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Autore: Harriet    23/12/2013    3 recensioni
Amir è un giovane pakistano appena arrivato a Londra. La sua storia cambierà drasticamente quando entrerà in contatto con il Sunflower, un teatro periferico, bruttino e pieno di fantasmi.
Nel futuro straordinario di Amir ci sono incontri sovrannaturali, guai quotidiani e molti spettri da liberare. Anche quelli che affollano la mente di Joel Bennett, il proprietario del teatro.
Londra, le sue storie e un mondo di stranezze e meraviglie. Il Sunflower ha aperto le sue porte anche per voi.
[XXX: Capitolo finale!]
Genere: Drammatico, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Cronache del Sunflower diHarriet (Francesca Cappelli) è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale.
 

Capitoli: 30. La storia è completa e sarà aggiornata settimanalmente.

Avvertimenti: C'è una leggera presenza di temi delicati (problematiche religiose, depressione, suicidio, violenza sessuale)

Note:
1.
Questa storia è una canzone d'amore alla letteratura britannica, alla lingua inglese, ai teatri e a un posto che ho immaginato per parecchio tempo, prima di andarci e innamorarmene per com'è davvero. Se c'è un posto che “va di moda”, è Londra. Non vorrei andarci a vivere e non credo sia il paradiso in terra. Ma le sue storie e i suoi personaggi mi hanno tenuto compagnia per così tanto tempo (e continuano a farlo) che avevo voglia di dedicarle un po' di parole.

2. La lingua inglese non fa distinzione tra lei e tu. Ho scelto di usarla comunque, per rendere l'idea della progressiva trasformazione del modo di rivolgersi del protagonista agli altri personaggi: da un modo di parlare formale e un po' distante alla più totale confidenza.

3. Questa storia è stata pubblicata online da gennaio 2009 a gennaio 2013 (completa sul mio livejournal, mentre su EFP erano presenti alcuni capitoli autoconclusivi.) Questa è la "versione definitiva", che beneficia di tutti i lettori che in questi cinque anni l'hanno accompagnata e aiutata a migliorare.

4. Grazie di essere qui. Buon viaggio.


 

CRONACHE DEL SUNFLOWER

 

 

Of all cities London seems the most occupied by its dead, and the one which most resounds to the tread of passing generations.

In London the past is a form of occluded but fruitful memory, in which the presence of the earlier generations is felt rather than seen. It is an echoic city, filled with shadows.

 

(Peter Acroyd – London. The biography)

 

 

Remember your name.

Do not lose hope — what you seek will be found.

Trust ghosts. Trust those that you have helped

to help you in their turn.

Trust dreams.

Trust your heart, and trust your story.

When you come back, return the way you came.

Favors will be returned, debts will be repaid.

Do not forget your manners.

Do not look back.

 

(Neil Gaiman, Instructions)

 

 

*

 

 

 

 

 

Prologo

 

Liberazione

 

Il sole è appena sparito e l'altra anima della città si stira sotto le prime carezze della sera e apre gli occhi. È una ventosa serata di marzo e niente sembra preannunciare i grandi cambiamenti che di lì a poco seguiranno. Come accade sempre quando qualche novità galleggia nell'aria, del resto.

Pian piano, al vento portatore di umidità si aggiunge un'altra corrente, una di quelle che compaiono raramente, ma lasciano il segno. È quel messaggero di novità che serpeggia tra le case, e per le vie, passa accanto ai luoghi visibili e raggiunge quelli più nascosti e segreti (soprattutto quelli più nascosti e segreti), e mentre va, racconta di grandi cose a venire.

Quali grandi cose?

Chissà. Cose che, probabilmente, se venissero raccontate da una voce umana non sembrerebbero tanto grandi.

Ma il messaggio non è per orecchie umane. I pochi umani che ascoltano, non è detto che capiscano. I pochi che capiscono, non è detto che gioiscano.

I pochissimi che ascoltano, capiscono e gioiscono, conservano dentro sé quella sensazione di novità imminente e si dispongono a un'attesa colma di speranze, fragili e ostinate come tutte le speranze migliori.

Il messaggio, però, non è per orecchie umane. Il messaggio è per le ombre.

Quali ombre?

Tutte quelle che abitano le vie infinite dell'altra anima della città. Le ombre dietro le finestre del tempo, oltre le soglie perdute, serrate da sigilli invisibili negli angoli di luoghi irraggiungibili.

Per le ombre il messaggio è chiarissimo. È un canto tessuto di note discordanti e mille rumori, e ripete incessantemente poche parole.

Novità.

Promessa.

Liberazione.

 

*

 

PRIMA PARTE

Il Drago che dorme in città

 

 

Capitolo I

Fare amicizia con il drago

 

 

Touch the wooden gate in the wall you never

saw before.

Say "please" before you open the latch,

go through,

walk down the path.

 

(Neil Gaiman, Instructions)

 

I

 

Londra, 7 marzo 2008

 

Una volta c'era una finestra, da qualche parte, e dietro i vetri c'era una giornata stranamente primaverile e soleggiata, piacevole da vedere. Una volta, prima che arrivassero le scatole e i libri e le pile di oggetti dallo scopo non molto chiaro, a conquistare la stanza. Una marea di polvere e sconforto ricopriva tutte le cose presenti nello spazio affollato – compreso colui il cui compito era quello di ricreare l'ordine dal caos.

Lo studio del signor Bennett era un immenso brodo primordiale di follia, e ogni decisione, ogni spostamento di qualcosa finiva sempre per peggiorare la situazione. Per esempio: aveva pensato che togliere quei libri dalla sedia e metterli insieme agli altri libri sulla poltrona fosse una cosa sensata, ma adesso la pila sulla poltrona era instabile e minacciava un crollo imminente, mentre la sedia era stata prontamente occupata da un fascio di fogli cosparsi di cifre e segni matematici, e quindi era comunque inservibile.

Sospirò, mentre cercava di far stare in un codino i suoi capelli neri e la loro tendenza a imporsi sulla sua volontà. Si sentiva sporco, stanco e anche un po' preso in giro da quel posto. Pensò seriamente che più che di un custode, in quella casa ci fosse bisogno di un incendio.

Mentre rifletteva sull'utilizzo di sistemi meno drastici per risolvere il problema, sentì le chiavi nella serratura e il portone della casa che veniva aperto: una ventata fredda entrò insieme a due voci, una esaltata e una fin troppo quieta.

