla messa di mia nonna. Non sapevo nulla di anime e affinità, di destini che si incrociano e di amicizie che durano una vita. Ma qualcosa successe: proprio nel momento in cui i suoi occhi mi trafissero seppi che non l’avrei mai più lasciata. Fu in quel momento che mi innamorai di lei. 

Inga mi disse che Marja quasi si addormentava, la sera, quando la famiglia si riuniva per la cena. Le gambe sotto il tavolo le tremavano per lo sforzo, ma non se ne rendeva conto e continuava e sedere composta, come le era stato insegnato: l’educazione prima di tutto. La stanchezza, unita al suo carattere taciturno, non la faceva parlare quasi mai, se non in risposta a qualche rara domanda. Ma di quesiti non v’erano quasi mai e si aspettava la cena in silenzio.
Marja aveva sei anni e qualcosa in lei, nei suoi lineamenti spigolosi sotto la pinguedine della giovane età, ricordava i tratti severi del padre seduto a capotavola. I due condividevano gli stessi capelli scuri e sottili, indomiti e in entrambi c’era una certa serietà, riflessa negli occhi, ma quelli, quelli li aveva ereditati dalla madre. Anche Natasha aveva avuto occhi chiari, di vetro, ereditati dalla sua genitrice. A sua volta la vecchia Marja Avgustvna li aveva presi da sua madre. E via così, sino a risalire al capostipite di quella vecchia e ricca famiglia.
Inga osservava in silenzio quella strana famiglia, unita da un filo sottile a cui non sapeva dar nome. Ogni sera prendeva posto a tavola consapevole che nessuno avrebbe parlato: anche quando ringraziavano la cuoca per il cibo, le parole sembravano perdersi nello spazio e morire prima ancora di essere udite. L’unico rumore che accompagnava la cena era il cozzare metallico delle posate sui piatti di ceramica. A volte Inga prendeva in considerazione l’idea di andarsene: quella casa era un mausoleo, soffocato dalla polvere e della tristezza. Poi però non lo faceva. In quel quadro familiare tanto bislacco quanto opprimente c’era qualcosa che ammaliava, una sorta di forza magnetica che la faceva restare a suo posto ad osservarli. Rimaneva per Marja: sentiva di doverle stare accanto e proteggerla come poteva. Quale fosse la minaccia, neanche lei lo sapeva. Ma la sentiva. Si annidava negli angoli bui, sotto i tavoli, negli armadi, nei quadri: era nella casa e nell’aria chiusa, di polvere, di tristezza e dolore che ivi si respirava. Restava per Marja, perché una bambina non avrebbe mai dovuto crescere in un luogo del genere.

 

Capitolo 3 Una passione sfrenata per l’arte è un cancro che divora ogni altra cosa - Baudelaire

La scuola pubblica era un edificio grigio e basso, un posto per nulla allegro che ogni giorno sembrava inghiottire centinaia di bambini per poi risputarli alle loro madri la sera, stanchi e masticati.
Ricordo che Marja aveva osservato a lungo l’edificio prima di entrarvi. Pareva incuriosita dalla quantità di suoi coetanei e infastidita dalla confusione che regnava nel giardino.
Dritta davanti all’ingresso dell’edificio, Marja, fissava con i suoi occhi grandi e vitrei le finestre piccole dai cornicioni bianchi, i mattoni grigi e il grande portone di legno. Che cosa le stesse passando per la mente, era un mistero. Ma conoscendola, sarebbe stata in grado di non pensare a niente, continuando ad avere l’aria di chi è immerso nelle più complicate elucubrazioni. Aveva solo sei anni, ma esercitava su chi la guardava il fascino di una persona matura.
Il suono acuto della campanella ebbe il potere di strapparla dal suo mondo e di catapultarla in quello di tutti: cos’era stato quel lampo che aveva attraversato lo sguardo? Più tardi - troppo tardi - avrei compreso che si trattava di paura. Paura di essere sommersa dall’orda strillante di bambini che spingevano per entrare, di essere travolta da quella marea di braccia e gambe, di scomparire.

 La rappresentazione teatrale di fine anno era un momento ricreativo: nessun bambino lo aveva mai preso sul serio. I copioni - brevi e semplici - giacevano abbandonati sulle sedie, mentre un coro di voci estasiate provava i travestimenti. Le maestre raccomandavano di studiare la propria parte, ma i loro giovani studenti erano troppo presi dalle perline e dai colori.
Marja, in un angolo della stanza, sedeva composta e leggeva in silenzio. C’erano delle parole che non comprendeva, altre che invece non riusciva a ricordare, ma era determinata. Aveva ricevuto il ruolo della protagonista, non poteva fare brutta figure davanti al pubblico: doveva imparare la sua parte e lo avrebbe fatto.
«Marja, non vieni a provare il costume?» aveva chiesto una maestra accarezzandole il capo. Lei aveva scosso la testa, tenendo gli occhi puntati sul foglio.
«Ti farebbe bene una pausa» aveva continuato l’insegnante «Puoi continuare dopo».
Ma Marja non aveva desistito ed era rimasta seduta, ci sarebbe stato tempo dopo per il vestito. La donna aveva sospirato, sconfitta, ed era tornata dagli altri alunni, di gran lunga meno problematici di quella bambina dagli occhi grandi.

