Torno dopo pochi giorni per regalarvi
un nuovo capitolo, visto che ho finito di scriverne un altro.
Ringrazio immensamente chiunque abbia
avuto il coraggio e la voglia di leggere il primo capitolo e chi, soprattutto,
si ritrova qui per il secondo.
Grazie anche a chi ha inserito Betulla tra i preferiti e le seguite,
davvero grazie.
E ovviamente grazie a nini superga che
ha commentato.
Buona lettura!
Betulla
02.
27 Febbraio 3019 T. E.
La notte aveva portato riposo ad
entrambi, ma non aveva alleviato gli incubi di Boromir. Continuava a rivivere
quel momento che aveva cambiato tutto e, nell'istante in cui Frodo spariva dalla
sua vista, si sentiva trafiggere da innumerevoli frecce. Quando si voltava per
incontrare gli Orchi e la sua morte rimaneva paralizzato. Aragorn e Legolas
avevano gli archi puntati contro di lui, e non vi era pena né compassione nei
loro sguardi. Solo la rabbia di chi si sentiva tradito da un amico. Puntualmente
si svegliava in un sobbalzo, senza respiro, gli occhi sbarrati e bagnati dalle
lacrime che, nel sonno, gli erano scivolate sul viso. Si portava la mano sul
petto, all'altezza della ferita della prima freccia, per rendersi conto che
fosse ancora vivo e che nessuno stesse vendicando la propria ira sul suo corpo.
Sentiva solo il battere incessante e veloce del suo cuore, ormai spezzato dalla
consapevolezza che non avrebbe potuto sistemare niente di ciò che aveva
distrutto.
Riprese fiato con precauzione, temendo
che i polmoni gli dolessero ancora. Ma non avvertì alcuna fitta di fastidio, se
non quel pressante peso al petto che non era certo dovuto dalle ferite fisiche.
Quando cercò con lo sguardo la donna di
nome Brethil e non la trovò fu assalito da uno strano senso di inquietudine.
Non avvertiva movimenti intorno a lui, né vaghi e lontani rumori di passi che
le sue orecchie da umano fossero in grado di udire. L'idea di ritrovarsi solo
lo turbò più di quanto potesse sopportare, ma non perché debilitato com'era non
poteva andare molto lontano né difendersi in caso di pericolo; piuttosto
sentiva quell'ombra minacciosa farsi più densa e vicina, insinuandosi nei suoi
pensieri, in ogni fibra del suo essere.
E questo lo terrorizzava.
Non voleva perdersi, non voleva
rischiare di cadere definitivamente in quel baratro nero e senza via d'uscita. Aveva
il forte bisogno di avere qualcuno accanto, che dissipasse le sue paure e lo
facesse ragionare, sputandogli in viso la cruda realtà, proprio come aveva
fatto quella donna la sera prima. Ma ora lei non c'era e quel vago supporto che
sperava di trovare una volta sveglio era da qualche parte in quelle terre,
lontano da lui.
Si rese conto di chiamare il suo nome
con urgenza solo quando finì di pronunciarlo. Rimase in perfetto silenzio,
immobile, finché non riprese a respirare nel vederla scendere le scale che
portavano all'alto Seggio, sopra la sua testa. Lo sguardo spaventato e
preoccupato di lei quasi lo commosse.
«Boromir! Ti senti male?» gli chiese,
precipitandosi verso di lui e controllando le sue condizioni.
L'Uomo scosse il capo, voltando lo
sguardo e capendo, con imbarazzo, di aver agito come uno sciocco. Che gli era
saltato in mente? Richiamarla come un povero disperato!
«Perdonami, non volevo farti
preoccupare.» disse Boromir, a disagio. «Mi sono svegliato e non ti ho trovata.
Era tutto così calmo che pensavo te ne fossi andata.»
Sentì la calda mano di lei stringere la
sua e per un attimo tutte le paure svanirono in quel gesto amichevole. «Sono
qui. Non vado da nessuna parte senza prima avvertirti.» Gli passò un fazzoletto
sulla fronte sudata e quello che Boromir vide fu il primo, lieve sorriso su
quelle labbra strette in una linea severa. «Ero andata a vedere il panorama
sulla torre. Il Seggio è un po' troppo grande anche per un uomo come te, ma è
comodissimo.»
Una breve occhiata alle scale, che
giravano intorno alla torre fino alla cima, e Boromir parlò. «Quanti gradini
sono?»
«Un numero che riuscirai a superare,
non prima di aver mangiato qualcosa.»
Brethil rovistò in uno zaino che aveva
recuperato dalle barche il giorno prima, e gli porse del lembas e qualche frutto, con dell'acqua. Poi servì la colazione
anche per sé e mangiarono in silenzio, finché quest'ultimo divenne
insostenibile. Non era mai stato un tipo loquace, soprattutto con le nuove
conoscenze e con le persone che sembravano così diverse da lui per cultura e
modi di fare, ma non sopportava più i pensieri che lo coglievano ogni qual
volta desse loro la possibilità di affollargli la mente. Ricordava quel lungo
periodo di sosta a Lothlórien, che gli parve infinito, solo con la sua mente e
con la voce della Dama Bianca che gli penetrava nel cervello, sussurrandogli
parole sconfortanti se la missione fosse fallita.