- Sul serio, Joel, devi ascoltarmi! È l'ultima possibilità che hai di tenere in piedi quel fallimento epico che è il tuo teatro.

- Sentiamo.

- Ho conosciuto una donna.

- Che novità.

- Risparmiami l'ironia. È la soluzione ideale, per te. Abigail si occupa di organizzare eventi di spettacolo, principalmente qui a Londra, ma in realtà ha degli addentellati anche altrove, e conosce un sacco di gente. Le ho parlato di te, e...

- Le hai parlato di me, James? Hai sprecato parte del tuo prezioso tempo insieme a una signora per parlarle di me e del mio teatro? Però. Mi sento onorato.

Finalmente le due voci si concretizzarono in due figure sulla soglia dello studio: un uomo alto, con i capelli chiari e l'atteggiamento rilassato, e un tipo basso, dagli occhi scuri e vivaci. Il primo raggiunse la scrivania e si affacciò oltre il caos che vi era ammassato sopra.

- Buongiorno, Amir. Come va il lavoro di ricognizione?

- Buongiorno, signor Bennett. Ci sono molte cose da fare, e alcune stanze in cui non ho ancora messo piede.

- Non preoccuparti. C'è tempo. Lascia che ti presenti James Bowden. Un vecchio amico.

L'altro rispose con un sorriso fin troppo gioviale sulle labbra. Aveva la stessa l'aria esaltata che la sua voce suggeriva.

- Salve, signor Bowden.

- Oh, Joel, è il famoso cameriere indonesiano, lui?

- In realtà è il custode della casa pakistano. Si chiama Amir.

- E con l'inglese se la cava?

- Meglio di te. Ed è un ottimo custode. È qui da pochi giorni e la casa ha già un altro aspetto.

- Io questa non l'ho mai capita, Joel. Hai una casa splendida e non ci abiti, passando la vita in un appartamento ai limiti della decenza!

- È più vicino all'università. Sto frequentando dei corsi, lo sai. E questa casa è troppo grande per me. Solo che è un peccato lasciare che diventi preda della polvere e dell'umidità.

- E quanto conti di tenere qui il ragazzo?

- Il tempo di riorganizzare la casa.

- E dopo potrai abbandonare di nuovo questo posto, fino al prossimo custode?

- Dopo mi laureerò e magari tornerò a vivere qui.

- Oh, certo. La tua terza laurea. Molto utile.

- Quarta. Non vuoi un caffè?

- Ce lo fa lui, il caffè? Non è che ci rifila qualche strana bevanda araba?

Amir sollevò la testa, piuttosto irritato dalla velocità con cui il signor Bowden parlava, velocità che evidentemente spiegava la sua totale assenza attenzione a ciò che gli usciva dalla bocca.

- Pakistana, semmai.- Rispose il signor Bennett. - No, il caffè te lo faccio io. Non è mica il mio cameriere!

- Non preoccupatevi, ci penso io!- Si affrettò a rispondere Amir, un po' per gentilezza, un po' per timore di rimanere da solo con lo sgradevole signor Bowden.

- D'accordo, grazie. Noi andiamo in salotto. L'altro salotto, intendo. Quello che hai già rimesso.

Si eclissarono, parlando ancora del teatro del signor Bennett. Frammenti della conversazione arrivavano ad Amir, mentre prendeva possesso della cucina. Il signor Bowden blaterava a caso e il signor Bennett discorreva con quella strana maniera che aveva lui di rivolgersi ai suoi amici, senza mai veramente arrivare al punto.

Lo conosco da meno di un mese e mi permetto già di giudicarlo, si rimproverò, anche se una parte di lui era piuttosto sicura di averci visto giusto. Il suo datore di lavoro era un elemento interessante della sua attuale situazione. Mi affida una villa enorme e completamente inservibile perché gliela rimetta in sesto, e probabilmente non ci verrà nemmeno ad abitare.

La voce di sua sorella si palesò tra i suoi pensieri: e allora? Ti paga bene! Potrai mantenerti egregiamente mentre fai l'università! Non è quello che volevi?

Lo sbuffo della caffettiera cancellò pensieri e voci.

- E così tu saresti il portinaio del vecchio maniero dei Bennett, eh?- Gli domandò il signor Bowden, quando Amir arrivò, portando il caffè. - Da quanto sei in Inghilterra? Non hai l'accento che hanno gli africani.

- Forse perché non è africano.- Rispose il signor Bennett, nascondendo un sorriso nella tazza di caffè.

- Sono qui da due anni, ma ho studiato inglese quando ero in Pakistan.

- Come sei finito nelle grinfie del vecchio Joel?

- Ci siamo conosciuti qualche tempo fa in un pub dove Amir lavorava part-time.- Spiegò il signor Bennett. - Un posto francamente atroce a Ilford.

- Un pub? Joel, sei davvero entrato di tua spontanea volontà in un pub?

- In realtà, no. È una storia lunga.

Il signor Bowden spostò lo sguardo dal suo vecchio amico ad Amir e lo squadrò per qualche momento. In quel momento Amir stabilì che, a dispetto dei suoi buoni propositi di civiltà e diplomazia, odiava di cuore il signor Bowden.

- E dimmi un po', ragazzo, ti sei accorto che lavori per un simpatico idiota, che invece di mettere a frutto la valanga di soldi ereditata da suo padre, ha deciso di buttarla via per tenere in vita quel teatro fatiscente?

- Io credo che...- No, non era saggio né educato partire con uno dei suoi comizi leggendari sull'importanza dell'arte e della cultura. Non lo era. Non con uno sconosciuto. - Io credo che il signor Bennett stia facendo qualcosa di ammirevole. Tiene molto a quel teatro. È facile usare i propri soldi per qualcosa che porta altro guadagno. È molto più difficile impiegarli per uno scopo meno utilitaristico ma più nobile.

Il signor Bowden soffocò una risata e si rivolse al signor Bennett, indicando Amir come se fosse stato qualcosa di molto buffo.

- Ma dove l'hai trovato? L'hai tirato fuori da qualche poema arturiano?

- Non tutte le persone sono tristemente materialiste come te, James.- Rispose il signor Bennett, mantenendo il suo sorriso quieto. - Personalmente, trovo l'idealismo di Amir piuttosto interessante.

