Quando avevo cinque anni volli imparare a scrivere a tutti i costi. Tornavo a casa con parole sulle mani ogni singolo giorno, ed assistevo perennemente alla mia voglia continua di capire come si facesse. Diventò naturale; ad oggi, non c'è giorno che io non abbia appunti e parole a marchiarmi i palmi. Quando avevo dieci anni non passava serata senza che io m'infilassi sotto le coperte delle mie storie, attaccata ad un vecchio computer e gli occhi stanchi. "Non riesco a dormire" dicevo; ad oggi, insieme alla luna e all'insonnia, i caffè e le sigarette fanno da cornice ai miei amati fogli e personaggi. Quando avevo quindici anni stavo male, molto male. Strappavo via i capelli ai quaderni di scuola, e affidavo loro l'impegnativo compito di ascoltarmi; ad oggi, sono i miei migliori amici e più fedeli soldati. Quando avevo diciassette anni portavo sempre con me un quadernino di pelle, rilegato a mano. Gli raccontavo i miei perché davanti alle nuvole di cartapesta e gli aeroplanini di fine ottobre. Ad oggi mi hanno regalato un pennino di piuma nera: il colore del mio sangue, di rosso soltanto sporco, che mi marca indelebilmente il Dna. Lui i sogni li crea, non li racconta soltanto. La penna è il prolungamento dei miei sogni, la raffigurazione della mia anima stanca, il mio terzo occhio. La scrittura è la mano di un Dio che mi ha concesso il beneficio d'essere, e come tale esistere all'interno delle storie che nascono. Sono un pezzo di loro. E dove la scrittura è lo spirito, da Lei attingo per farmi anima.