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Autore: Hotaru_Tomoe    21/03/2012    5 recensioni
Post-Reichenbach Fall. John ha lasciato l'appartamento di Baker Street e trascina i suoi giorni diviso tra speranza e sensi di colpa.
Angst, fortissimamente angst.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimers: Sherlock appartiene ad Arthur Conan Doyle, alla BBC e a Moffat/Gatiss.
Dell'angst che ha generato, invece, mi assumo io la maternità.

Avvertenze: (sì, come i bugiardini delle medicine). Sono giunta alla conclusione che “The Reichenbach Fall” fa male, tanto male: ogni volta che la guardo, ci trovo nuovi spunti di angst. Il risultato è questo concentrato di saudade e depressione, con (forse) appena un accenno di bromance, linguaggio a tratti scurrile, ma nulla che sconfini dal giallo.

 

IT’S TOO LATE TO APOLOGIZE

Porte sbattute, piatti infranti ed un’irata sequela di quelli che han tutta l’aria di essere pesanti improperi in arabo costituiscono la sveglia odierna di John.
Con un gemito di disappunto l’uomo nasconde la testa sotto il cuscino, pregando che Morfeo lo riaccolga subito tra le sue braccia, senza dare tempo alla sua coscienza di riemergere dalle nebbie del dormiveglia, desideroso solo di sprofondare nuovamente in un nero oblio privo di sogni.
Ma i vicini pakistani del piano di sopra non sembrano essere dell'avviso di farlo dormire in pace: il patriarca esce di casa stando bene attento a sbattere la porta il più forte possibile e a pestare con altrettanta violenza ogni singolo gradino delle scale, inseguito dalle urla di quella virago della moglie e dal pianto isterico del loro terzogenito aggrappato alla gonna della madre.
John calcia via le coperte con una imprecazione stizzita e si tira a sedere sul letto. Si stropiccia la faccia, apre gli occhi, li chiude infastidito e poi li riapre di nuovo.
E’ un triste rituale che ripete ogni giorno, un meccanismo folle nel quale la sua mente pare essersi inceppata.
Perché è folle pensare di chiudere gli occhi e riaprirli nel suo

nel loro
appartamento di Baker Street.
Ma il panorama attorno lui non è mutato, non muta mai. E’ sempre nel piccolo monolocale a Brixton, quaranta iarde quadrate compreso il bagno [1]. L’unica finestra della stanza non chiude bene, il vetro ha un’incrinatura che lo attraversa per intero, rappezzata alla meno peggio con del nastro adesivo da imballaggio, il linoleum ha un colore indefinito, tanto è vecchio e stinto, il lavello di ghisa è sbreccato in più punti ed è colmo fino all’orlo di stoviglie sporche.
Da quanti giorni non le lava?
Che giorno è oggi?
E' domenica.
John odia la domenica, più degli altri giorni, se possibile. Perché di domenica l'ambulatorio dove lavora è chiuso e non c'è nulla che gli occupi la mente.
Non c'è nulla che gli riempia la giornata.
Non c'è più nulla che riempia la sua vita e quel monolocale non è casa, è solo un posto dove dormire al riparo delle intemperie e, semplicemente, è meglio del sedile posteriore di un’auto o di un rifugio per senzatetto.
Ma comunque John si alza, si lava, si rade e poi si occupa dei piatti abbandonati nel lavandino.

“John, potresti sgomberare il lavandino? Mi serve per un esperimento.”
“Sherlock, vorrei farti notare che io ieri ho pulito il bagno, dei piatti potresti occuparti tu.”
“No, non posso, sono impegnato in un esperimento.”
“Ogni tanto ho il terribile sospetto che tu mi prenda in giro.”

E’ sempre un ricordo o un pensiero di Sherlock che permette a John di alzarsi, di tirare avanti in qualche modo ed arrivare a sera.
I believe in Sherlock Holmes. 