- Beh, allora mi arrendo. Comunque, se vuoi salvare quel relitto di teatro, devi contattare Abigail. Mi ha detto che ti saprà suggerire qualche spettacolo, qualche compagnia che funziona e richiama pubblico. Ho il suo numero. Ti prego, chiamala. Guarda che lo sto dicendo per te!

- Vedremo. Ora finiamo la colazione senza pensare a questioni di lavoro.

- Quando mai pensi a questioni di lavoro, Joel?

- Più spesso di quanto tu non creda.

- Tu non lavori. Spendi la tua eredità per prendere lauree e fai finta di occuparti della gestione di un teatro che non ha motivo di esistere.- Il signor Bennett alzò le spalle e finì il suo caffè. - E tutto quel che tenti di farci va in fallimento dopo due giorni.

- Io sono uno scienziato. Non rientra nelle mie mansioni, capire qualcosa di teatro.

- Forse è per questo che il tuo teatro va di merda.

- Forse.

Il sorriso tranquillo del signor Bennett chiuse la faccenda. Poco dopo il signor Bowden finalmente si congedò.

- Grazie per aver sopportato con me la compagnia di James.- Il signor Bennett raggiunse di nuovo Amir, dopo aver accompagnato l'ospite alla porta, e tornò a sedersi. - È indelicato, rozzo e convinto di avere tutte le risposte del mondo.

- Non si preoccupi.

- Ma lo conosco da tanto. Lo so, forse penserai che è sciocco mantenere un rapporto traballante in nome dei vecchi tempi.

- Non lo penso assolutamente! Se si tratta di avere a cuore qualcosa o qualcuno, non posso che approvare. Che si tratti di amici o di teatri.

- Già.- Il signor Bennett tacque e prese a giocherellare con la tazza vuota. Aveva assunto un'espressione che Amir non gli aveva mai visto. Seria, venata di una malinconia quasi dolorosa.

- Ti sei mai chiesto perché mi ostino a volerlo tenere in vita?

- Beh, sì.

- E perché non me l'hai mai chiesto?

- Perché non erano affari miei.

- Io comunque te l'avrei detto.

Quest'uomo è peggio di un puzzle da un miliardo di pezzi tutti dello stesso colore, pensò Amir, chiedendosi se sarebbe riuscito a conoscerlo almeno un po', nei mesi successivi, o se avrebbe terminato il suo lavoro senza aver assolutamente capito nulla di quel fantasma gentile e distaccato.

- Vedi, il Sunflower mi è stato lasciato da una persona a cui devo molto.

Qualche momento di silenzio bastò a far riflettere Amir sul fatto che il signor Bennett gli aveva presentato alcuni amici, ma non aveva mai parlato con affetto di nessuno di loro. In quel momento, invece, era molto diverso.

- Quest'uomo, Arthur Headley, l'ho conosciuto perché tenne un seminario all'università, quando studiavo chimica.- Riprese il signor Bennett, senza concedere ad Amir di incrociare il suo sguardo. - Ci fece una serie di splendide lezioni sull'Umanesimo e il Rinascimento. Lui era come quei personaggi dell'Europa tra il XV e il XVI secolo di cui parlava. Letterato, scienziato, alchimista. Anche un po' mago, diceva. Finito il seminario restammo in contatto e lui si propose di aiutarmi con un esame complesso. Andavo a casa sua per studiare e restavo interi pomeriggi, e poi cenavo con la sua famiglia. Lui mi chiamava Benedict. All'inizio pensavo che si confondesse con il mio cognome. Non capivo. Ma poi mi spiegò che era il nome di un figlio morto pochi anni prima. Così mi lasciai ribattezzare. Tra tutte le sue mille arti e attività, Arthur trovava anche il tempo di gestire il Sunflower. Non ospitava molti spettacoli, ma sapeva sceglierli bene. Amava quel posto come se fosse stato un membro della famiglia anche lui.

- E lo ha lasciato a lei.

- Già. Quando è morto, nel 2001, sua figlia ha ereditato la sua biblioteca e io il teatro. Per questo non voglio disfarmene, nonostante mi porti via soldi e non riesca a gestirlo. Perché è appartenuto a qualcuno che mi era caro. La trovi una cosa stupida?

- No. È giusto.

- E per te questa è la parola definitiva, eh?

- Cosa intende dire?

- Hai notato quante volte usi il concetto di “giusto”, Amir? È la tua categoria per inquadrare il mondo.

Amir rimase in silenzio, un po' perplesso. Non aveva capito se c'era derisione o semplice curiosità, nelle parole dell'altro. Ma poi il signor Bennett gli fece un sorriso gentile, nel quale Amir non trovò traccia di disprezzo, e si rasserenò.

- Sono certo che anche altri le direbbero che sta facendo qualcosa di giusto.

- Chissà. Quando morirò di fame, forse potremo dire che invece era sbagliato.

- Non credo che morirà di fame.

- Perché ne sei così certo?

- Dovrebbe essere veramente bravo, per consumare tutta quanta la sua eredità.

Dopo essersi lasciato sfuggire quella battuta, Amir trattenne il respiro per qualche istante. Si rilassò quando l'altro fece una risata che durò abbastanza per dargli la conferma che quella piccola impertinenza non era dispiaciuta al signor Bennett.

- Grazie, Amir, mi sento rassicurato. Ora torniamo entrambi al nostro lavoro.

- Sì, io torno al mio.

- Mi stavi di nuovo prendendo in giro?

- Non mi permetterei mai.

Il signor Bennett rise di nuovo e Amir si ripromise di controllare meglio la sua tendenza a lasciarsi sfuggire commenti del genere. Tu sei tanto gentile, ma ogni tanto dici delle cose tremende senza nemmeno rendertene conto. Di nuovo la voce di sua sorella. Sì, forse era il caso di starci attento. Il signor Bennett era affabile, ma ciò non significava potersi prendere certe confidenze con lui. Era comunque un suo superiore. Non erano amici.

 

La cosa stupefacente di quella casa era la capacità di ogni stanza di inglobare interi mondi, trasformandosi in un guazzabuglio pazzesco, indipendentemente dallo scopo con cui era stata concepita in origine. Persino alcuni dei bagni erano diventati ammassi di cianfrusaglie più o meno funzionanti. Dei due salotti, solo uno era utilizzabile (quello più piccolo, dove il signor Bennett aveva ricevuto il suo amico.) La cucina era piuttosto sgombra di oggetti, ma la sala da pranzo era invivibile. Per non parlare della maggioranza delle camere da letto. Quindici stanze su tre piani. Un universo a parte.