«Mi domando come stiano i piccoletti.»
Non ottenne risposta, Boromir. Non
c'erano parole che potessero aiutare l'Uomo a non preoccuparsi per la sorte dei
suoi amici, poiché avrebbe mentito nel rassicurarlo della buona riuscita della
missione di Aragorn. Così parlò Brethil. «Gli Hobbit sono creature più forti e
determinate di alcuni Uomini ed Elfi, sebbene la loro preoccupazione maggiore
sia quella di trovare cibo per le loro innumerevoli colazioni e della buona
erba pipa da fumare tra una chiacchiera e l'altra. E Aragorn ha prestato un
giuramento, difficilmente verrà a meno, a costo della sua stessa vita. Niente è
sicuro, nemmeno la nostra salvezza, ma è un pensiero rassicurante.»
«Lo so, ma vivere nell'ignoranza non mi
aiuta. Se fossi con loro, ad inseguire le tracce degli Uruk-hai, forse starei
meglio.» disse Boromir. «E se fossero scappati al momento del mio ordine magari
ora sarebbero salvi.»
«Non servono i "se" e i "ma".
Pensa invece che non sono fuggiti per non lasciare indietro un amico.»
«È stata follia, cosa credevano di
fare? Due Hobbit contro un esercito di Orchi e Uruk-hai!»
Brethil non si lasciò scoraggiare dal
tono alterato dell'Uomo. Invece sorrise. «Lo hanno fatto perché ti amano.»
Il Capitano della Torre Bianca non
rispose, chinando il capo e borbottando qualcosa d'incomprensibile tra sé e sé.
E rimasero in silenzio per parecchio tempo, come se fossero in quel colle
isolato in compagnia solo dei loro fantasmi. Finirono di fare colazione e
passarono subito a controllare lo stato delle ferite, che stavano guarendo
velocemente. Boromir era rimasto nella stessa posizione da quando avevano
raggiunto il Seggio della Vista per non rischiare di rovinare il lavoro della
donna, a discapito delle sue articolazioni che chiedevano pietà. Non era un
uomo abituato a stare seduto, ed essere costretto contro quella colonna scomoda
era umiliante, oltre che più faticoso di una giornata di cammino. Voleva
alzarsi, voleva andare a cavallo, combattere e seguire Aragorn; non voleva
marcire per i seguenti giorni come un malato qualsiasi.
Come se avesse capito i suoi pensieri,
la Dùnadan gli mise una mano sulla spalla, rassicurandolo. «Domani ci metteremo
in cammino. Devi solo avere un po' di pazienza.»
Pazienza. Come se lui ne avesse mai
avuta.
«Potremmo partire anche oggi. Posso
camminare, se solo tu me lo permettessi.»
«Non lo metto in dubbio, ma la distanza
che dovremo coprire a piedi non è molta. Proseguiremo a cavallo e non voglio
rischiare che andando al galoppo le ferite si riaprano.»
«Dove siamo diretti?»
«Non saprei. Siamo quasi a metà strada
tra Edoras e la tua città. Dove vuoi che ti porti?»
Messa in quel modo sembrava dovessero
fare una scampagnata. Ma quella apparentemente semplice domanda sollevò
parecchi dubbi sulle sue priorità. Da un lato c'erano gli Hobbit, portati
sicuramente verso Isengard, la stessa direzione di Aragorn, Legolas e Gimli, e
desiderava ardentemente seguirli per unirsi a loro con la ricerca; dall'altra
c'era il suo paese, messo a ferro e fuoco da anni, c'era suo fratello che
attendeva il suo ritorno, e come lui anche suo padre, i suoi soldati, il suo
popolo. Quale ardua scelta doveva compiere!
«Pensaci, hai tutto il giorno di
tempo.» disse Brethil.
«Non dovrei essere io a decidere. Hai
detto che proseguiremo a cavallo, giusto? Il destriero è tuo, fai ciò che più
ti aggrada. Ovunque decida di andare c'è comunque bisogno di me e il mio cuore
andrebbe da entrambi i fronti. Ma non possiedo, purtroppo, la possibilità di
dividermi in due.»
«Il destriero non è mio, ma delle genti
di Rohan. Servo sire Théoden e suo figlio da qualche mese, ormai. Anche se
ultimamente il Re si è... ammalato. Devo spesso rivolgermi a Théodred e al
cugino Éomer, poiché lui non è in grado di darmi risposte, né ordini.»
Boromir sembrò stupito. «Re Théoden sta
morendo?»