 La sera della rappresentazione c’era un gran via vai dietro le quinte: un bambino piangeva perché aveva paura e non ricordava la sua parte, a un altro il vestito si era rotto. Le maestre correvano indaffarate, chiedendosi perché continuavano a proporre il teatro e promettendosi di dedicarsi esclusivamente all’insegnamento tradizionale l’anno successivo. Marja sedeva su uno sgabello e teneva tra le mani il foglio del copione ormai stropicciato. Era l’unica figura immobile e silenziosa; pareva calma, ma c’erano quei piedi che dondolavano, che tradivano un tumulto interiore.

 Andrey fu il primo a innamorarsi di lei: accadde alle medie, in quel periodo chiamato adolescenza. Un giorno si presentò in classe nostra, durante l’intervallo. Fuori faceva freddo, era inverno: dalle finestre vedevamo il cielo plumbeo e la neve che ricopriva il giardino. Lui era entrato nell’aula e si era piazzato davanti a Marja, che con molta calma sbocconcellava una pagnotta. Si era schiarito la voce e aveva pronunciato il suo nome, per attirare l’attenzione. Marja aveva alzato lo sguardo, quello sguardo di vetro, e l’aveva posto sulla figura longilinea di Andrey.
«Vuoi metterti con me?» le chiese.
Che insolente, avevo pensato, che modo brusco e per nulla raffinato. Marja non dirà mai di sì, anzi lo guarderà con i suoi occhi chiari che sanno anche essere tanto freddi e lui se ne andrà. Ma Marja disse di sì. L’avevo guardata sconvolta - tradita. Non mi aspettavo, nessuno dei presenti si aspettava, una simile risposta. Marja con un ragazzo! Un ragazzo che non aveva mai visto prima, con Andrey!
«Perché hai detto di sì?» le avevo chiesto quello stesso pomeriggio, mentre rincasavamo da scuola camminando lungo l’argine innevato. Eravamo due puntini scuri che si muovevano con estrema lentezza su un viale bianco, due macchioline che lasciavano una scia di orme piccole. Nonostante il freddo - l’aria gelida mi colpiva le guance come mille aghi - bruciavo dal desiderio di sapere perché: volevo capire.
«Mi andava».
«Non hai pensato che potesse essere uno scherzo? Ho sentito che a Emma, quella dell‘altra classe con le trecce rosse, un ragazzo ha fatto la stessa proposta, ma era solo una buffonata. Era stato sfidato dai suoi amici. Quando Emma è venuta a sapere della scommessa e che il ragazzo non voleva davvero stare con lei, si è messa a piangere. Gli insegnanti non riuscivano a calmarla e a tirarla fuori dal bagno dove si era nascosta».
«No».
Era lei che era troppo ingenua o io troppo prevenuta?

 La storia con Andrey durò abbastanza, alcuni mesi se non ricordo male. Il ragazzo l’aspettava prima e dopo del suono della campanella, andava a trovarla durante l’intervallo. Cosa facessero insieme non mi era dato saperlo. Da lontano vedevo che camminavano, avanti e indietro, senza fermarsi, piano. Non sapevano se si parlavano, Marja non era di molte parole. Stare con lei era come immergersi in un mare silenzioso, ma tra quei flutti si stava bene: il suo era un silenzio calmo, avvolgente, un silenzio denso di significati, che brillava di mille sfumature. A starle accanto avevo imparato a riconoscere i suoi silenzi, a distinguerli, a ricavare da essi le risposte che cercavo. Che ci fosse riuscito anche Andrey? Le volte in cui, però, Marja parlava, con quella sua voce di velluto, non potevi fare a meno che ascoltarla incantato. Era una sirena, Marja. Una sirena strana, che non amava cantare, ma che quando lo faceva, abbagliava. Forse con Andrey parlava più di quanto facesse con me. All’epoca mi si stringeva il cuore al solo pensiero. Non ero io il suo mondo e lei il mio?
 