Your presence still lingers here and it won't leave me alone

I bambini del piano di sopra non smettono di piangere e il vecchio dell’appartamento di fianco ha alzato al massimo il volume del televisore. E’ insopportabile, e prima che sia vinto dall’impulso di prendere a calci la porta dei vicini ed urlare loro di fare silenzio, afferra la giacca ed esce.
Jasmine, a piano terra, sta pulendo con cura il pianerottolo e lo saluta con un sorriso. Jasmine è sempre cordiale e fa di tutto per mantenere pulita e vivibile quella squallida palazzina.
Jasmine è un transessuale colombiano cinquantenne e una sera, dopo che un cliente ubriaco l’aveva picchiata e lei non voleva andare né alla polizia né al pronto soccorso, John l’ha medicata. Da quel momento Jasmine, ogni volta che lo incrocia, gli propone un caffè, un tè, una torta fatta in casa, tutte offerte che John puntualmente rifiuta.
“Solo un caffè, John, tranquillo, non voglio saltarti addosso.” dice sempre Jasmine con il suo vocione allegro.
Ma non è per quello che John si tiene a distanza da lei.
John forse non sarà gay, ma di certo non è omofobo.
E’ che Jasmine, con la sua gentilezza innata, gli ricorda troppo Mrs. Hudson. E Mrs. Hudson, come in una reazione a catena, significa Baker Street, significa casa, significa Sherlock, significa un periodo in cui lui era felice e significa un sacco di altre cose a cui John non riesce a pensare, perché il dolore è troppo vivo e fa troppo male. 

These wounds won't seem to heal, this pain is just too real

John cammina per le strade, scansando persone, cammina veloce senza una meta, senza mai soffermarsi a guardare una vetrina, fermandosi ai semafori rossi solo per istinto di sopravvivenza, o per abitudine. Cammina finché non sente male alle gambe. Cammina e si concentra solo su quello, sui suoi passi che avanzano uno dopo l’altro e intanto il tempo passa e la fine della giornata si avvicina.
Alcune volte arriva così lontano da casa da dover prendere un taxi per tornare indietro.
Una coppia di ragazzi gli passa accanto ridendo: stanno correndo per prendere l’autobus. Lei resta un po’ indietro, lui si volta appena, le afferra la mano e la trascina con sé sull'automezzo rosso, sempre ridendo. ‹‹ Va tutto bene. ›› sembra voler dire il suo sorriso. 

“Sherlock, rallenta un attimo!” urlò John mentre fuggiva nella notte, ammanettato al detective. Proprio non ce la faceva a star dietro alla sua falcata chilometrica. Sherlock aveva ruotato il polso in un gesto pieno di eleganza “Afferra la mia mano.” disse e, senza alcuna esitazione, gliel’aveva stretta nella sua. Forte.
‹‹ Andrà tutto bene. ›› si era ritrovato a pensare John a quel contatto ‹‹ E’ una situazione di merda, ma Sherlock ne uscirà, lui troverà il modo di smantellare tutte queste ridicole accuse e alla fine ci faremo una bella risata. ›› Aveva anche perso la pistola, ma sarebbe andato tutto bene, perché la mano di Sherlock stringeva la sua.
In quel momento ci credeva davvero.
Sarebbe andato tutto bene, non poteva essere altrimenti, perchè Sherlock gli aveva stretto la mano.
 

Invece non era andato affatto bene.
Non era andato un cazzo bene.
John inspira forte dal naso e deglutisce per respingere le lacrime, immobile in mezzo alla folla,

alla vita,
indifferente, che continua a scorrere senza sosta attorno a lui.
Gli gira la testa e si accascia sulla panchina della fermata del bus, reclinando indietro la testa ed appoggiandola al vetro della pensilina.
Ogni tanto tutta quella vitalità che lo circonda è troppa. E’ semplicemente troppa da sopportare, quando lui si sente morto dentro, precipitato anch'egli da quel tetto assieme al suo migliore amico.
Il senso di colpa in lui ha la forma di un mostro nascosto sotto il letto, che attende nell'ombra per poi piombargli addosso all'improvviso, assieme a quelle scene che continua a rivedere nella sua mente ancora ed ancora, come in un orrifico Giorno della Marmotta. [2] 