«No, ma è come se fosse già deceduto.»
disse Brethil, ritirando le foglie di athelas.
«Saruman ha esteso le sue dita anche su Rohan, paese confinante e temuto dallo
stregone. Ha avvelenato la mente di Théoden ed egli fa qualsiasi cosa lui
voglia, o gli dica di compiere il suo consigliere, Vermilinguo. Così, ha la
possibilità di attraversare la regione dei Rohirrim senza che questi abbiano
l'ordine di difendersi. Solo Théodred e Éomer prendono l'iniziativa, di quando
in quando, e attaccano gli Orchi che vengono dalle fornaci di Isengard.»
«È orribile. Non c'è niente che si
possa fare per fermare Saruman?»
Brethil scosse il capo. «Solo uno
stregone potente come lui potrebbe, ma è lui il Capo del Consiglio. Neppure
Gandalf il Grigio potrebbe dissipare il potere che lo soggioga.»
«Eppure Gandalf saprebbe come reagire,
ora me ne rendo conto.» sussurrò l'Uomo, ripensando al vecchio saggio che aveva
sempre osservato con un po' di riserve. Non gli era piaciuto al primo incontro,
né ai seguenti, quando Faramir correva da lui e spendevano ore chiusi in
biblioteca a parlare di argomenti per lui incomprensibili come l'Elfico. In
realtà non gli piacevano gli Stregoni in genere, e se in più questi erano
burberi e delle volte senza tatto, ancora meglio. Aveva capito la vera forza
d'animo del vecchio solo quando ormai non c'era più. «Ma, ahimè, sono trascorse
settimane da quando cadde nel buio mortale di Moria.»
La donna fece cadere di mano la ciotola
contenente la tisana e osservò con occhi spalancati il Capitano della Torre
Bianca. «Gandalf è caduto?» Ad un cenno affermativo dell'Uomo, Brethil si passò
una mano sul viso sfregiato. «È una notizia orribile quella che mi hai appena
dato.»
«Mi dispiace. Fu un duro colpo per
tutti noi. Avevamo perso la nostra guida, e un fidato amico.»
La vide alzare gli occhi al cielo e
osservare un paio di uccelli volteggiare sulle loro teste. «È da un mese,
circa, che non ricevo sue notizie.» disse la donna. «Lui fu l'unico a
perdonarmi per ciò che feci. Perché vide nel mio gesto del buono. Sapere della
sua dipartita mi fa sentire completamente sola, ora.»
«Non sei sola. Aragorn è tuo amico.»
«Lo era.»
Brethil si alzò e gli diede le spalle,
forse per nascondere il dolore e il rammarico nel suo viso. E lui provò pena
per quell'anima che come lui cercava il supporto degli amici.
«Non ti farebbe bene parlarne?»
Lei rispose con un'altra domanda, che
lo fece sorridere. «E tu non sei stanco di sentirmi parlare?»
«No, se odo racconti di battaglie e
guerre. Anche se, ultimamente, sto imparando ad apprezzare addirittura le
favole.»
La risata di lei, un suono rauco come
quello di una persona che non si divertiva da tempo, gli procurò sollievo.
Era vero, stava lentamente cambiando.
Se ne era accorto una volta partito da Gran Burrone, quando la compagnia di
Aragorn non diventò l'unica, e si appassionò agli Hobbit e alla loro vita, un
mondo così differente e distante dal suo che pareva davvero una favola. E poi
c'erano l'Elfo e il Nano, che più di tutti si odiavano e che, con il tempo,
erano diventati inseparabili amici, emblema di come la diversità non sempre
fosse un ostacolo.
Brethil gli porse una mano,
accennandogli il Seggio con un gesto del capo. «Andiamo, ti faccio sedere
comodamente, se proprio vuoi stancare la tua mente ascoltando la mia storia.»
Con un po' di fatica Boromir si ritrovò
in piedi e si poggiò per qualche secondo contro la colonna. Piegò le gambe per
sgranchirle, poi portò una mano sulla spalla di lei e insieme s'incamminarono
per la scala a chiocciola che portava all'alto trono. Non si rese conto,
l'Uomo, della pressione che esercitava sulla spalla di Brethil, quando qualche
movimento gli procurava dolore; né lei fiatò parole di fastidio, per evitare
che mollasse la presa e rischiasse, così, di cadere senza un appiglio a cui
aggrapparsi. Giunsero sulla cima della torre più velocemente di quanto Boromir
si fosse aspettato, anche se capì che salire tutti quei gradini dopo un giorno
di fermo fu l'idea peggiore che potesse venirgli in mente.
La vista da lassù era sensazionale.