Capitolo 4 Le ragazze piangono, le ragazze sono tristi oggi - Polyushko Polye

L’ultima volta che andai a casa di Marja avevo sedici anni, la prima sei. Non mi piaceva andare a trovarla, preferivo trascorrere i pomeriggi all’aria aperta, nei bar o a casa mia. Ma non da lei. La sua villa era grigia e cupa, assorbiva ogni rumore, annullava ogni cosa. Stare tra quelle mura era come aggirarsi in un limbo nebuloso e triste.
La nonna, un’anziana signora di cui non ho mai compreso i sentimenti, incuteva timore: era una donna esile e curva dai lunghi capelli bianchi. Appariva all’improvviso, negli angoli e dietro le porte, accompagnata dal bastone del defunto marito e pareva un monito. Raggrinzita, con la pelle chiara incartapecorita e il volto segnato dalle rughe, la vecchia donna ci guardava e il suo sguardo baluginava nella penombra. I suoi occhi, gli stessi di Marja, erano gli occhi di un’altra epoca: da lì, lei ci guardava e forse rimpiangeva la sua gioventù. Il padre, invece, non si mostrava mai e quando accadeva era sempre per sbaglio: non lavorava, non impiegava il suo tempo in nulla di produttivo. Credo fosse un falegname, ma questo molto tempo prima che sua moglie morisse, in un’altra vita, quando ancora si alzava regolarmente, si radeva, si lavava, non si addormentava tra la vodka e il fumo. La volta in cui, alle elementari, ci chiesero di scrivere un tema sui nostri genitori, Marja lasciò il foglio in bianco. L’insegnante, preoccupata, aveva convocato il signor Zarkovskaj, ma l’uomo non si presentò mai. Al suo posto andò Inga.
Un giorno la donna si presentò a scuola: aveva trovato la lettera nemmeno aperta sotto una tazza di caffè e si era allarmata. L’insegnante, che era una donna sensibile, rimase turbata dal racconto di Inga: la madre morta, il padre senza lavoro, la nonna arcigna, la casa come un mausoleo. Credo che agli occhi della maestra la piccola Marja assunse le delicate sfumature di un’eroina romantica. Ma Marja non è mai stata nulla di simile.

Inga se n’era tornata a casa tranquilla, a preparare il pranzo per una famiglia fantasma. Ho sempre guardato con simpatia e rispetto alla cara Inga: lei voleva sinceramente bene a Marja, desiderava il meglio per lei, come se fosse sua figlia. Ricordo la prima volta che la villa mi accolse: Marja era stata inghiottita da quelle mura grigie e fredde in uno scalpiccio di stivaletti che cozzavano contro il marmo dell’ingresso, io ero rimasta indietro, intimorita. Le stanze che si aprivano a me per quanto grandi potessero essere, mi sembravano soffocanti e la luce che filtrava dalle finestre era pallida e malata. Marja dal nulla era apparsa alle mie spalle, sbuffando lievemente e prendendomi per mano: il contatto fu lieve e freddo, ma quelle dita piccole e diafane mi condussero impazienti nel salotto dove Inga ci aspettava con un vassoio di pasticcini. Non appena vidi la stanza e la donna che attendeva con materna pazienza, compresi il perché di tanta fretta. Inga era tutto ciò che una madre avrebbe dovuto essere: dolce e premurosa, sempre attenta e sensibile, ma mai oppressiva e severa quanto bastava perché la disciplina fosse rispettata. Aveva quasi sempre le mani sporche, di terra o di polvere. Un giorno anche di farina. Quello stesso giorno mi resi conto che la famiglia Zarkovskaj aveva problemi economici: l’eredità della madre di Marja, Natasha, era ormai finita. Aiutai a coprire i grandi e pesanti mobili di mogano con dei lenzuoli e a chiudere le stanze: il nucleo vitale della villa si rimpiccioliva sempre di più e le sue pareti si svuotavano. Marja Avgustvna aveva iniziato a vendere i cimeli di famiglia: il pianoforte impolverato, i volumi rilegati in cuoio di suo marito, i vestiti di sua figlia. Io e Marja aprivamo bauli e compivamo meravigliosi viaggi nel tempo, passavamo i pomeriggi a scoprire segreti e ricordi, a frugare nella vita degli antenati della giovane padrona di casa. Un giorno trovammo anche l’albero genealogico: i nomi erano vergati con una calligrafia minuta e ricca di ghirigori su una pergamena ingiallita. L’arcigna nonna ce la strappò di mano, dopo averla artigliata con le sue dita nodose.
L’ultima volta che mi recai da Marja fu per aiutarla a prendere le sue cose - poche cose, in realtà, una valigia e due scatoloni di libri - e salutare Inga. Sarebbe venuta a stare da me; mia madre ne era entusiasta, aveva già preparato tutto, Marja non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla. Salutò la nonna e si chinò sulla guancia di suo padre per dargli il bacio dell’addio, mentre a Inga regalò un abbraccio, un «Grazie» e un sorriso. 

