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Autore: macyzrow    23/03/2012    3 recensioni
Un bambino con le sembianze da uomo che ripesca nel passato in cerca di quell'amore sconfinato e illusorio che solo gli adolescenti possono provare.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Billie J. Armstrong
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Immaginati un pubblico. Delle voci sparse nel cielo. Parole che non riesci a comprendere, frasi spezzate per aria, lanciate al vento.

Immaginati milioni di volti. Milioni, davvero, non è un sogno.

Immaginati il sudore che ti cola sulle guance. La giacca nera che già hai buttato a terra per il caldo. La bottiglietta d’acqua semi-vuota che hai lasciato a un metro e mezzo dalla batteria circa venti minuti fa.

Immaginati un incredibile mal di testa dovuto all’emozione.

E per ultima cosa immaginati nuvole cariche di sogni, su cui vorresti sdraiarti e rimaner tutta la vita, solo per contare quante stelle giungono alla tua vista dopo il tramonto arancio.

Ti rendi conto che non è un sogno, no. E ne sei felice. Sorridi e canti con tutta quella vita che avevi lasciato in fondo allo stomaco. La chitarra l’hai abbandonata legata attorno al collo, le tue mani si sono impossessate del microfono con foga, e hai avvicinato le labbra ancor di più a quella superficie ruvida in cui trovi le tue parole.

Inizi a urlare al pubblico. Li ringrazi, e poi dici altre cose. Cose che non ti ricorderai tra due secondi. Cose che già ti sei scordato adesso, ma è normale. Sei troppo agitato. I tuoi occhi son di un verde liquido che quasi si scioglie in un temporale di emozioni. Ti passi una mano tra i capelli arruffati e senti di essere ancor più sudato di prima.

Ma non ti importa più di nulla. Sei cascato nel tuo paradiso e nessuno sarà capace di tirarti fuori da lì entro un paio d’ore.

Continui a urlare e loro alzano le mani al cielo, alcuni cercano di toccarti, anche solo con uno sguardo. Vorresti guardarli negli occhi tutti, uno ad uno, ci provi, ma è impossibile. Già a pochi metri dal palco non riesci a distinguere due occhi in mezzo a quel pubblico in delirio. Scorgi qua e là ragazzi particolari, di quelli che saltano all’occhio e ti lasciano interdetto e pure divertito. Un cresta verde, una maglia strappata, labbra di ragazze nascoste da un rossetto nero. Finché non arrivi a incrociare gli occhi di una bionda in terza fila. Alta, con due piercing al naso e un sorriso che non sembra reale impresso in viso.

Ti fermi immobile e per poco non crolli a terra stremato. Le tue gambe tremano e senti gli occhi inumidirsi.

È.. identica? Identica, spiccicata. Probabilmente i suoi capelli sono più lunghi, probabilmente ha un mento troppo pronunciato. Eppure riesci a sentirle la voce che ti grida addosso, ed è identica, identica spiccicata alla sua.

Impugni con più forza il microfono e parole fragili ti escono dalle labbra, come intruse, come ladri che fuggono, come assassini che si spacciano per emozioni umane.
 

Thought I ran into you down on the street, then it turned out to only be a dream, I made a point to burn all of the photographs. She went away and then I took a different path..
 

Distogli lo sguardo, lo rigetti nel pubblico, ma non puoi farne a meno. Ritorni a fissarla con insistenza, lei sorride ancora di più. Quel sorriso sembra la metà della luna di quelle notti d’estate passate a parlare quand’eri ragazzino. Ti si ritorce lo stomaco e senti come se qualcuno ti stesse prendendo a pugni.

E sì, lo sta facendo. Un ragazzotto di sedici anni o giù di lì ficca i suoi pugni di ferro nella tua pancia. Sembra ti trapassi quell’esile corpo che odi. La sigaretta che in mano stringevi rotola a terra e viene pestata da uno dei tanti ragazzi che vi stanno fissando.