Poteva vedere il grande letto dell'Anduin scorrere placidamente dopo le Cascate
di Rauros, il cui rombo giungeva nitido fin lì, così come le grandi vallate
collinose di Rohan, che si estendevano a perdita d'occhio, con i Monti Bianchi
in lontananza, un gigante impressionante anche da quella distanza. Più lontano verso
destra le Montagne Nebbiose, che da quel lato offrivano la vista di una massa
scura e compatta alle pendici - la foresta di Fangorn. In quelle terre, da
qualche parte, Aragorn, Legolas e Gimli correvano contro il tempo e contro le
loro forze, e lui era lì, impotente, che poteva solo tentare di indovinare dove
si trovassero.
Si sedette fiaccamente sull'enorme
Seggio scolpito sulla pietra, un lavoro di ottima fattura rovinato solo dalle
intemperie e dal tempo. Come aveva detto Brethil, era molto ampio e si sentì
minuto su quel trono, come un Hobbit che si accomoda sulla sedia di un Uomo.
«Quel posto da la sensazione di essere
il Re che guarda alle sue terre.»
Boromir accarezzò i poggia-gomiti e
sospirò. «Ma io non sarò mai Re, né avrò una terra da governare.»
Brethil non parlò, ma si limitò a
sedersi sul bordo della torre, lasciando le gambe a penzoloni, e continuò ad
ascoltarlo.
«Fino a poco tempo fa immaginavo la mia
vita futura e mi vedevo con il bastone bianco in una mano e lo stendardo dei
Sovrintendenti nell'altra. Ho sempre pensato che sarei stato un buon
governatore, anche se non al pari di mio padre. Lui è un uomo che ha a cuore la
sua terra più della sua stessa vita, e in cambio è amato tra la sua gente.» Tacque
per qualche istante, ripensando a come le cose fossero precipitate da qualche
anno a quella parte. Il padre sembrava diventare più inquieto e drammatico
giorno dopo giorno, e lo mostrava nelle sue parole e nei suoi gesti.
Arrivavano, poi, momenti in cui Boromir riconosceva a stento il genitore,
avvelenato da qualche ombra che gravava sulla sua persona. Ma lui lo amava e
confidava nella sua competenza, e si faceva carico di qualsiasi compito lui gli
ordinasse di eseguire. E Faramir con lui, sebbene suo padre sembrava
considerarlo inferiore rispetto al fratello. «Qualche mese fa avrei detto che
Gondor non avrebbe avuto bisogno di un Re. Un Re atteso per generazioni e che
mai giunse quando più ne avevamo bisogno. Il mio popolo ha da sempre difeso l'intera
Terra di Mezzo dall'oscurità di Mordor e tutti sembrano dimenticarlo, a volte.
E ci siamo riusciti con il sacrificio di tanti soldati e con la guida di
Sovrintendenti capaci e temerari, senza l'aiuto di alcun Re. Eppure ora mi
rendo conto che su quel trono che da troppo tempo è rimasto vacante, potrebbe
sedere Aragorn, che sarebbe la nostra guida migliore. Non io, né mio padre.»
«Ma saresti comunque un buon
Sovrintendente.»
Boromir rispose seccato. «E a cosa
servirebbe un Sovrintendente con un Re? Quella carica nacque per consigliare il
Re, ma si tramutò in una guida del popolo nell'attesa che il regnante tornasse.
Quando questo riapparirà, i Sovrintendenti svaniranno.»
«L'hai detto, potresti essere il
Consigliere del Re. Aragorn ti considera un amico e un fratello, a quanto ho
visto.»
L'Uomo chinò il capo e sospirò. Se
Aragorn glielo avesse chiesto sarebbe stato più che onorato di essere il suo
Consigliere e lo avrebbe servito in qualunque modo potesse. Per il suo Re. Per
un amico.
Poi Boromir si destò dai suoi pensieri
e sorrise. «Ma parlami di ciò che vuoi. Altrimenti rischiamo che s'invertano i
ruoli e dovrai sederti tu qui, per ascoltare me.»
«Io sì che non sarò mai una regina,
neanche sedendomi su un trono!» scherzò la Dùnadan, rabbuiandosi poco dopo.
Boromir rimase in silenzio e ascoltò la
sua storia.
27 Febbraio 3019 T. E.
Éomer sbatté frustrato un pugno sul
tavolo e il boccale di birra vacillò pericolosamente nel contraccolpo. Non avrebbe
mai creduto che le cose sarebbero peggiorate così velocemente, come un masso in
caduta libera da un monte. Era follia, pura follia che i confini della sua
terra non potessero essere controllati per il divertimento di un verme e le
volontà di uno Stregone che non avrebbe dovuto avere voce in capitolo nelle
decisioni del Re!
In piedi, alle sue spalle, stava
Grimbold, comandante che si era distinto nella Battaglia dei Guadi dell'Isen, combattuta
pochi giorni prima con onore e gravi perdite, che pesavano come macigni nei
cuori di tutti. «Mio signore, con il dovuto rispetto, vostro nipote ha ragione.
Non possiamo permettere che gli Orchi vaghino per il nostro territorio
liberamente. Inoltre siamo stati avvertiti che numerosi villaggi hanno subito i
saccheggi dei Dunlandiani. Hanno incendiato, depredato e ucciso. Per quanto
ancora questa situazione dovrà proseguire?»