Lo studio del signor Bennett era un capitolo speciale, ovviamente. Amir era partito da quello, pensando che fosse saggio cominciare dalla cosa peggiore. Peccato che avesse fatto male i suoi calcoli. Non esisteva una cosa peggiore: al peggio davvero non poteva esserci limite, e il peggio era stipato negli armadi, piazzato sugli scaffali più alti con forme di equilibrismo sorprendenti, infilato in ogni minimo spazio abbastanza vuoto. Il peggio era ovunque. E Amir si sentiva arreso, contro un simile nemico.

- Vorrei sapere com'è arrivato a questo punto.- Borbottò il ragazzo tra sé, arrancando tra le scatole ammucchiate in uno dei bagni.

- Potrei sapere cos'hai detto?

Amir si voltò di scatto, con un'esclamazione di sorpresa. Dietro di lui, il signor Bennett fece la sua risata cortese.

- Non volevo spaventarti. Cosa stavi mugugnando, prima, nella tua lingua madre?

- Oh. Mi scusi.

- Non sei obbligato a pensare in inglese, non preoccuparti.

- Mi chiedevo come ha fatto la casa a ridursi così.

- Me lo chiedo anch'io. Il tempo, la poca pazienza... Non lo so. È dal 2001 che non ci vivo. Chissà, magari le cose si sono animate e hanno fatto tutto questo caos da sole. La maggior parte delle stranezze che trovi in giro apparteneva ad Arthur. E questa non è una cosa da sottovalutare.

Amir si guardò attorno con un po' più di simpatia per quella rovinosa distesa di ogni cosa.

- Quei tappeti, lassù, erano del signor Arthur?

- Sì. Portati da uno dei suoi innumerevoli viaggi in giro per il mondo. Arthur ha vissuto qui, negli ultimi anni della sua vita, quindi la casa era diventata più sua che mia.

- Quella specie di... Uh... Collezione di clessidre?

- Non ricordo come mai sia qui, ma sono certo fosse sua.

- L'orologio a pendolo?

- No, quello era di mio zio. Se vuoi ti autorizzo a bruciarlo. Ce ne sono almeno altri quattro solo al primo piano, di orologi a pendolo. E non sono sicuro riguardo al secondo.

Amir rise, più che altro per arginare la nuova ondata di disperazione che lo stava assalendo.

- Signor Bennett, quanto pensa che io debba stare qui?

- Quanto ci vorrà per terminare il lavoro. Non preoccuparti.

- Ma non... Non è un problema per lei che un estraneo frughi tra la sua roba?

- Questo posto ha bisogno di ordine. Quindi non è un problema.

L'uomo si allontanò mormorando qualcosa tra sé, e Amir rimase da solo con la stanza piena di roba e la testa piena di pensieri. Incerto su quale dei due luoghi fosse più complesso da riordinare.

Stava esplorando il bagno-ripostiglio già da mezz'ora, quando si imbatté in un cesto di vimini, alto e stretto, incastrato sotto quello che un tempo era stato il lavandino. Quando riuscì ad aprirlo ci trovò quelli che sembravano costumi teatrali. Ne pescò qualcuno, più che altro per curiosità. Un mantello ricamato. Una corona con uno spesso velo nero. Una cotta di maglia. Cercò ancora, e quel che trovò fu qualcosa di solido, una forma complessa che non riusciva a decifrare. Quando l'oggetto venne alla luce si rivelò essere una lanterna di ferro battuto lavorato. La struttura rassomigliava ai rami di un arbusto, con foglie e gemme, e i vetri erano azzurro chiaro. Affascinato, il ragazzo la sollevò davanti al viso, sfiorandone i contorni delicati.

Lo sportello del lume si aprì all'improvviso.

La finestra si spalancò, come per un riscontro delle correnti d'aria, e un alito di vento, così vicino da sembrare il tocco di una mano, passò sul viso di Amir. Il ragazzo rimase immobile, a fissare lo stoppino bruciato della lanterna.

Sembrava assurdo, ma era certo che fosse appena accaduto qualcosa. Di importante, probabilmente.

Agitato senza motivo, si diresse in cucina, alla ricerca di un caffè e di un po' di riposo.

In cucina c'era il signor Bennett, che si alternava tra un microscopio e una brochure che illustrava le abilità di Abigail Corrigan, organizzatrice di eventi. Quando alzò la testa, vide la lanterna e parve scosso.

- L'hai ritrovata.

Amir realizzò solo in quel momento di averla portata con sé. La guardò con sospetto, senza capire come mai l'oggetto lo colpisse così.

- Ha un significato particolare?

- Arthur la teneva appesa fuori dalla porta. L'ho tolta quando è morto. Era significativa per lui.

- Devo rimetterla dove l'ho trovata?

- Mettila dove preferisci. Basta che non si rompa.

Il signor Bennett tornò a dedicarsi a ciò che stava facendo prima, per qualche secondo. Poi sollevò di nuovo la testa verso Amir e lo fissò, come lo stesse studiando.

- Dovrei provare a chiamare questa organizzatrice amica di James, secondo te?

- Potrebbe essere una buona idea.

Una brezza comparsa dal nulla agitò le tende della finestra socchiusa e le pagine degli appunti del signor Bennett abbandonate sul tavolo. La brochure di Abigail Corrigan scivolò sul pavimento.

- Potresti occupartene tu, Amir. Uno studente di letteratura è meglio di uno scienziato, alle prese con faccende teatrali.

- Ma io non so se...

- Te la caverai.

 

Posò la lanterna su uno degli scaffali del bagno quasi riordinato. La squadrò con occhio critico e non gli piacque affatto. La tolse da lì e la portò in giro per tutto il piano, incerto sul luogo a cui destinarla.

Finì per portarsela in camera. Ce l'avrebbe tenuta finché non le avesse trovato il posto giusto. Sua madre riponeva in camera propria, vicino al letto, tutto ciò che considerava di valore, per proteggerlo. Quell'oggetto meritava un'attenzione speciale. Anche se probabilmente il suo segreto era ormai andato perduto insieme al signor Arthur Headley.

 

 

II

 

- Secondo te, perché la gente paga i soldi del biglietto?

- Perché c'è qualcosa che desidera vedere?