Sherlock era stranamente calmo nel laboratorio del Barts e il suo contrasto con John, che invece non riusciva a smettere di camminare nervosamente per la stanza, era più forte che mai.
E più John spremeva le meningi per trovare una via d'uscita, più Sherlock appariva calmo, quasi apatico, tanto che il dottore aveva voglia di urlargli di darsi una scrollata e, santo Iddio, fare qualcosa.
Era colpa di quella situazione assurda e delle parole di Mycroft... si era accumulata così tanta tensione in John, che aspettava solo un pretesto, un pretesto qualsiasi per esplodere e, per mettere a tacere quei propositi, cercò di dormire.
Lo squillo del cellulare lo fece sussultare. La comunicazione che ascoltò lo gettò nel panico più completo. Che altro doveva succedere ancora? Che altro cazzo doveva andare storto?
“Mio dio, Sherlock, hanno sparato alla signora Hudson, è grave. Coraggio, andiamo.”
E lui nemmeno si voltò a guardarlo, continuando a giocherellare con quella stramaledetta pallina “Vai tu, io non vengo. Ho da fare.” mormorò in tono piatto, come se stesse dicendo “Il taxi è in ritardo.”
Ed eccolo lì il pretesto che John  attendeva per scaricare la frustrazione. Col senno di poi avrebbe dovuto capire che c’era qualcosa di strano, di anomalo nel comportamento di Sherlock.
Aveva ripetutamente scaraventato un agente della CIA dalla finestra che aveva alzato le mani sulla loro padrona di casa.
E, a posteriori, se ne era reso conto, ma ormai era troppo tardi.
dio... dio... era troppo tardi, non c’era più nulla da fare.
Ma in quel momento, quasi fosse vittima di uno strano incantesimo, non aveva realizzato niente, aveva solo aggredito ed insultato il suo migliore amico “Sei una macchina! Vai al diavolo, resta pure qui da solo!”
Sei orribile, non hai un briciolo di sentimenti.
Lo aveva trattato esattamente come tutti gli altri, non c'era alcuna differenza tra lui e Donovan, che lo apostrofava "scherzo della natura".
[3]
E dire che si professava suo amico. 

John si piega in avanti sulla panchina e si copre il volto con le mani, il senso di colpa che banchetta sorridente con i resti del suo cuore e il rimorso che minaccia di fargli rimettere l'anima lì sul marciapiede. 

“La solitudine mi protegge.”
“No, gli amici ti proteggono.”
Gli amici dovrebbero proteggerti, sempre, dovrebbero appoggiarti nei momenti di difficoltà, non dovrebbero mai dirti che sei una macchina, non dovrebbero mai lasciarti solo.
E invece era ciò che John aveva fatto. Gli aveva sputato addosso il suo fiele, con soddisfazione, e poi se ne era andato.
“Sei una macchina. Vai al diavolo.” le ultime parole rivolte a Sherlock, l’ultima volta che aveva visto il suo viso, i suoi occhi da vivo.
Gli amici ti proteggono.
Gli amici non ti lasciano mai solo.
"Resta pure qui da solo."
Crepa da solo. Resta qui da solo a meditare su come suicidarti.
dio... dio... ti ho abbandonato... ti ho lasciato solo... dio... dio... cosa ho fatto. Perdonami, Sherlock.
Ma ora è tardi... dio... dio... è troppo tardi.
 

Se a John fosse data la possibilità di esaurire un desiderio, non avrebbe alcun dubbio: vorrebbe chiedere scusa a Sherlock, vorrebbe solo dirgli “Mi dispiace, perdonami. Quelle cose che ti ho detto non le pensavo, non le ho mai pensate ed ora mi pesano come un macigno sul cuore. Pesano, pesano così tanto che a volte mi sembra impossibile respirare.”
Non è riuscito a dirle queste parole, John, mentre era al telefono con lui e lo guardava stare in bilico su quel cornicione e la sua mente si rifiutava con terrore di prendere atto di ciò che stava per succedere e

Sherlock no, dio, ti prego, non farlo, non buttarti. Devo chiederti scusa, fammi chiedere scusa. Non farlo, andrà tutto bene, perchè tu mi hai stretto la mano. Io credo in te, Sherlock, ti credo, ti crederò sempre, lo sai, vero? Dimmi che lo sai.
Non farlo, dio... dio... non farlo... devo chiederti scusa.
E’ troppo tardi per chiederti scusa.