A parlare fu un uomo pallido, curvo
sulla figura del Re, e ricoperto di una pelliccia nera, così come neri erano i
capelli lunghi. Gli occhi chiari scintillarono nel guardare il comandante e si
mise in piedi, sollevando il mento, provocatorio. «E cosa può sapere di cosa
sia giusto o sbagliato un uomo che, per la sua mancanza di ingegno e per
l'assenza di competenza in battaglia, ha aggiunto l'angoscia della morte di un
figlio ad una mente già colma di preoccupazioni come quella del nostro Re?»
«Théodred, pace all'anima sua, è morto
ucciso da una falange di Uomini e Orchi che si è infranta sulla sua éored con la stessa forza di un'onda
contro la roccia! Io stesso stavo per soccombere, ma ho tentato di difendere il
mio signore con tutte le mie forze! Non ti permetto di incolparmi con simili
menzogne!»
Éomer calmò il suo compagno e amico
sollevando una mano, e lo sguardo che rivolse a Vermilinguo, l'infame
Consigliere di suo zio, fu così penetrante che quello s'intimorì. «Pace,
Grimbold, non lasciarti intossicare dalla sua lingua velenosa.»
E avrebbe voluto aggiungere che sarebbe
arrivato il momento in cui gliel'avrebbe tagliata con le sue stesse mani;
allora sarebbe stato chiaro a tutti che l'unica cosa che gli riusciva meglio fosse
corrompere la mente di chi gli stava intorno.
Si alzò, poggiando le mani sul tavolo
in legno, la cui resistenza quella sera fu messa a dura prova dalla sua rabbia.
«Mio signore... zio, ascoltami. Gli Orchi e gli Uomini che stanno attraversando
le nostre terre portano il simbolo della Mano Bianca. Saruman è stato nostro
alleato, ma i giorni della pace sono trascorsi da tempo. Dobbiamo fermarli.»
«Insinui che il nostro vicino e alleato
stia muovendo un esercito contro il suo amico, il Re Théoden?» domandò Grima,
spalancando gli occhi chiari.
Ma Éomer non si preoccupò molto di
rispondergli, poiché sapeva bene che lo stesso Saruman l'aveva corrotto con la
promessa di dargli sua sorella - un altro buon motivo per strappargli anche
quei suoi sudici occhi, che troppo spesso si posavano avidamente sulla figura
di Éowyn. «Un alleato non invia spie e massacratori ad uccidere e distruggere
ciò che abbiamo costruito con fatica negli anni.» disse, duramente. «Mio
signore, abbiamo avuto notizia che un numeroso gruppo di Orchi abbia
attraversato il versante nord di Rohan, discendendo dall'Emyn Muil e diretto
verso Isengard. Dammi il permesso di riunire la mia éored, in modo che possa fermarli.»
Il Re mormorò qualcosa
d'incomprensibile, tanto che lo stesso Grima dovette chinarsi nuovamente per
ascoltare cosa il suo signore avesse da dirgli. Quello che un tempo era un Re
alto e fiero, dalla voce tuonante, pronta
ad incoraggiare i suoi Uomini nei momenti di difficoltà, ora era un vecchio
debole e incupito, che trascorreva intere giornate seduto sul suo trono,
immobile come una statua. Con lo sguardo vacuo e la mente altrove, era quello
il Re che Rohan si ritrovava in quei tempi bui.
«Saggia scelta, sire, la migliore che
potessi prendere.» gli disse, sorridendo. Poi alzò la voce, affinché tutti
udissero le sue parole. «Il Re ha deciso. Nessun soldato lascerà Edoras senza
la sua autorizzazione, perché Saruman è nostro alleato e non gli negherà il
permesso di passeggiare per le nostre terre. Chiunque osi infrangere la sua
parola verrà punito con la prigione. E, in caso di rivolta, con la morte.»
Con queste ultime parole, Grima guardò
Éomer, quasi come se stesse assaporando la vicina vendetta nei confronti di
quel giovane intraprendente e combattivo, che gli aveva procurato non poche
grane.
«Non sarà la tua voce a dettare un
ordine. Voglio un documento scritto di pugno e firmato dal Re, che mi provi la
veridicità delle sue parole.»
Il Consigliere ghignò e annuì,
chinandosi servizievole. «E un documento avrai, se lo desideri.»
«Dopo averlo costretto, con la poca
forza che ti serve per manipolarlo a piacimento, certo.»
«Non osare parlare in questo modo del
tuo Re!» esclamò Grima, sollevando un dito e puntandoglielo contro. «Egli ha
una mente per pensare e non ha bisogno di essere costretto in alcun modo nelle
sue decisioni. Troppe volte ho dovuto ascoltare i tuoi commenti denigratori, e
ti avviso, Éomer figlio di Éomund, che molto presto ne pagherai care le
conseguenze.»