Guardi il bulletto con rabbia e ti massaggi lo stomaco con un’espressione di dolore in faccia. E non hai tempo per tirargli un calcio nelle palle che già lui ti colpisce al naso. Il piercing cade a terra insieme a un fiume di sangue nero e ripugnante. Non sai dove andare, né a chi rivolgerti. Ti guardi attorno e vedi solo ragazzi dagli sguardi spenti e i futuri cancellati, quello sta ancora di fronte a te e sì, sei in trappola. Chini la testa in basso cercando di frenare il sangue che continua a scendere sul tuo viso, aspetti l’ultimo colpo, allo stinco, o ancora allo stomaco, ma quel colpo non arriva, e la cosa ti secca ancora di più.

Il ragazzotto ride e ti guarda con disprezzo. Fissa i suoi amici che con soddisfazione lo guardano. Poi va via, ti dà del perdente, ti lascia lì chino, e così fanno gli altri.

Strisciando trovi un muro su cui appoggiarti e lì rimani solo. Il naso ha smesso di sanguinare, e lo stomaco non fa più male come prima, ma ti rode qualcosa di ancor più forte e devastante dentro. La strada è buia, non c’è nessuno. Non senti nulla, ricordi solo parole confuse e poi pugni in faccia, la tua voce da idiota uscirti dalla gola con così tanta debolezza, e altri pugni.

Quando poi realizzi come siano andate le cose, seppur essendo confuso, appoggi la testa sui mattoni freddi e rimani fermo, rifiutandoti di piangere, cercando per chissà quale motivo la tua sigaretta a terra. Fissi il marciapiede storto e vai lontano con lo sguardo, prima da una parte, poi dall’altra, e i lampioni, e le finestre chiuse, e le voci lontane, e l’incrocio, e finalmente qualcuno.

Due stivali scuri che camminano con decisione nella notte si precipitano verso di te, le gambe veloci e le mani affusolate di una donna con sembianze di ragazzina, una canottiera infilata nei pantaloncini e un seno non molto prominente, il collo spoglio di collane e il viso bagnato, una chioma che in lontananza appare quasi del colore perfetto che ti sei sempre immaginato.

Cerchi di distinguere le forme nel buio, ti aiuti con la fioca luce dei lampioni ma non basta, così aspetti e rimani ancora più fermo di prima. Lasci che le gambe si fermino e smettano di tremare, lasci che i battiti del cuore ritornino regolari, lasci che il sangue smetta di gocciolarti sulla maglietta grigiastra.

“Che cazzo hai fatto?”

La fissi e vorresti sorriderle.

“Bill che cazzo hai fatto?!”

Si china e rimane in ginocchio vicino a te, ti guarda con preoccupazione e allo stesso tempo con acidità, socchiude gli occhi e tira fuori dei fazzoletti dalle tasche.

“Idiota..” sussurra mentre ti pulisce il viso dalla macchia rossa.

Allora inizi a piangere. Come un bambino. Come non piangevi da anni. E lo fai in silenzio senza usar parole. Ti fissi attorno e poi fissi lei. In questo pianto c’è tutto. Da quando avevi dieci anni ad oggi. Pensi al bar davanti a scuola e alle volte in cui da piccolo ci passavi stringendo la mano di tuo padre. E piangi ancora di più ripensando a quella felicità che ti sei perso per strada. Ripensi al fatto che tornando a casa non abbraccerai nessuno e non avrai quell’affetto che solo quell’uomo poteva darti. Chiuderai la porta a chiave e poi ti nasconderai sotto le coperte del tuo letto sperando di dormire almeno un po’. Ma ovviamente ricomincerai a contare i giorni e gli anni. E realizzerai che tuo padre non arriverà la mattina seguente e non busserà alla porta di camera tua. Passerà un altro mese e poi arriverà settembre. E pioverà…

Gli occhi sono chiusi e non ti esce nemmeno  un filo di voce, nemmeno quello. Rimani con la bocca semi-aperta sperando che le parole si decidano ad uscire ma nulla, assolutamente nulla. Rimani in attesa finché a chiuderti le labbra non arrivano le lettere del suo nome. Come un inchiostro indelebile si fissano su di te e non ti mollano. Ti avvolgono e non ti mollano. Ti stringono e non ti mollano. E tu soffochi e cerchi di trovar un qualche modo per tornare a respirare l’aria inquinata del paese.