- Sbagliato. Perché vuole vedere qualcosa. Quale sia il loro desiderio, poi, sei tu che lo decidi. Tutto sta nella tua abilità di guidare il loro bisogno, di indirizzarli a te facendo credere loro che ciò per cui stanno pagando è esattamente ciò che desiderano vedere. Uno dei principi base della pubblicità, ovviamente, ma nel caso del teatro, più che mai è importante andare a giocare sulle necessità di quelli che vuoi costringere a venire a vedere ciò che proponi.

Amir rimase muto di fronte a tanto eloquio. Un po' perché era sicuro di aver perso qualche parola lungo la strada (con tutto l'amore che nutriva per l'inglese, restava comunque la sua terza lingua dopo sindhi e arabo.) Un po' perché il senso di quel discorso gli suonava decisamente sbagliato. Perché lui quantificava tutto in termini di giusto e sbagliato, avrebbe detto il signor Bennett.

Bene, se era così, allora era certo che quel che la signorina Abigail Corrigan stava blaterando fosse profondamente sbagliato. E forse poteva funzionare per un grande teatro o per una qualsiasi altra forma di intrattenimento, ma il Sunflower era una cosa piccolissima, sfortunata persino in una città che traboccava di teatri e gente che li riempiva.

- Ho contattato per te alcune compagnie. Ti ho fatto una lista di otto nomi. Se sarai capace, riuscirai a preparare una buona stagione teatrale, a partire da settembre prossimo.

- Grazie.

- Tu ringrazi troppo. E parli troppo poco. Sei eccessivamente ingenuo e gentile per gestire qualsiasi cosa. Trova un modo di interagire più sicuro e le opportunità si moltiplicheranno. Togliti dalla testa che gestire un teatro sia una cosa romantica. Non ha niente a che fare con letteratura e poesia. Stai vendendo qualcosa, e sarà bene che tu riesca a farla comprare, se non vuoi fallire nel giro di tre mesi.

Lui fece un vago cenno di assenso con la testa, seccato dallo sguardo difficilmente leggibile della donna, e dalle sue parole anche troppo chiare. Non che non fosse abituato ai giudizi sprezzanti altrui. Ma non erano mai piacevoli.

- Hai capito quel che ti sto dicendo?

No, non aveva capito, perché si era perso a osservare la parete alle spalle della donna e la scaffalatura di legno bianco, ricolma di libri, suppellettili graziose, piccoli animali di vetro, candele e immagini incorniciate, disposte con una perfezione quasi irritante.

- Sì, certo, signorina Corrigan.

- Dio, non puoi essere davvero così. Non hai bisogno di ripetere il nome di chi ti sta davanti ogni tre sillabe. Non sei un servitore di qualche romanzetto di epoca vittoriana. Quando discuti con qualcuno per portare uno spettacolo nel tuo teatro, tu e lui siete alla pari. Chiaro?

- Certo.

- Tu guarda se devo mettermi a dare lezioni di marketing! Lo faccio solo perché so che lavori per un amico del mio partner. D'accordo, puoi andare. Per qualsiasi cosa puoi chiamarmi.

- Va bene.- Le sorrise e si alzò, tendendole la mano. - Grazie.

- Ringrazi troppo.

- Oh, mi scusi. Arrivederci.

Prese la lista e sparì dall'ufficio in fretta, sentendosi addosso una goffaggine inarrestabile, figlia dell'imbarazzo che quella donna imponente e sofisticata gli causava. Sulla soglia della stanza si fermò, colto di sorpresa da un rumore alle sue spalle – il crack secco di qualcosa che si spezza. Si voltò a guardare la signorina Corrigan, intenta a raccogliere un vaso di vetro rosso e arancio, rotto esattamente in due parti, come tagliato da una lama invisibile.

- Tutto bene?- Le chiese. Gli rispose uno sguardo furioso, lo sguardo di qualcuno che è stato disturbato all'improvviso in un momento privato – o almeno, questo sembrò a lui. Un secondo dopo era passato: Abigail Corrigan era di nuovo la persona di poco prima. Gli fece una specie di sorriso seccato e Amir si affrettò a sparire dall'ufficio. Sperò di non doverla incontrare più.

 

Avrebbe ricordato quelle giornate come una collezione di incontri complicati e compiti adatti a persone più estroverse e brillanti di lui. Forse la saccente signorina Corrigan non aveva tutti i torti: non era fatto per le pubbliche relazioni. I primi tre che aveva incontrato erano gestori esterni di compagnie, funzionari interessati a piazzare meglio possibile i propri spettacoli, e nonostante i consigli della Corrigan e del signor Bennett, Amir non era sicuro di aver effettivamente combinato qualcosa di buono. La quarta era una donnina con l'aria trasognata e qualche evidente problema di concentrazione. Con lei però si era trovato benissimo. Sua sorella gli diceva sempre che com'era bravo lui con i pazzi e i bambini, nessun altro. Non aveva mai capito se fosse un complimento o il contrario.

C'erano stati altri incontri, difficili e un po' meno difficili. E tante cose da decidere. Così, all'improvviso, da custode di una casa disabitata era diventato uno con la facoltà di prendere decisioni. Ma via via che i giorni passavano, accanto ai nomi sulla lista comparivano date dell'autunno successivo. Senza sapere bene come, stava davvero organizzando una stagione teatrale.

 

Nella sera più ventosa di un aprile particolarmente freddo - e l'Inghilterra era sempre e comunque troppo umida e gelida, per lui - Amir stava tremando, fermo sotto i tabelloni che annunciavano gli arrivi e le partenze dei treni alla stazione di Clapham Junction. Con tre borse ricolme di acquisti di vario genere, neanche troppo leggere. Pensando al signor Bennett con un po' di risentimento. Non aveva problemi a fare un po' di straordinario – praticamente la maggior parte delle sue attività erano straordinari. Solo che... Faceva freddo. Davvero tanto freddo.

Finalmente sul tabellone comparve la notizia gioiosa dell'arrivo del treno giusto. Bene, poteva smettere di soffrire il freddo da fermo, per cominciare a soffrire il freddo camminando e tenendo in mano un cartello idiota con il nome della persona che stava aspettando.