Il Terzo Maresciallo del Mark strinse i
denti e lasciò la Sala del Trono con rabbia. Grimbold e altri due soldati lo
seguirono. Si rintanarono insieme nella Sala della Guerra, dove spesso si
riunivano intorno ad un tavolo, per decidere le prossime mosse in battaglia.
Gamling il Vecchio, un anziano ma saggio e forte comandante, controllò che non
vi fossero ascoltatori indesiderati, e richiuse le porte.
Éomer prese posto in una sedia
qualunque e lì rimase silenzioso e pensoso.
In quel momento giunse Éowyn, vestita
di blu scuro, segno di lutto per la recente perdita del cugino. Il viso pallido,
incorniciato dai lunghi capelli dorati, era bello, eppure segnato da malinconia
e preoccupazioni, crescenti giorno dopo giorno. Si avvicinò al fratello e gli
posò una mano sul braccio, riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Non vi darà il permesso, vero?» gli
domandò, conoscendo già la risposta.
«No, lo ha già negato.» fece lui,
coprendo la mano della sorella con la sua. «Quel verme ha nuovamente infangato
la sua mente e si ostina a difendere Saruman, appellandosi in nome della nostra
vecchia alleanza. Ma quale alleanza può esserci dopo tutto il male che ci sta
causando?»
«Saruman ha ingrandito notevolmente i
suoi poteri, e in peggio. È evidente che ci sia una coalizione con Mordor.»
commentò Elfhelm, Maresciallo del Re.
«Mithrandir stesso ne parlò, quando
giunse a chiedere rifugio. Ci raccontò che fosse stato tenuto prigioniero nella
torre di Orthanc.» proseguì Grimbold.
«Ma già da allora la mente del Re era
offuscata dai subdoli piani di quello Stregone, così che nessuno gli diede
ascolto.»
Éowyn osservò con preoccupazione il
fratello. E capì che il suo silenzio significasse l'elaborazione di qualche
piano per sbarazzarsi di Vermilinguo o di aggirare le sue parole.
«Gamling, quanti soldati sono dalla
nostra parte?»
Il Rohirrim ci pensò un poco prima di
rispondere. «La maggior parte, mio signore. Le éored dei presenti sono sicuramente con te, ma i cavalieri della Guardia
Reale temono che lo Stregone possa far loro del male.»
«Cosa pensi di fare, Éomer?» domandò
Éowyn.
Lui si alzò, guardando i suoi con
determinazione. «Non posso permettere che il nemico scorrazzi liberamente per
la nostra terra, né che un infimo servitore di Saruman detti ordini e sentenze
sulle nostre teste. Non temo le sue minacce, né quelle dello Stregone Bianco.
Noi tutti abbiamo degli obblighi nei confronti di Rohan, è la nostra terra! Ed
è nostro dovere difenderla dagli invasori e da chi osa allungare un solo dito
sulle nostre case. Io dico di radunare quanti più Rohirrim possibili e di
cavalcare verso quegli Orchi che battono le nostre lande. Dico di fermarli e di
trucidare qualsiasi essere respiri! Poiché esseri come quelli non hanno il
diritto di respirare la nostra stessa aria, né di calpestare le nostre praterie!»
I soldati annuirono e sorrisero,
rinforzati dalle parole di onore e coraggio del loro Terzo Maresciallo, nonché
ora unico erede al trono; e avrebbero gridato per caricarsi in vista della
battaglia, se non avessero dovuto abbassare i toni per evitare che qualcuno li
sentisse e scoprisse le loro intenzioni belliche.
Poi si voltò verso la sorella. «Sei
d'accordo con me, Éowyn? Ho bisogno anche del tuo saggio consiglio, in momenti
come questi.»
Lei annuì, alzandosi e prendendogli con
forza le mani grandi tra le sue. «Se fossi al tuo posto farei la stessa cosa. E
se mi permettessi di armarmi, cavalcherei al tuo fianco.»
«Non dubito che lo faresti, sorella
mia. Ma ho bisogno che tu resti, qui. Non posso rischiare di perdere anche te.»
«Riponi così poca fiducia nelle mie
capacità.» commentò amaramente la donna. «Io posso combattere, Éomer. Dammi
solo la possibilità di provarti che dico il vero.»
La determinazione e la testardaggine di
quelle parole riempirono il cuore di Éomer di orgoglio, ma non cambiò idea. Per
lui la guerra era di competenza degli uomini, e per quanto le donne di Rohan
imparassero da piccole a saper maneggiare un'arma in caso di difesa, era sicuro
che non avrebbero retto agli orrori del sangue e della morte, presente in ogni
angolo della battaglia. «Conosco una sola donna che combatte come un uomo, e
non è certo la nipote di alcun Re. Il tuo posto è qui. Prenditi cura di nostro
zio, in mia assenza, e bada a Vermilinguo. Ordinerò a qualche soldato fidato di
controllarlo, mentre starò via. E se dovesse osare avvicinarsi troppo a te...»
