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Autore: Mamey    22/03/2012    1 recensioni
Aveva deluso i suoi genitori e tutti i suoi amici a causa di un suo piccolo problema. Un piccolo, affettuoso, innamorato, problema che possedeva dei ricci e ribelli capelli rossi ed un nome non convenzionale, che i suoi genitori non avevano molto apprezzato. Federico. Un nome da ragazzo, per l’appunto.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«L’ho fatto di nuovo, Angela»

 

La donna sbuffò. Una volta, un’altra... finché il fumo della sigaretta finì per creare vortici al contatto con l’aria gelida. Gli occhi socchiusi, il volto proteso oltre la finestra e le ciglia scure a catturare i fiocchi di neve. Il vento secco della notte a screpolarle le labbra.

 

«Mi hai sentito, Angela?»

 

Angela, impassibile, scosse quasi impercettibilmente le dita, lasciando cadere la cenere sul soffice strato di neve bianca che si era formato sul davanzale. Poi, quasi si fosse accorta all’improvviso dell’errore fatto, spalanco gli occhi sugli sprizzi grigi che sporcavano il candore. Che lei aveva sporcato. “Maledizione”, pensò.

 

Il ragazzo era ancora dietro di lei, nel centro della stanza, con il pigiama azzurro che scivolava sulle spalle troppo magre, i capelli biondi arruffati e le braccia abbandonate lungo i fianchi con i pugni serrati. I denti a mordere le labbra tanto vigorosamente ‘che solo un poco di forza in più e le avrebbe viste sanguinare.

 

Osservando la cenere che piano piano veniva ricoperta dai nuovi fiocchi, sempre più vorticosi e gelidi, Angela rivide quello stesso ragazzo per come era pochi anni prima. Lo stesso a cui, prepotentemente, voltava le spalle in quel momento.

Era poco più che un ragazzino, da poco maggiorenne, catapultato dal suo mondo di bambagia e zucchero filato delle scuole superiori a quello fatto di ferro e cemento armato della realtà del lavoro. Aveva i capelli biondi corti e gli occhi azzurro mare quando glielo presentarono come ‘il nuovo apprendista’. Con un timido sorriso si tormentava le mani, in attesa di scoprire cosa lo aspettasse in quel enorme ufficio dalle pareti candide adorne di quadri e dalle scrivanie in vetro lucide e ordinate.

La prima cosa che la donna bruna pensò, era quanto sarebbe resistito prima di sbattere la faccia sulla dura realtà del mondo dei grandi, quando il suo bel viso da angelo di sarebbe contratto in una smorfia di sottomissione al capoufficio, le sue labbra arricciate di disappunto sotto ramanzine per le quali non aveva colpa. I suoi occhi azzurri si sarebbero fatti spenti di fronte a quelle scrivanie che ora gli sembravano tanto invitanti e piene di promesse, ma che avrebbe invece imparato ad odiare, col tempo. Perché era solo questione di tempo e poi tutto lo zucchero filato che lo aveva avvolto fino a quel momento si sarebbe sciolto, lasciandogli solo una noiosa sensazione di appiccicaticcio sulla pelle, come era successo a tutti gli apprendisti prima di lui. Come era successo anche a lei, non tanto tempo prima.

 

Capitava raramente che Angela si fermasse a riesumare ricordi passati, soprattutto se trattavano di lui – e di lei, anche – e spesso succedeva mentre era assorta a godersi la neve. Come quella sera. O, perlomeno, prima che arrivasse lui a disturbarla con quel suo odioso problema dai capelli rossi, come lo chiamavano affettuosamente tra loro.

Perché Angela sbagliava pochissime volte nel captare la prima impressione su di una persona, ma quella mattina in quel ufficio, guardando quel ragazzino, non aveva visto oltre ciò che era davanti a lei: ingannata dallo splendore di quegli occhi color del mare non aveva tenuto conto di cosa potessero nascondere nelle loro profondità – tendeva sempre a dimenticare quanto l’oceano si riveli più profondo di quanto sembri -: Marco, quel piccolo chierichetto biondo, non era cresciuto nella bambagia come tutti quelli che lo avevo preceduto, come lei stessa aveva fatto. Seppure entrato da poco nella maggiore età, si era già schiantato durante i suoi sedici anni contro il cemento armato formato dal dissenso e dalla delusione. Aveva deluso i suoi genitori e tutti i suoi amici a causa di un suo piccolo problema. Un piccolo, affettuoso, innamorato, problema che possedeva dei ricci e ribelli capelli rossi ed un nome non convenzionale, che i suoi genitori non avevano molto apprezzato. Federico. Un nome da ragazzo, per l’appunto.