Capitolo 5

Che il teatro fosse la sua strada, lo avevo compreso subito, sin da quella rappresentazione alle elementari. Io l’avevo guardata dal pubblico, seduta tra mia madre e Inga: l’avevo guardata con venerazione.
«Tereza» mi disse un giorno «senti questa citazione. È di Ol'ga Leonardovna Knipper, una donna fantastica. Ha recitato al fianco di grandi autori e ha impersonato personaggi di Čechov di cui è stata moglie. Esordivo sulla scena con la ferma convinzione che niente, mai, me ne avrebbe allontanato. Il teatro, così mi pareva, avrebbe dovuto da solo riempire tutta la mia vita».
Quindi mi preparai a sentirmi dire qualcosa come «Me ne vado a studiare recitazione» e il momento non tardò ad arrivare. I segnali erano chiari e posati con cura sul suo comodino: libri sull’arte del teatro, opuscoli informativi, volumi di antiche tragedie tra cui spiccava la Medea di Euripide.
Mia madre temeva che si sarebbe persa. Ricordo che diceva che Marja non sarebbe sopravvissuta ai suoi personaggi. Scioccamente non le ho mai dato retta, anzi l’ho più volte incolpata di volerle tarpare le ali.
Per il suo diciottesimo compleanno andammo a Mosca, fu una gita di un giorno, finanziata dai nostri risparmi - nel frattempo avevamo iniziato a lavorare in un bar - , ma ci divertimmo molto. Per l’occasione acquistammo anche una macchina fotografica usa e getta: l’idea fu sua. Era da molto che non la vedevo così entusiasta, si occupò anche del programma. La sera, prima di riprendere il treno, mi fece fare una corsa tra le vie della città e quando si fermò era sorridente.
«Che te ne pare?» mi chiese, indicando la grande struttura bianca e gialla davanti a noi «È qui che voglio studiare».
All’Accademia Russa d’Arte Drammatica, al GITIS di Mosca.
Sorrisi anch’io. Avrei dovuto aspettarmelo. Marja pretendeva il massimo da ogni cosa, da ogni persona, da se stessa più da chiunque altro. Quindi avrei dovuto aspettarmi una scelta non minore di quella che fece.
«Quando sarai un‘attrice famosa, ricordati di me. Sarò quella in prima fila, che non manca mai un tuo spettacolo».
Ciò che accadde dopo, e che si può ben immaginare, fu che le nostre strade si divisero. Nei primi tempi riuscivamo ancora a vederci, poi le nostre attività iniziarono a rubarci sempre più tempo e le distanze non aiutavano. Lei aveva i corsi teatrali, io la tesi di laurea da realizzare. Ogni tanto arrivava qualche sua lettera e io ed
Inga sedavamo su una panchina lungo il Volga, emozionate come due scolarette, mentre le macchine, che sempre più spesso trafficavano l’argine, scoppiettavano alle nostre spalle.

«Leggi tu per me, che i miei occhi non sono più quelli di una volta» mi diceva Inga e io leggevo ad alta voce le righe ordinate e la calligrafia piccola a nera.
Seguivamo, così, da lontano, le sue avventure nel mondo della recitazione e sopperivamo la nostra assenza con l’immaginazione: la dipingevamo bella e ieratica nei panni di qualche personaggio esotico, dolce e premurosa nelle vesti di qualche principessa, affranta e terribile nei panni di un’amante tradita.

Inga spediva a Mosca ceste di cibo a cui io allegavo le mie lettere, nelle quali mi congratulavo per i suoi successi e le raccontavo il placido e monotono scorrere della vita a Tver’.
Mi mancava la sua presenza, sentivo la sua assenza come un vuoto lacerante: il silenzio senza Marja era così fastidioso. Avrei tanto voluto sentire ancora la sua voce; all’epoca ricordavo con struggente malinconia le nostre corse per i campi e i canti intonati mentre intrecciavamo steli d’erba: le note di Polyushko Polye risuonavano lente nella mia mente e si dissolvevano nella polvere della memoria.
Non appena ebbe i soldi per comprarsi un telefono, mi chiamò.
 

Capitolo 6 Ogni dramma inventato riflette un dramma che non s'inventa - François Mauriac