«Lo ucciderò senza batter ciglio,
Éomer.»
Il Terzo Maresciallo abbozzò un
sorriso, e le depositò un bacio sulla fronte, prima di richiamare a sé i suoi
Uomini con un cenno del capo. «Convocate i vostri soldati e preparatevi a
partire. Voglio che entro mezz'ora i cavalli siano pronti. Partiremo a
mezzanotte.»
E nel silenzio della notte, i quattro
soldati più influenti di Edoras si recarono verso gli alloggi dei Rohirrim.
Ognuno si premurò di sellare il proprio destriero, caricandolo con pochi
viveri, poiché non pensavano che l'azione sarebbe durata più di qualche giorno.
Sarebbero rimasti leggeri, per non stancare gli animali, e per non avere
seccature in battaglia. Nessuno di loro era intimidito dall'ordinanza del Re,
perché sapevano che quella fosse la cosa giusta; e avrebbero seguito il loro
signore Éomer ovunque, pur di onorare il loro codice e difendere ciò che era di
loro proprietà. Nessuna condanna di prigionia e di morte avrebbe potuto
fermarli, quella notte.
Così vennero radunati duecentocinquanta
cavalieri, avvolti nelle loro lucide armature e in sella ai propri veloci
cavalli. Lance e spade vennero alzate alla luna, fuori dai recinti di Edoras,
quando Éomer parlò. «Rohirrim! Troppo a lungo la nostra terra è stata violata,
e con essa la nostra anima! Andiamo in battaglia, annientiamo il nemico, e
facciamo regnare nuovamente la pace che con il sangue di migliaia di uomini
siamo riusciti a stabilire! Avanti, Eorlingas!»
E il rumore di centinaia di zoccoli,
misto alle grida di incoraggiamento dei soldati, fece tremare nelle proprie
brande chiunque li udì. E Grima Vermilinguo maledì Éomer e tutti quegli infami
che lo seguirono, ripromettendosi che gliel'avrebbe fatta pagare.
Cavalcarono sotto il cielo stellato,
lungo i dolci pendii di Rohan, e si avviarono verso nord-est, seguendo il corso
dell'Entalluvio e tenendolo alla loro destra, nella speranza di intercettare la
direzione che gli Orchi avrebbero preso per raggiungere Isengard. Fu un viaggio
allietato da canti di guerra e poesie sulla loro città, interrotto di quando in
quando dal silenzio più assoluto. Non potevano sperare di cogliere impreparati
gli Orchi, ma dovevano leggere qualsiasi indizio trovassero lungo la loro strada
e interpretarlo al meglio. Più volte Éomer scese dal suo cavallo, Zoccofuoco,
per controllare il terreno e cercare tracce del passaggio della numerosa carovana
di ospiti indesiderati; finché non trovarono ciò che cercavano. A circa centocinquanta
miglia dalla loro partenza, infatti, i segni evidenti del transito di un
numeroso gruppo di persone, dai piedi pesanti e borchiati di ferro stando alle
impronte, erano passati lì da meno di un giorno. Éomer, che cavalcava in
avanscoperta, accese una torcia, e così fecero anche altri soldati, e da quel
momento il silenzio si fece tombale. Con uno sguardo avanti e uno rivolto verso
terra, i Rohirrim cavalcarono velocemente fino all'alba. Fu solo quando
trascorsero due ore dal sorgere del sole che decisero di accamparsi per
sonnecchiare un poco e mettere qualcosa sotto i denti. Éomer era fiducioso,
poiché sapeva che, per quanta fretta quegli animali avessero e per quanto
fiutassero l'odore della loro carne, non avrebbero potuto scappare molto
lontano da centinaia di soldati che montavano i cavalli più veloci della Terra
di Mezzo. E guardando quegli stessi Uomini nobili e severi che si riposavano e
chiacchieravano, non poté non provare un senso di fierezza. Si rimisero in
marcia con l'animo entusiasta per la caccia, e cavalcarono veloci come solo i
figli di quelle terre sapevano fare. E dopo tre ore di galoppo videro una
macchia scura che si muoveva di gran carriera, tra le colline ingiallite.
Finalmente il nemico era in vista.
«Forza, Rohirrim! Cavalchiamo!» gridò
Éomer, alzando la sua lancia.
E come una marea inondarono il terreno
che li separava dagli Orchi, che diventavano man mano sempre più vicini,
nonostante si accorsero che avessero accelerato l'andatura.
Il sole stava per tramontare dietro le
Montagne Nebbiose e le ombre iniziarono ad incupire il cielo, e così la nera
foresta di Fangorn, ormai visibile ai loro occhi, quando finalmente raggiunsero
gli Orchetti. Éomer ordinò di serrare i ranghi, di modo che si disperdessero e
li conducessero lungo il corso del fiume, e diede il via agli arcieri di
scagliare le loro frecce sulle ultime file, più a portata di tiro. Ma la notte
giunse velocemente e prima che riuscissero ad accerchiarli, si fermarono.