Appena venuti a conoscenza della notizia, portata da un Marco raggiante ed innamorato, madre e padre avevano ben pensato di voltare le spalle al figliol prodigo, una chiudendo e riaprendo più volte gli occhi sperando in uno scherzo di cattivo gusto, pronta a contattare il medico di famiglia per una prescrizione medica che lo potesse curare da quella deplorevole malattia , l’altro già intento a far le valigie dell’adorato figliolo, accompagnandolo alla porta con malcelato disgusto nell’augurargli una vita da disgraziato - e pace all’anima della cara nonna Matilda, che sicuramente in quel momento si stava rivoltando nella tomba nel vedere il suo unico nipote disonorare in un tale modo la sua famiglia -. Il tutto in così poco tempo che il piccolo e biondo Marco era riuscito appena a realizzare di essere appena uscito da quella fase di vita chiamata gioventù in cui erano i genitori a prendersi cura di lui. Il suo mondo di zucchero filato non si era corroso lentamente come succedeva a tutti i bambini che passavano lentamente nell’età adulta: gli era stato strappato di dosso, per altro con molto poco garbo, lasciandolo stordito sul pianerottolo color lillà della sua ex-casa natia, con una valigia in mano e l’infanzia ormai dietro le spalle. Alla faccia della libertà di orientamento sessuale, e della altre moltitudini di libertà che i suoi sbandieravano ai quattro venti fino a poche ore prima. In quel momento capiva con precisione cosa indicasse il termine accettazione utilizzato così frequentemente da suo padre per quelli come loro – ed ora come lui –: un azione collegata all’utilizzo di uno strumento molto affilato ed utilizzato per tagliare i rami marci.

 

«Angela.» Il suo nome, detto in un sussurro che squarcio il silenzio più di qualsiasi urlo, la riportò alla realtà.

«L’ho fatto di nuovo, ho sognato che io e Fede compravamo una piccola casa in centro e davamo una festa. C’eri tu, ed Emanuele, e i genitori di Fede. Ed anche mamma e papà erano contenti e festeggiavano con noi. Mamma preparava la mia torta di mele preferita e…»

 

La donna ignorò il fiume di parole che il giovane le riversò addosso. Si era chiesta spesso se quei sogni di bambino, che proprio non volevano saperne di abbandonare l’uomo che Marco era diventato, si sarebbero mai potuti avverare. Ed ogni volta, ogni singola volta che pensava a quanto poteva fare male a quel ragazzo, che tanto aveva già sofferto, illudersi che potesse bastare sognare la libertà per ottenerla, una rabbia cieca la assaliva.

Spense con stizza la sigaretta nella neve ancora soffice, sorridendo maligna nel trovarla insudiciata, come doveva essere. Perché nessuno si ricorda mai che anche la candida neve, quando si schianta contro la verità del suolo, si sporca.

Si voltò verso il giovane, sbadigliando vistosamente e sorpassandolo per raggiungere la porta della stanza: «Chiudi la finestra, fuori nevica. Ho freddo».

Marco annuì, avvicinandosi al davanzale ed accostando le persiane con lentezza, temendo che il cigolio del legno potesse spezzare l’incanto del silenzio ovattato della neve. Sospirò, osservando al di la delle feritoie delle persiane i giochi irregolari dei fiocchi, immaginando di vederli danzare sulle note di una canzone felice.



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"Dromen van de vrijheid" Olandese - più o meno - per "Sognando la libertà"

'Bro, questa è per te. Gira nel mio pc da almeno quattro anni, aspettando, in agguato, questo momento di merda. Ce la faremo a sconfiggerla, la "bestia".

  
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