Appena puoi, vieni. Questo recava scritto il biglietto recapitatomi dentro una busta gialla e vecchia, probabilmente già usata in passato. Era l’autunno del 2000 e a Tver’ la vita scorreva tranquilla, placida come il Volga nel suo letto. Mi allarmai subito. Perché non aveva telefonato? Ma, soprattutto, perché l’impellente e improvviso bisogno della mia presenza?
A Mosca le strade erano impraticabili,tanta la gente che vi si riversava e un improvviso senso di smarrimento mi prese: non sapevo neppure dove avrei potuto trovarla. Avvolta nel mio giubbotto e con il cappello ben calato in testa, cercai il GITIS, appellandomi dapprima alla mia memoria e poi servendomi dell’aiuto dei negozianti. Fuori dalla scuola, appoggiati ai muri esterni o in piedi sotto gli alberi, gruppi di ragazzi parlavano tra di loro e fumavano, alternando una parola a una boccata di nicotina. Nessuno di loro era Marja, ma certamente avrebbero saputo indicarmi dove trovarla. Seguii le indicazioni di un ragazzo e mi ritrovai sul pianerottolo di una vecchia palazzina. La porta era socchiusa e io, dopo aver esitato per qualche istante, mi feci avanti chiedendo permesso. Un corridoio stretto e soffocato da alcune cianfrusaglie dava su una stanza quadrata, non troppo grande, riempita anche questa fino l’inverosimile. Marja era seduta su una vecchia poltrona e teneva tra le mani un libro. La luce che filtrava dalla finestra sporca era pallida e accarezzava la sua figura con dolcezza, giocando delicatamente con le ombre e il pulviscolo che aleggiava nell’aria.
«Tereza, ti va di rivedere con me la Medea di Pasolini?»
Sospirai. Stava bene.
«Ma c‘è una televisione qui?»
«No, dobbiamo andare nell‘altro appartamento, seguimi e lascia pure qui la tua valigia».
Non ci si può abituare a una persona come Marja, non la si può prevedere, non si possono ridurre le sue azioni a un’etichetta. Si può solamente restare ammaliati, subire il suo fascino e seguirla stupiti. Questo è quello che feci. La seguii sul pianerottolo, dove si chinò per cercare sotto lo zerbino un paio di chiavi che usò per aprire la serratura ed entrare. La seguii nell’appartamento, dove la luce filtrava lattiginosa e illuminava l’interno giocando con la polvere. La seguii sul divano, dove si sedette dopo aver messo nel registratore la cassetta.
«Ma chi abita qui?»
«Una vecchia signora».
«Ma è d‘accordo che noi usiamo così la tua televisione?»
«Non ti preoccupare Tereza, siamo insieme e va tutto bene. Ecco, Chirone ha iniziato a parlare».
E va tutto bene. Mi rilassai al suo fianco: sì, andava tutto bene. Mi fidavo. Come potevo sapere che dentro Marja si stava consumando la più triste storia che avrei mai potuto sentire? Era così tranquilla, così misurata: guardava con attenzione quel film che già più volte in passato avevamo visto, non c’era nessun segno. Un’esplosione si nota quando avviene. È rumorosa. Non è bianca, non ha il colore del vetro, non è contenuta. Ma Marja stava esplodendo e lo stava facendo in silenzio. Solo che io non l’ho sentita, ero sorda. 

«Come procedono gli studi?»
«Bene, tra un mese avrò un altro esame. Inga ti saluta».
«Lei come sta?»
«Se la cava. È una donna forte».
«La villa?»
«Venduta. Tuo padre e tua nonna si sono spostati in un appartamento. Neanche dieci minuti e sono in centro. Inga ogni tanto va a trovarli».
«Se faccio buona impressione ai critici, ho la possibilità di essere scritturata per una rappresentazione e ricevere una paga. Ho intenzione di inviare qualcosa ad Inga, non credo sia mai stata pagata come avrebbe dovuto per il lavoro che ha fatto».
«Sono certa che i critici saranno tutti ai tuoi piedi. Avranno occhi solo per te».
«Non mi preoccupano tanto loro. È Karina Malik-Pashaeva che mi dà da pensare».
«Chi è?»
«Il rettore».
«E perché mai? È così terribile?»
«È una donna senza scrupoli. La folgore celeste trapassi il suo capo! Possano distruggerla le Erinni dal fosco chitone e la Giustizia che uccide! Verrà da te. Parlerà, userà la sua lingua biforcuta, ma tu non lasciarti ingannare. Respingi il traditore, respingilo, non accettare il dono malefico dei greci, non accettarlo. Nel suo ventre c‘è un mostro. Lei è in combutta con Giasone. Maledetto, sciagurato Giasone!»
Giasone era Emilian. Un giovane di bell’aspetto, affabile e intrigante. Lo incontrai poco dopo, in un locale, quando Marja mi portò a fare un giro e trovò per caso alcuni suoi compagni di corso che ci invitarono a seguirli. Emilian era visibilmente attratto da lei: il modo di parlare, gli sguardi, il leggero rossore sulle gote candide, l’entusiasmo e il tentativo di averla vicino. Marja, in sua presenza, era strana, si contraddiceva, esitava, cambiava idea: non era lei. Prima ricambiava i suoi sorrisi, poi non lo guardava; prima cercava un contatto, poi lo negava; prima desiderava parlare con lui, poi lo evitava.
Supposi ci fosse una storia tra i due e una certa Anya mi confermò che sì, i due si erano frequentati e che ancora, ogni tanto, si vedevano fuori dal GITIS.
«Poi sai, sono attori, fingono. Non sai mai a cosa stanno pensando. Una relazione tra due attori è difficile, impossibile. E loro sono molto bravi. Le storie tra attori sono sempre tormentate, sono artisti, cosa vuoi aspettarti, che sminuiscano il significato dell‘Amore, che lo riducano a un Ti Amo? No, loro vivono l‘Amore, lo interpretano e a metà si perdono» mi aveva detto questa Anya porgendomi un bicchiere e presentandomi suo fratello.