Ogni tanto John riesce a trattenere le lacrime, altre volte no e si ritrova, come ora, con gli occhi arrossati ed i palmi delle mani umidi. 

There's just too much that time cannot erase

Allora John si alza e riprende a camminare per la città, come in trance, e finisce sempre per arrivare lì.
Davanti alla tomba di Sherlock, la stessa che ha accarezzato con tenerezza il giorno del suo funerale, la tomba davanti alla quale l’ha implorato

“Un ultimo miracolo, Sherlock, solo per me.
Non essere morto.
Ti prego, smettila, smettila.”
 

E’ una richiesta assurda e John lo sa, lo sa perché non è uno stupido, è un dottore e sa bene cosa sia la morte, ma lì, solo lì, davanti a quella lapide, quella preghiera gli appare un po’ meno insensata. 

I believe in Sherlock Holmes.
Torna da me, Sherlock, torna, affinché possa smettere di essere troppo tardi, affinché io possa smetterla di parlare ad una lapide, affinché io possa chiederti scusa, affinché tu possa perdonarmi.
Perdonami, Sherlock.
I believe in Sherlock Holmes.
 

E si aggrappa alla speranza che Sherlock, con la sua smisurata intelligenza, sapesse quanto profonda era la fiducia in lui, sapesse quanto contava per lui. Ma è una magia che funziona solo lì, in quell’angolo di cimitero, in quel fazzoletto di terra dove John smette per qualche istante di essere solo.
Al di fuori di quella placenta emotiva, però, c’è la vita che scorre, ci sono giorni interminabili da superare e c’è l’eterea presenza di un amico scomparso al quale è troppo tardi per chiedere scusa. 

I've tried so hard to tell myself that you're gone
But though you're still with me, I've been alone all along

“Hai fame, John?”
“Mangiamo cinese stasera, John?”
John ha perso l’appetito, mangia perché deve, dorme perché sa che altrimenti impazzirà ed è sempre la voce di Sherlock, nella sua testa, a persuaderlo.

I believe in Sherlock Holmes.
Mangia spesso in un ristorante cinese, ma non fa caso alla forma della maniglia della porta, non guarda mai la maniglia, spinge sempre con le dita sul vetro. 

E’ quasi sera ed è proprio il caso di rientrare.
Brixton non è Westminster. [4]
Dalla cassetta delle lettere spunta un volantino che riporta in minacciosi caratteri cubitali rossi “CREDI IN GESU’?”
“No, credo in Sherlock Holmes, fa lo stesso? E se Gesù ha qualcosa da obiettare ricevo in ambulatorio dal lunedì al sabato su appuntamento.” borbotta astioso.
Sherlock ne riderebbe di gusto, ne riderebbero insieme.
Ma ormai è tardi, è troppo tardi, e tutto questo perché lui l'ha lasciato solo.
Appallottola il foglio con rabbia e fa per gettarlo a terra, poi invece lo deposita diligentemente nel cestino della carta straccia. Perché Jasmine ce la mette tutta per tener pulito l’androne. E non sarà Mrs. Hudson, ma merita lo stesso rispetto.
Entra in casa e si butta sul letto sfatto dalla mattina senza nemmeno accendere la luce.
Il led rosso sul telefono gli indica che ci sono dei messaggi. Allunga una mano e schiaccia il pulsante.

“Ci sono tre nuovi messaggi.” annuncia la professionale voce metallica. 