Tra un bacio e l’altro prendi fiato e poi ti rituffi in quel miscuglio di nulla che però ti lascia tanto inebriato. Le lacrime si asciugano e non hai più quel sangue in faccia. La stringi forte sempre di più e le sfiori i capelli morbidi. Senti il suo profumo entrarti nel corpo e svuotarti da qualsiasi altra cosa. Senti gli occhi farsi sempre più stanti e i baci farsi sempre più inconsistenti. Le gambe sembrano ora reggere il peso di mille fatiche e le mani non sfiorano più quei capelli biondi ma un microfono nero.

I tuoi occhi così d’incanto si riaprono e continui a cantare con un nodo in gola.

Il ricordo ti ha assalito senza che tu ne fossi pronto, già.

La ragazza è ancora in terza fila a fissarti e sorridere. E diamine, quanto le assomiglia, quanto è violento il suo modo di riportarti indietro.
 

Remember, whatever, it seems like forever ago.
 

Lo urli, lo urli anche a lei, con disperazione, stringi di nuovo gli occhi e speri che il trucco non coli via dagli occhi. Rimani fermo immobile di fronte a questo pubblico di cuori infranti e sorridi di un sorriso tanto debole, di quelli che solo la gente fragile ha, così silenziosi, così sbagliati, così, quasi come se fossero degli intrusi nella vita, reale, quasi come se in mezzo a tutti questi colori fossero le uniche cose prive di significato. Dove tu ora vedi bellezza, gli altri vedono dolore. Dove tu ora vedi ricordi, gli altri vedono peccati. Dove tu ora vedi fiammiferi spenti, gli altri vedono una dipendenza. Dove tu ora vedi muri imbrattati da anni e anni di solitudine, gli altri vedono un ragazzino di quindici anni col cuore spezzato.

Senti le guance fredde e lo stomaco vuoto, le mani tremanti e le gambe stremate.

Termini quell’ultima canzone tirando sguardi al cielo.

Mentre poi il basso di Mike si scioglie nelle ultime note, tu molli il microfono e fissi a terra. Per l’ultima volta la guardi e mentre te ne vai pronunci quel nome che per tanti anni è rimasto come rinchiuso, incassato tra un pensiero e l’altro, intrappolato, con l’intenzione di intrappolare te allo stesso tempo. Gli altri ti guardano andar via, incerti sul da farsi, sorpresi, intravedono in te un’emozione spenta, e poi rigettano gli occhi nel pubblico pure loro, perché sì, lo sanno bene, sanno bene che è lì che hai ritrovato qualcosa di te, è lì che un ricordo s’è nutrito di ogni tuo resto, di ogni tuo rimasuglio di polvere, ogni goccia del passato è stata ormai riversata sul tuo viso sempre più pallido e non sai se correre o restare fermo per sempre, raggomitolarti di nuovo, ben sapendo che lei questa volta non verrà, non ci sarà, non ti curerà dalle ferite che porti in viso e in cuore. Il tuo cuore spezzato, lasciato a marcire, le strade buie di Berkeley e la puzza di sigaretta all'angolo della strada principale, una pioggerella fine e perfida e il tuo naso rimasto fuori, la finestra socchiusa e gli occhi aperti, ben aperti per guardare in basso; la porta è chiusa, l'ha appena sbattuta con forza, urlandoti contro, e tu sei scappato verso la finestra, proprio così, a prendere aria, ma non entra nei polmoni, non puoi farci niente, ti ha strappato tutto il fiato lei. La fissi scappare lontana da te. La rivedrai domani, o un altro giorno, pensi. A dire il vero non ne sei così sicuro. A dire il vero - ma questo tu ancora non lo sai - questa è l'ultima volta in cui puoi rapirla in uno sguardo. E sei così sciocco da tornare in camera, chiudere la finestra e metterti a scrivere canzoni.
 

E mai ti dimenticherai. Scorderai il nome ma mai dimenticherai.

Whatsername.

  
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