 
«È lei Tereza ?»
«Sì, con chi parlo?»
«Karina Malik-Pashaeva, direttrice del GITIS. Vorrei parlarle della sua amica, Marja Zarkovskaja».
«È successo qualcosa? Ha problemi con la retta?»
«No, nulla di ciò. Come lei sa Marja è molto brava, ha talento».
«Ma? Venga al dunque».
«Sospettiamo faccia ricorso a qualche tipo di droga».
«Droga? Non credo di comprendere. Perché sospettate di lei?»
«So che può sembrare una follia, ma nel nostro campo capita, a volte, che qualcuno si lasci un po’ andare e confonda la realtà con l’immaginazione. È uno stereotipo quello dell’artista dannato, che fa ricorso ad alcol e a stupefacenti. In realtà, per creare, si ha bisogno della piena padronanza dell’intelletto e del corpo: le droghe danno solo un’illusione, non c’è niente di reale».
«Perché proprio Marja? Non ha detto che ha talento? Che le servirebbe ricorrere a questi sotterfugi?»
«La sua amica è una persona eccezionale, ma non è normale. Non fraintenda la prego. Non c’è niente che non vada in lei, ma a volte non si comporta in modo consono all’ambiente, a volte sembra non aver consapevolezza del luogo in cui si trova».
«E voi sospettate che si droghi».
«Se non peggio. Senta, le lascio il tempo di riflettere. Questo è il mio biglietto da visita. Ci tengo ai miei studenti e non vorrei che possa accadere qualcosa di brutto a uno di loro. Sono a conoscenza della travagliata situazione familiare di Marja, per questo mi rivolgo a lei. Il suo nome è segnato come contatto di emergenza. Quindi ci rifletta».
Ci rifletta. Un avvertimento. Un segnale. Ci rifletta. Non l’ho fatto.

 
«Tereza, vieni alle prove?»
«Non sarei di troppo?»
«No, anzi. Agli altri farà bene avere un pubblico».
«Cosa reciterete?»
«Medea».
Medea. Era anche questo un segnale, da lungo tempo manifesto: era già sul suo comodino a Tver’, era già nella sua mente, dentro di lei, come un tarlo che la divorava da dentro, invisibile, silenzioso, spietato.
L’odore del legno e della polvere si mescolavano in un indissolubile abbraccio che permeava l’intero teatro, maestosa struttura lavorata dalle sapienti mani di vecchi artigiani. Le assi del palco erano lucide e levigate, consumate. Pure io, che ero una profana, mi rendevo conto dell’intensità del luogo. Pareva ci fosse un velo di sacralità appesantito dal trascorrere del tempo. Qui si consumavano vicende amorose, qui si odiava e si faceva la guerra, qui si rideva e si piangeva, qui si metteva in scena la vita in tutta la sua complessità, in tutta la sua follia e meravigliosa bellezza.
Mi rendeva orgogliosa sapere Marja attrice in questo teatro: il petto mi si gonfiava di soddisfazione mentre prendevo posto su un sedile. Gli attori, vestiti con abiti informali, si fecero presto vedere, scivolando lenti sul palcoscenico. Il teatro sembrò pulsare, come un organo vivo, quando Marja parlò. Era lei, era Medea: impetuosa e passionale, vittima e carnefice. Medea l’infelice, la disonorata, la straniera e la madre: la donna che a gran voce richiama i giuramenti, invoca i patti, chiama gli dei a testimoni.
Era solo una prova, ma nella sua figura e nelle sue parole vedevo il fuoco sacro che ardeva, mi sembrava di poterlo sentire sulla pelle quando il velluto della sua voce si elevava nei toni acuti della cieca rabbia e precipitava nello strazio dell’abbandono.
«Non desidero una vita felice che rechi dolore, né una prosperità che mi pugna l‘animo». 

Era bella Marja, con quei lunghi capelli neri, con quegli occhi incantevoli e le labbra volitive. Era bella e lo sapeva. Gli zigomi alti, le guance scavate, la fronte alta: dettagli che singolarmente erano spiacevoli, ma che in lei si fondevano per creare la perfezione spigolosa del suo volto bianco, di marmo: duro e terribile, spaventoso, meraviglioso.
Chi altro avrebbe potuto meglio rappresentare Medea? Nessuno. Perché era lei. In quei lineamenti candidi c’era la morbidezza di una donna innamorata, c’era l’adamantina determinazione di una donna indomita, c’era la durezza di una donna oltraggiata e c’era la follia di una donna umiliata.
Nei suoi occhi potevi vedere i ghiacci e le nevi dai riverberi azzurrini della sua terra: lì, nelle sue iridi chiare, di vetro, potevi vedere la Russia e sentire il freddo dei suoi inverni sulla tua pelle. Nei suoi occhi potevi immergerti nelle acqua cristalline del Mediterraneo e toccare i lidi inesplorati, approdare da Circe e infine giungere in Grecia. Lì, nelle pozze limpide dei suoi occhi potevi affogare.
«Tereza, mi reggi lo specchio?»
La matita scorreva sulla pelle e anneriva la palpebra; la mano che la guidava era una mano sicura, dalla presa salda, che non passava due volte sullo stesso punto, che non tornava indietro, che non sbavava, che realizzava un’opera perfetta senza alcun ripensamento.
Fino all’ultimo, la presa sulla matita rimase salda.