In un istante fu inghiottito da un'ondata inarrestabile di passeggeri, tutti più veloci, furiosi e determinati di lui. A un certo punto la sua piccola costituzione non poté rimediare alla collisione contro una montagna umana armata di un bagaglio da guerra. A evitargli un impatto con il suolo fu un tizio tutto sommato magro e non troppo alto, che però riuscì a tirare su Amir compreso di borse come se fosse stato fatto di carta.

- Molto piacere di conoscerla. Sono Clyde Wendell. Stavo venendo verso di lei, perché avevo visto il suo cartello. Poi però lei è sparito nella folla.

Amir rimase in silenzio per qualche istante, giusto il tempo di stabilire che Clyde Wendell non era il vecchio attore navigato, dai capelli grigi e l'aria saccente, che si era immaginato. Non poteva avere più di trent'anni. Aveva un bel viso, un sorriso piacevole e i capelli biondi legati in una lunga coda.

- Lieto di conoscerla. Io sono il... Segretario del signor Joel Bennett.

- Non ti dispiace se abbattiamo le barriere e abbandoniamo le formalità, vero? Chiamami Clyde e dimmi come ti chiami. Non sopporto questo genere di convenzioni sociali. Le persone sono semplicemente persone.

- Oh. Certo. Mi chiamo Amir.

- Amir. Molto bene. Che ne dici di prendere un caffè e discutere al caldo gli accordi per il nostro spettacolo?

Sorrise e lo prese sottobraccio, con tutta la confidenza del mondo, incamminandosi verso una delle uscite della stazione – cosa che Amir non gradì, ma sopportò per amore del suo lavoro.

Clyde Wendell aveva un eloquio fluviale e parlava di un sacco di cose che in teoria interessavano anche ad Amir, solo che il signor Wendell riusciva a renderle sgradevoli da ascoltare. Troppe parole.

- Dimmi un po', che genere di posto è, il Sunflower? Qual è il suo spirito, qual è la sua storia, e che tipo di persona è il suo proprietario?

Per un secondo Amir ebbe l'impressione che dietro la domanda di Clyde ci fosse qualcos'altro. Rimase in silenzio, a scandagliare gli occhi ridenti dello sconosciuto. C'era qualcosa di sbagliato in quella situazione, ne era sicuro, anche se non avrebbe saputo dire da dove veniva quella sensazione. C'era qualcosa di strano e confuso e molto sbagliato dietro gli occhi di Clyde Wendell, e...

Ti rendi conto di cosa stai pensando, vero? È solo un tizio chiacchierone, e questo non ti piace perché tu non sei in grado di relazionarti così bene con le persone più estroverse di te. Il problema sei tu, non lui.

- Un teatro poco usato.- Rispose, cacciando via le sensazioni.

- Questo è un po' triste, non trovi? Un teatro è un contenitore di meraviglie. Da secoli, alcune tra le più gloriose faccende umane avvengono nei teatri.

I caffè arrivarono, insieme alle bustine di zucchero. Clyde ne aprì una e la versò nella tazza di Amir, senza che lui avesse accennato di volere dello zucchero. Continuava a blaterare, qualcosa sul suo spettacolo, una rilettura del ciclo arturiano, e Amir non riusciva a impedirsi di avvertire qualcosa di stonato intorno a sé.

Quel tizio ha qualcosa che non va.

Il suo lato razionale redarguì quello intuitivo.

No, per davvero, aveva palesemente qualcosa di strano!

Smetti di pensare cose sciocche e concentrati su quelle serie. E reali.

Per esempio, il caffè era reale. Il peggior caffè di Londra. Una schifezza immonda bruciacchiata e accompagnata da un vago sapore di marcio.

La prima persona che incontrò in metropolitana, appena salutato (finalmente) Wendell, fu un tizio con la faccia vecchia e rugosissima, e i capelli ancora rossastri. Gli fece un cenno con la testa, nella direzione in cui era sparito Wendell.

- Robaccia.

- Come, mi scusi?

- Robaccia, quella. Meglio che tu prenda qualche precauzione.

L'ometto saltò giù meno di un secondo prima che le porte della metropolitana si chiudessero. Amir lo cercò con lo sguardo e non lo trovò più. La serata si faceva sempre più strana.

 

- Buonasera, Amir.

- Signor Bennett! Che ci fa qui?

- Che ci faccio in casa mia, dici?

Amir sospirò, mentre il suo datore di lavoro, sulla soglia di casa, gli offriva il suo abituale sorriso appena accennato.

- Di solito non viene in questa casa.

- Già. Ma avevo bisogno di alcune cose e mi sono attardato. Penso che ci dormirò. Sempre che la mia camera sia agibile.

- Non lo è, ma non si preoccupi, non lo è mai stata neppure la mia.

Il signor Bennet fece la sua risata quieta e lo seguì in cucina, osservando con interesse il processo di disposizione della spesa in dispensa e nel frigo.

- Potrei cucinare io, stasera.- Si propose il signor Bennett. - Anzi, credo che lo farò. Vai a riposarti. Dopo dovrai raccontarmi com'è andata con questo Wendell.

- È una persona sgradevole.

- Ti è sembrato poco affidabile dal punto di vista lavorativo?

- Non credo. Non penso sia un truffatore, e non saprei dirle se è un bravo attore o meno. Di certo non mi piace umanamente.

- Ho capito. Vai a metterti comodo, mentre preparo la cena. Non voglio che mi spii in fase creativa.

Amir obbedì e si allontanò dalla cucina. Pochi istanti dopo si sentì chiamare con una certa urgenza.

Si precipitò in cucina e lì trovò, con sua immensa sorpresa, il sorriso del signor Bennett con un'incrinatura dovuta ad un certo stupore e a qualcosa di simile a una goccia di spavento.

- Amir, questo burro l'hai comprato all'emporio Lovecraft?- Gli domandò l'altro, indicando il pacchetto del burro aperto, posato sul tavolo. Amir si affacciò sull'oggetto incriminato e fece un salto all'indietro, gridando come un bambino terrorizzato.

In effetti, terrorizzato lo era davvero.

Il burro si era sciolto per metà, ed aveva assunto un colorito verdastro decisamente poco sano. Ma la cosa peggiore era un'altra. Sciogliendosi, il burro aveva rivelato qualcosa al suo interno. Una specie di creatura, probabilmente. Una muffa parecchio avanzata, magari, o un insetto burrofago. Qualunque cosa fosse, era scura, viscida ed aveva dei piccoli tentacolini, che emergevano dalla sostanza sciolta e si agitavano nell'aria.