Grimbold affiancò Éomer e osservarono
gli Orchi accamparsi su un piccolo colle, vicino alla foresta. «Non andranno
verso Fangorn, a meno che non si trovino costretti. Quella foresta è
maledetta.» disse il Comandante.
«Sì, ma non confido nelle loro
superstizioni. Preferisco finirli in campo aperto, piuttosto che rischiare che
trovino una via d'uscita da quel labirinto.» rispose Éomer. «Soldati,
preparatevi alla battaglia. Evitate di diventare un facile bersaglio e state
lontano dai tiri delle loro frecce e dai falò che stanno accendendo. Tenteremo
di coglierli di sorpresa, questa notte. Fate silenzio.»
Il cielo si oscurò velocemente e poche
stelle illuminavano quell'oscurità, causa anche di una foschia bassa che calò
su di loro. Un calma irreale s'innalzò nella collina e ai suoi piedi, come se
un gigante avesse trattenuto il fiato e stesse per riprendere a soffiare con
forza. La nebbia si abbassò fitta e densa, impedendo di vedere a pochi metri di
distanza. Éomer sussurrò i suoi ordini, e alcuni soldati si mossero a piedi,
silenziosi come ombre. Così gli Orchi posti a guardia vicino ai falò vennero
uccisi e i Rohirrim scomparvero velocemente com'erano giunti, mentre dall'altro
lato il nemico dava l'allarme e il panico dilagava.
E mentre gli Orchi tentavano di
riordinarsi e organizzarsi, i cavalieri giunsero al galoppo, impavidi di fronte
alle frecce che gli venivano tirate contro, pur di accerchiarli. Ed Éomer
gridò, e la sua imponente stazza fece tremare le vene ai polsi del nemico. «Gamling,
serra le fila a sinistra! Grimbold, blocca i fuggiaschi verso il fiume!»
Il clangore del ferro contro ferro, di
urla di battaglia e dolore, il sibilo delle frecce nella nebbia, invasero il
colle, poco prima immerso nel silenzio più assoluto. Molti degli Orchi vennero
uccisi o messi in fuga, ma una nuova onda di loro alleati giunse dalla foresta;
eppure i cavalieri di Rohan non indietreggiavano. I loro occhi terribili, a
dire degli Orchi, raccontavano di uno spirito combattivo che non si sarebbe
arreso facilmente.
Poi Éomer ordinò di tornare indietro,
nuovamente lontano dal cerchio di fuoco eretto dagli Orchetti. «Aspetteremo
l'alba, non manca molto ancora. Caricheremo da est, cosicché la luce del sole
possa infastidire i loro occhi. Al mio segnale aggireremo il colle, e torneremo
sul lato opposto all'assalto. Si disperderanno e allora li finiremo.»
«O lo farà la foresta per noi.»
aggiunse Elfhelm.
Il sole sorse due ore dopo e con la
luce giunse anche la speranza per gli Uomini. Suonarono i loro corni di guerra
e intonarono canzoni per salutare il nuovo giorno. E gli Orchi temettero per la
loro sorte. Udirono le grida di battaglia, terribili alle loro orecchie, e i
Cavalieri di Rohan s'infransero su di loro al galoppo. Come previsto da Éomer
molti Orchi tirarono frecce al nulla, accecati dalla forte luce dell'alba e dai
riflessi sulle lance e sugli elmi dei Rohirrim. Éomer gridò di mantenere
fermamente chiusa la formazione e gli Orchi, che videro giungere quella
barriera indistruttibile di cavalli e lance, abbandonarono i loro posti di
combattimento, sparpagliandosi e gridando. Alcuni Cavalieri caddero dai loro
cavalli, altri scesero per combattere corpo a corpo. Tra questi Éomer ingaggiò
una feroce lotta con quello che doveva essere il capo, poiché era forte e
grosso, e impartiva ordini a destra e a manca.
Quando il sole fu alto in cielo i
Rohirrim gridarono vittoria e i loro canti di gioia fecero fuggire i pochi
sopravvissuti verso la morte, nella foresta di Fangorn.
*
Note: piccola
precisazione: l'inizio del capitolo è ambientato il 27, mentre l'ultima metà,
quella sui Rohirrim, è compresa tra la notte del 27 e le prime ore dell'alba
del 29. Nel prossimo capitolo torneremo al 27, dove abbiamo lasciato Boromir e
Brethil.
Chiedo
scusa se questi passaggi da un ambiente all'altro possano sembrarvi ostici e
inutili, ma mi piace scrivere di qualcosa che magari non è stato approfondito
nel libro ma solo accennato nelle Appendici - oltre al fatto che scrivere di
battaglie mi diverte un mondo.
A
presto!
Marta