 Le luci si spensero nella sala, mentre un riflettore seguiva l’entrata in scena della nutrice.
«Ah, se la nave Argo non avesse mai attraversato veloce le cerulee Simplegadi verso la terra dei Colchi».
La rappresentazione era iniziata e con ansia attendevo i lamenti e le invocazioni di morte di Marja.
«O veneranda Temi e Artemide signora, vedete le cose che soffro, dopo che con grandi giuramenti a me legai lo sposo esecrabile?»
Una pausa, per prendere il respiro, per affrontare il dolore.
«Lui e la giovane sposa possa io un giorno vedere annientati insieme la casa, per le ingiustizie che essi per primi sostennero di farmi».
Mozzava il respiro la sua recitazione, ti entrava nella pelle, ti commuoveva.
«Per me è finita e, perduta ogni gioia di vivere, o amiche, desidero morire. Infatti colui che per me era tutto, il mio sposo - ben me ne rendo conto - è risultato il peggiore degli uomini».
Chi è Medea? Una donna gelosa, una folle, un’assassina e un’infanticida, una vittima di se stessa?
«Agli dei non capita tutti i giorni la fortuna di avere a disposizione un‘anima così forte per i loro sporchi piani».

 
Gli applausi scrosciavano incessanti e i flash delle macchine fotografiche illuminavano il teatro: era stato un successo. I giornali avrebbero pubblicato recensioni positive, i critici avrebbero descritto con entusiasmo la rappresentazione, Marja avrebbe avuto il mondo dello spettacolo ai suoi piedi.
Quasi mi dolevano le mani dallo slancio con cui avevo applaudito, quando mi recai nei camerini alla ricerca della mia amica: volevo congratularmi di persona. Ce l’aveva fatta, li aveva incantati tutti come aveva fatto con me. Ma non mi riuscì di trovare i suoi occhi tra il tumulto degli attori e degli scenografi che avevano lavorato con successo. Al suo posto, nell’angolo che le era stato riservato per il trucco, c’erano solo un tripudio di fiori. Mentre mi guardavo intorno, confusa dal vorticare delle luci, mi sentii sola, abbandonata, tradita. Non mi avrebbe mai lasciata lì da sola, eppure Marja non c’era. Ed era il vuoto a parlare al suo posto.

 
Per alcuni giorni fu l’argomento più discusso: il suo nome passava di bocca in bocca, si sentiva ai telegiornali, lo si leggeva sui quotidiani. Mosca era in subbuglio.
«Marja Zarkovskaja» recitava un articolo «è una vittima di se stessa. Lasciata da sola, a combattere contro un male a cui non siamo preparati, non è riuscita a vincere. Questa giovane e promettente attrice formatasi presso il GITIS aveva appena calcato le scene teatrali con la prima della famosa opera drammatica Medea ricoprendo il ruolo di protagonista e riscuotendo un grande successo. Avrebbe dovuto essere felice: così giovane e così apprezzata dalla critica. Eppure così non è andata. Forse una delusione professionale tenuta nascosta, forse una storia finita male. Quali che siano stati i problemi, Marja Zarkovskaja da tempo ormai faceva uso di farmaci antidepressivi - sono stati trovati numerosi flaconi vuoti nella sua stanza - e di LSD. Probabilmente non riusciva più a continuare a vivere, la droga le aveva ormai precluso la normalità: è questo il motivo più accreditato che l’ha portata al suicidio. Il corpo, infatti, ritrovato nel Volga non mostrava segni di violenze. Com’è possibile che il disagio della ragazza non sia mai stato notato e che nessuno abbia operato per aiutarla? Cosa ha portato Marja a ricorrere alla droga? E soprattutto, chi gliel’ha fornita? La notizia della morte di questa giovane sconvolge la Russia. Ma non possiamo piangere la sua scomparsa perché un’altra notizia giunge a sconvolgerci: il suo spacciatore altro non era che un suo compagno di corso, anche lui attore, anche lui studente al GITIS. Com’è potuto accadere? Karina Malik-Pashaeva si trova ora a dover affrontare un’inchiesta che deciderà le sorti dell’Accademia Russia d’Arte Drammatica. Mentre lo scandalo travolge il mondo delle arti riflettiamo. La droga è un problema reale, bisogna trovare un modo per combatterla. Che la tragica vicenda di Marja Zarkovskaja serva da monito, affinché non si ripresenti una simile situazione».
Leggevo quegli articoli di cronaca nera con insofferenza.
«Non si è uccisa! Lei era una persona felice, le volevano tutti bene. Marja non si sarebbe mai uccisa!» volevo gridare, ma alla fine tacevo. In cuor mio sapevo che era una bugia, soltanto una bugia egoista, perché non potevo accettare che Marja non ci fosse più.