- Mi affascina molto. Quasi quasi me lo tengo e lo studio...

- No, la prego, no! Non sappiamo cosa sia, potrebbe essere pericoloso!

- Non temere l'ignoto, Amir. Solitamente è spiegabile dalla scienza.

- Non sono uno scienziato, signor Bennett, e l'ignoto mi ha sempre fatto paura.

- Come a tutti i poeti che si rispettino. Bene, per la tua sanità mentale getterò via quest'oggetto sconosciuto. E ti diffido dal tornare nel posto dove l'hai acquistato.

Amir annuì, mentre gli tornava in mente l'omino in metro. Robaccia, aveva detto.

C'è qualcosa che mi sta confondendo i pensieri, oggi, e sarà meglio che io non l'ascolti.

 

Quella notte sognò cose che per fortuna dimenticò prima dell'alba.

 

 

III

 

Il signor Bennett gli aveva dato l'indirizzo del teatro e qualche indicazione sommaria riguardo la sua ubicazione, e Amir era piuttosto sicuro di aver capito come arrivare al Sunflower. Alle dieci e quarantasette – ben diciassette minuti oltre l'orario nel quale avrebbe dovuto incontrare la signorina Raymond – Amir stava fissando sconfortato le chiavi del teatro, senza la minima idea di cosa fare.

- Ha bisogno di aiuto?

Una giovane donna gli si fece vicina: alta, con i capelli scuri raccolti in una piccola coda, un lungo cappotto turchese e la sigaretta accesa tra le dita.

- Ha mai sentito parlare di un teatro, in questa zona?

Lei sorrise e fece un cenno con la mano, indicando la facciata rovinata dell'anonimo edificio davanti a loro.

- Parla del Sunflower?

- Quello è il Sunflower?

La risata cortese di lei fu una risposta più che sufficiente. Amir si guardò attorno: era passato almeno quattro volte per quella piccola via. Il signor Bennett gli aveva dato qualche ragguaglio, ma non gli aveva detto di quella facciata screpolata, del portone di ferro verde rugginoso, delle scritte fatte da qualche vandalo lungo la parete. Si sarebbe aspettato una costruzione con un briciolo di dignità in più.

- Questo è l'ingresso principale del teatro. Ce n'è uno secondario in quel vicolo, a destra.- Spiegò la donna. - Scommetto che lei è la persona che stavo aspettando.

- Temo di sì. E dire che l'ho anche vista, seduta su quella panchina... Non ho assolutamente pensato che potesse essere lei!

- Non importa. Io sono Ophelia Raymond. Abbiamo parlato al telefono per il mio spettacolo musicale. Possiamo vedere il teatro, allora?

Il Sunflower li ingoiò. Oltre la porticina dell'ingresso secondario c'erano dei gradini da scendere: il teatro era sotto il livello della strada. Per trovare un interruttore della luce ci vollero innumerevoli minuti. Quando il buio sparì, il corridoio nel quale si trovavano s'illuminò di una miriade di luci verdi e viola.

- Ci sono venuta parecchi anni fa, quando ancora era aperto, sotto la gestione del signor Headley.- Disse la signorina Raymond, con un sorriso ammirato. - Mi ricordo queste luci non molto sobrie.

- Conosceva Arthur Headley?

- Non di persona. All'epoca parlai con la proprietaria del teatro, Esther Wilmore. Io ero una ragazzina, avevo il compito di gestire le relazioni pubbliche per la compagnia del mio liceo. La signora Wilmore era malata. Credo sia morta poco dopo. Mi disse che stava lasciando il teatro ad Arthur Headley, e che tutto ciò che mi poteva stupire, qui dentro, era colpa sua.

Amir immagazzinò con interesse quelle nuove informazioni. Per qualche ragione inspiegabile gli sembrava tutto così importante: quel posto, le persone che vi erano legate... Un'altra delle sensazioni che lo perseguitavano da qualche settimana.

Ophelia spostò la tenda rossa che li divideva dalla platea e lo invitò ad entrare. Era buio, eppure c'era una luminescenza che sembrava provenire da qualche parte, dietro il palco. Amir abbracciò con lo sguardo la sala dal soffitto alto, i cristalli dei lampadari, le orbite oscure che erano i palchetti.

- Da dove viene la luce?- Chiese la donna.

- Non lo so. Forse c'è qualche finestra aperta, nel retropalco.

C'erano degli ornamenti di stucco colorato, attorno alla bocca del palco, un intreccio ipnotico di onde che sfumava dal verde al bianco.

- Non ti sembrano le fauci di un drago?- Disse lei, indicando lo spazio davanti a loro. Amir ebbe la sensazione, all'improvviso, che quei ricami di stucco fossero davvero le squame dell'animale leggendario. Tutto il Sunflower assunse l'aspetto di una creatura massiccia e nobile.

- Sì. Anche se è un'immagine strana, per un teatro.

- È un drago che dorme. Quando ci sono stata la prima volta era sveglio. Adesso, invece, è in attesa.

Non aggiunse una spiegazione a quelle parole apparentemente insensate e lui non le chiese niente. Si stava abituando alle cose apparentemente insensate.

Proseguirono il giro del teatro, e Amir assorbì immagini e percezioni dal teatro senza elaborarle. Guardò ogni angolo e non si fermò a pensare a nessuno di essi. Non era un luogo bello né accogliente, tanto meno pulito. Soprattutto non era pulito. Eppure... Scendere nel sottopalco, per mostrare all'attrice i camerini, gli risvegliò un senso dell'avventura come quando da bambino si perdeva tra le case disabitate in fondo alla via, insieme a sua sorella. Dimenticò quasi la presenza di Ophelia, concentrato solo sui brividi di freddo e curiosità, le ragnatele sulle dita quando cercava gli interruttori, i frammenti di mura e scenografie sotto i suoi piedi. D'improvviso realizzò una semplice verità: adesso lavoro qui, vedrò questo caos affascinante ancora un milione di volte.

Fu solo quando ne emersero che si rese conto di una cosa. Senza alcun motivo, si era appena innamorato di quel posto.

Quando arrivò a chiudere la porta, notò la lanterna con i vetri arancio appesa lì fuori. C'erano strati di polvere e sporco, sopra, e un vetro era scheggiato.

- Ho bisogno di una serata adesso.- Ophelia lo riportò alla realtà.