- BIP -
“Ehi, ciao John, sono Sarah... ti avevo chiesto di chiamarmi settimana scorsa. Senti, quando sei libero, se ti va, ci vediamo da qualche parte per un drink, o un brunch. Quello che vuoi. Chiamami quando te la senti.”
- BIP -

E’ una cara ragazza Sarah, ma più che la dottoressa dovrebbe fare la crocerossina, vorrebbe riavvicinarsi a lui perché lo vede triste, questo l’ha capito pur senza possedere le capacità deduttive di Sherlock. Ci ha anche riprovato con lei una volta, a dire il vero, complice una cena a casa della ragazza e a qualche lattina di birra di troppo, ma non gli era nemmeno venuto duro. Sarah era stata molto comprensiva, lo aveva abbracciato e gli aveva suggerito che forse era troppo presto e la ferita lasciata dalla morte di Sherlock ancora fresca.
Beh, in effetti era un po’ difficile concentrarsi sul sesso, quando l’unico pensiero che ti ronza in testa è

l’ho lasciato solo... dio... dio... non avrei mai dovuto farlo,
e ora è troppo tardi e non posso più chiedergli scusa.

- BIP -
“John, sono Ella. Ascolta, hai disdetto gli ultimi tre appuntamenti e io sono preoccupata per te, credo che dovremmo continuare le nostre sedute ancora per un po’. Pensaci bene, ti raccomando.”
- BIP -

John ci ha pensato, ci ha pensato molto bene, in effetti. E non ha alcuna intenzione di tornare da quella psichiatra. Non ha assolutamente voglia di sentire frasi del cazzo che sembrano prese da romanzi Harlequin [5], come "Il tempo sistemerà tutto e cancellerà le tue ferite."
Il tempo non guarisce niente, il suo dolore è ancora lì, vivo e pulsante come il primo, fottuto giorno. Il tempo è solo uno stronzo che se ne è andato, senza dargli la possibilità di chiedere scusa al suo migliore amico e di essere perdonato. 

- BIP -
"Oh, ciao John. Come va?"
- BIP -

Attraverso la segreteria telefonica la voce di Harry non sembra nemmeno alterata dall'alcool. Forse è sobria per davvero e se arriva a preoccuparsi per lui, significa che, tra loro due, adesso è lui quello messo peggio.
Va, Harry. Va e basta. Sto sopravvivendo.
Con tutti i miei demoni e la mia unica certezza.

I believe in Sherlock Holmes.
 

I'm used to it by now.
Another day, just believe.

Credo in lui. 

Just breathe. Just believe.

Mangio, bevo, dormo, respiro, lavoro. E credo in Sherlock. Crederò sempre in lui, contro il mondo intero. 

Just breathe.
Lying in my bed,
Another day, staring at the ceiling.

E' arrivata la sera.
John è sopravvissuto ad un altro giorno.
Continua ad essere troppo tardi per chiedere scusa.

 

 FINE

 
=< > = < > =


Oh my god! Avete davvero tenuto botta fin qui? Meritate un bacione (e forse anche delle scuse per avervi propinato questo supplizio).
Il titolo è impunemente sgraffignato alla canzone degli OneRepublic, ma ha un significato diametralmente opposto a quello della canzone.
Le strofe delle canzoni presenti nel corpo della fanfiction, invece, sono prese, in ordine, da “My Immortal” degli Evanescece e “Breathe” dei Telepopmusik.
 

NOTE 

[1] Circa 35 mq, credo... (almeno stando ad un ambiguo e non so quanto affidabile convertitore online) 

[2] Frase ispirata dal meraviglioso film "Ricomincio da capo" con Bill Murray. Per chi fosse interessato, the Groundhog Day esiste davvero e viene celebrato negli Stati Uniti e in Canada e si festeggia il 2 febbraio: osservando il comportamento di una marmotta si intuisce se l'inverno è agli sgoccioli o durerà ancora. 

[3] "Freak" in inglese. Odio questo termine con tutto il cuore e non so mai come renderlo: nella versione italiana l'hanno tradotto come "geniaccio" (WTF? RLY? SRY?), i subs dicono "strambo", che forse ci si avvicina di più, ma dato che questo termine in inglese indica anche i fenomeni da baraccone che si trovano nel circo, mi è sembrata la traduzione più calzante. 

[4] Brixton ha fama di essere un quartiere pericoloso. 

[5] Gli Harmony in italiano.

   
 
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