 Prima di tornare a Tver’, nel tentativo di continuare a vivere - ma come si fa a farlo quando parte di te è morta? - , la polizia mi consegnò una lettera a mio nome. La scrittura era quella di Marja. Accettai la busta e me ne andai. Tornai a casa, abbracciai mia madre, seppellii la lettera nel cimitero della memoria. Non volevo leggere le sue righe, non me la sentivo. Non avrei retto allo scontro con la realtà - quella in cui Marja era una drogata che si suicidava una notte senza dire nulla, quella in cui io ero l’amica di una drogata che non le aveva mai davvero parlato, quella in cui il muro tra me e Marja non era mai stato così alto e impenetrabile.
Poi tre mesi fa ho trovato la lettera sul mio letto e ho capito che dovevo leggere. Sono passati due anni dalla scomparsa di Marja, ma il suo ricordo è vivo e doloroso come non mai.

Epilogo And the Sex and the drugs and the complications - Placebo

Cara Tereza. Sono malata. Non l’ho mai detto a nessuno, ma ho un demone dentro di me, sono malata. Ho cercato in biblioteca, un giorno. Credo si chiami Schizofrenia. È un demone greco, che non mi lascia scampo: ha sottratto tutta la mia energia positiva e l’ha sostituita con la follia. È la potenza nefasta di una macchia nata da antiche colpe, trasmessasi di generazione in generazione.
Sono malata, mia cara Tereza, e non ci sono cure. Non ci sono cure. Ho cercato di purificarmi, ma il miasma non se ne va, resta. È una macchia nera su un muro bianco, è una macchia nera che si allarga, cresce e divora il bianco, è un muro nero. Non posso fare niente, capisci Tereza? Sono un muro nero. E tu sei un muro bianco.
Emilian ha cercato di aiutarmi. Ma mi ha tradita. Mi ha sempre mentito in realtà. Diceva di avere quello che mi serviva, me l’ha dato, ma non ha fatto effetto. Non era quello di cui avevo bisogno. Le allucinazioni sono aumentate. Stavo bene. Stavo male. Non era quello di cui avevo bisogno.
E ora? Ora cosa posso fare? Ci sono giorni in cui non so quello che faccio. Accelero, rallento, deraglio. Non riesco più a recitare. Mi sfuggono le parole, perdo il filo, non cosa sto dicendo. E le voci, le voci aumentano. Parlano sopra di me. Dico loro di stare zitte, ma non mi ascoltano. Parlano parlano parlano. Gridano. Ci sono giorni in cui non vado nemmeno all’Accademia, nemmeno mi alzo. Ho paura. Temo che loro siano dietro la porta, con le lance, con i pugnali e le spade: Absirto infante a pezzi lacerato, Eete furioso la bocca schiumosa, Idia in lutto madre disperata, Pelia a pezzi bollito le figlie assassine, Creote bestiale uomo infelice, Glauce sposa bruciata insanguinata, Mermo e poi Fere vittime innocenti innocenti! pure. Tutti, tutti per me. Medea Marja. Addio.
 

La penna cade dalla mano bianca sul foglio stropicciato e ricoperto da una calligrafia piccola, fitta e scura. Le dita si aggrappano a un flacone. Hanno il colore di quando il sangue non scorre più, tuttavia sotto quello strato di cellule e nervi, il sangue c’è. È lì dentro. Deve esserci. Le labbra si aprono, la bocca ingoia, il
demone bussa alla porta.

«Emilian, sei tu?»
I battiti del cuore aumentano: è paura?
«Giasone?»
La voce è un ruggito.
«Giasone, sei tu? Dove sei? Vieni fuori!»
La stanza inizia a girare, il corpo è ingombrante, rompe qualcosa, si fa male, le viene da vomitare. C’è sangue sulle sue mani, ai suoi piedi, ovunque.
«Giasone, cosa ho fatto?»
La voce è incrinata, dal pianto, dalla consapevolezza.
Ma i muri sono tutti neri ed è suo l’eco che si perde all’infinito. Grida Marja. Grida Medea.
Lo ha fatto. Ha ucciso. Li ha uccisi tutti. Si è compromessa. Non ha più scampo ormai: arriveranno e la prenderanno, la lapideranno.
Dov’è il carro del Sole?
Grida aiuto con le poche forze che le rimangono.
Alla fine solo passi giù per le scale, poi la morsa gelida dell’acqua. 

«Sai Tereza, anche a Mosca c‘è il Volga. Scorre lento dentro un bel canale, come a Tver‘. Se lo guardi sembra di essere a casa».





Note finali, dove l'autrice ringrazia...
Voi  lettori che siete arrivati fino a qui: se ce l'avete fatta, complimenti e grazie di cuore.
La meravigliosa Alex Luna che realizza giudizi bellissimi: ti si perdona tutto quando si leggono certe cose <3
E ancora Alex per aver indetto la seconda edizione (con la speranza che ne segua almeno una terza - ma non si disdegna neanche una quarta e una quinta XD): con i tuoi contest mi dai la possibilità di mettermi alla prova e di creare personaggi di cui inevitabilmente mi innamoro. 
...e fa i complimenti

Alle altre partecipanti: non vedo l'ora di leggere le vostre storie <3

   
 
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