- Ma ci eravamo accordati per dicembre. La stagione comincerà in autunno.

- Lo so. Posso rinunciare alla paga, se necessario, e mi occuperò personalmente della pubblicità. Ma ne ho bisogno. È importante. E non può essere in nessun altro teatro. Una serata sola. Sarà la riapertura del Sunflower. Per favore.

La guardò con stupore, toccato dall'urgenza che vibrava nella voce di lei. Era uno spettacolo teatrale: perché mai era così importante?

- Ne parlerò con il signor Bennett.

- Grazie. Sono sicura che comprendi, se ti dico che non può essere in nessun altro teatro.

- In realtà credo di non comprendere affatto.

Lei però fece un sorriso strano e scosse la testa, quasi volesse contraddire quell'ultima affermazione.

Prima di andare, Amir lanciò un ultimo sguardo al drago addormentato. Isolò l'edificio tra gli altri vicini, grigi e senz'anima, e gli sembrò un po' più bello che al primo sguardo.

 

Ad accoglierlo in casa ci fu solo il silenzio di quel luogo grande, umido e buio. Cercò di accende una luce, e prima che potesse riuscirci, qualcun altro gli venne incontro ed illuminò il corridoio per lui.

- Ehi. Ti sei perso?

C'era una donna dai capelli color miele, davanti a lui, spuntata dall'oscurità di altre stanze. Sorrideva, tranquilla come in casa propria.

- Uhm. Veramente abito qui.

- Lo so. Però capita di perdersi lo stesso anche se ci abiti, qui. Mi chiamo Angela. Sono un'amica di Joel.

Amir ricambiò il sorriso, tendendole la mano.

- Lieto di conoscerla. Io sono...

- Amir. Ti conosco di fama. Vieni, raggiungiamo Joel. Sta cercando qualcosa nel suo studio. Meglio andare a vedere quanto danno è riuscito a fare.

Quando raggiunsero il corridoio fuori dallo studio del signor Bennett, Amir dovette fermarsi, colto da una specie di vertigine.

- Signor Bennett.- Un sussurro disperato che sarebbe rimasto inascoltato.

- Qualcosa non va?- Gli gridò l'altro in risposta, dallo studio. Angela, dietro di lui, rideva sommessamente.

- Che è successo al corridoio?

- Sto cercando una cosa.

- Sì, ma tutte le altre cose che erano nello studio, come sono finite qui?

- Non ti preoccupare, ti aiuto a rimetterle dentro.

- No, grazie...

Il signor Bennett saltò in piedi su un mobiletto dall'aria malaticcia, che traballò violentemente sotto il suo peso.

- Secondo me quello è alla fine dei suoi giorni.- Commentò Angela, appoggiandosi allo stipite della porta. - Vieni giù e piantala di sentirti un ragazzino.

- A trentasei anni ti sembro vecchio?

- Con la tua accidia spaventosa mi sembri vecchio.

Il signor Bennett si decise a lasciar perdere la ricerca e scese dal mobiletto.

- Dimmi, Amir, com'è andato l'incontro di oggi?

- Bene. Però la signorina Raymond mi ha chiesto una cosa strana. Vorrebbe una serata adesso. Una sorta di inaugurazione del teatro, prima della stagione autunnale.

- Ah sì? Ti autorizzo a decidere se ti sembra opportuno o no.

- Joel, sei uno scandalo.- Commentò Angela. - La tua abilità nel delegare il lavoro è quasi una forma d'arte.

- Non esagerare, ora. Amir, vuoi salire qui al posto mio e cercare secondo le mie indicazioni?

- Ma lo fai apposta?

Amir spostò una pila di libri molesti e un paio di scatole, e raggiunse il signor Bennett per aiutarlo, ma la mano di Angela si serrò decisa sul suo braccio.

- Ora andiamo a cena. Basta lavoro, per oggi.

Lo disse con un sorriso e un tono che non lasciava spazio a repliche. Il signor Bennett si arrese e li precedette lungo la strada per la cucina.

Angela si attardò qualche istante, facendo capire ad Amir che gli voleva parlare.

- So che non mi conosci e forse non ho diritto di intromettermi, ma... Va tutto bene? Quando sei entrato, eri evidentemente preoccupato. Sono un'estranea, per te, lo so, e non ho il diritto di farmi gli affari tuoi. Ma conosco questa casa, il Sunflower e le loro storie. Non sottovalutare niente. Non rendere banale niente che non lo sia.

- Stavo solo pensando a certe cose che mi sembrano strane. Magari sono solo stanco. Quello che mi ha affidato il signor Bennett è un lavoro nuovo e difficile.

- Di cosa stai parlando?

- Non lo so. Solo sensazioni sciocche, probabilmente. E oggetti. Lanterne, luci dietro al palco, vasi che si rompono all'improvviso, mostri dentro al burro...

- Mostri dentro al burro?

- Mi scusi, dimentichi tutto quel che le ho detto!

- Amir, non sei in un luogo comune. E ci sono persone che entrano in risonanza con i luoghi e con le cose.- Nella luce soffusa del corridoio, Angela gli sembrò irreale come le sue parole. - Tu credi che esistano altre realtà oltre quella tangibile e immediata attorno a noi?

- Ho sempre dato una possibilità a tutto ciò che non si vede e non si tocca.

Angela si limitò a sorridere. Amir attese altre parole, ma non vennero. La donna gli fece cenno di proseguire verso la cucina.

- Mi sta dicendo che ci sono cose strane per davvero, attorno a me?

- Se vuoi metterla così...

 

Quella notte, in sogno, lo sentì, più che vederlo. Respirava nell'ombra alle sue spalle. Se faceva un passo, quello si muoveva appena, per non perderlo di vista. Se provava a voltarsi, però, l'ombra si infittiva e non c'era modo di penetrarla con lo sguardo.

Però c'era.

I suoi contorni erano confusi nell'oscurità, ma doveva essere immenso. E dormiva e vegliava al tempo stesso. Dormiva in attesa di qualcosa, ma teneva gli occhi puntati su Amir – per qualche motivo chiarissimo e fondamentale, solo che Amir non lo conosceva.

Dormiva e vegliava, e per quanto la sua grandezza fosse spaventosa, la sua forza aveva un che di rassicurante.

A un certo punto Amir smise di guardarsi indietro.

Nell'ombra, il drago continuava ad aspettare.

 

 

   
 
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