Follia d'amore e d'oscurità

di Sylphs
(/viewuser.php?uid=162627)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


CONVERSAZIONI NOTTURNE

 
 
 
 
 
 
La mattina dopo, svegliandosi, con i raggi del sole che penetravano prepotenti nella stanza e l’illuminavano, Irene ebbe difficoltà a credere vera la conversazione avvenuta tra lei e l’uomo misterioso chiamato R quella notte. In qualche modo era stata irreale e intrigante come un sogno, un sogno intenso ma non vero che le aveva lasciato addosso solo una vaga inquietudine e una fascinazione ancora più potente.
Mentre si vestiva e si spazzolava i capelli, tuttavia, si trovò a pensare alla promessa che lui le aveva fatto: sarebbe davvero venuto a parlarle ogni notte nel buio, come un vero fantasma? Era davvero inoffensivo come voleva farle credere? Perché aveva scelto proprio lei come conversatrice? E come mai non voleva mostrarsi a lei?
“Non lo scoprirò mai senza il suo aiuto” pensò, gli occhi azzurri pieni di decisione e di dubbio. Sì, doveva stare al gioco e parlare con lui. Voleva stare al gioco. Il mistero l’aveva sempre affascinata, ed ora che aveva la possibilità di svelarne uno, fremeva d’eccitazione e d’attesa. Non vedeva l’ora che arrivasse la notte.
Quando si presentò a suo padre, aveva un’espressione oltremodo posata e un incedere tranquillo, come se non fosse successo nulla, come se invece si fosse finalmente convinta che Heather Ville fosse disabitata. Lui era nella vasta sala da pranzo, seduto al tavolo coperto dal drappo rosso, intento a bere una tazza di tè e a leggere il giornale. La luce fioca delle candele nei candelabri illuminava le pagine. Quando la sentì entrare, sorrise: “Cara! Ben svegliata! Spero che tu abbia passato una buona notte”.
“Sicuramente è stata una notte strana” pensò Irene. Gli sorrise disinvolta: “Sì, papà. Sei mattiniero, vedo!”
Giorgio ridacchiò: “Oggi devo passare in città a svolgere alcune faccende, e per raggiungerla è sempre meglio svegliarsi presto. Andarci è una tal faticaccia! Sono felice di vederti così rosea e calma. Sei come al solito bellissima”.
Irene sedette di fronte a lui e abbassò gli occhi con modestia: “Grazie, papà”. Si allungò e prese una brioche alla crema dal cesto posato al centro del tavolo, poi chiamò Tommaso dalle cucine e gli chiese di portarle una tazza di cioccolata calda. Mentre aspettava, suo padre le chiese: “Ti và di venire in città con me, oggi? Sei chiusa qui da otto giorni, posso immaginare che ti manchi l’aria aperta”.
Irene prese in considerazione l’idea. Solo il giorno prima avrebbe accettato senza indugiare, ma adesso Heather Ville esercitava su di lei una tal fascinazione che separarsene anche solo per poche ore l’avrebbe molto innervosita. E poi come l’avrebbe presa R, che a quanto pare l’osservava per tutta la giornata dal suo nascondiglio segreto? No, meglio restare.
Quando rifiutò l’offerta, suo padre parve stupito: “Credevo che volessi rivedere quel ragazzo che ti piace tanto, quel Stephan”.
“Stephan!” pensò la ragazza sobbalzando. L’avventura notturna l’aveva momentaneamente allontanato dalla sua mente, e nel ricordarsene provò una morsa di nostalgia. La mano le corse all’anello che portava all’anulare. Stephan…le mancava? Sì, le mancava, ma non abbastanza da spingerla ad allontanarsi da Heather Ville. Anzi, preferiva di gran lunga aspettare che fosse lui a venire da lei. Fare il primo passo avrebbe chiarito troppo i sentimenti che provava per lui e svelarsi l’avrebbe infastidita. Se fosse andata in città, sapeva già come sarebbe finita: lei e Stephan sarebbero stati fermi uno davanti all’altra, imbarazzati e a corto di parole, per mezz’ora, poi lui le avrebbe chiesto timidamente se le andava di fare una passeggiata ai giardini pubblici, lei avrebbe detto di sì, e se ne sarebbero andati in giro mano nella mano come due bravi fidanzatini.
Stephan a volte era proprio noioso…non si riusciva mai a parlare sul serio, con lui. O era tanto timido da non riuscire ad aprir bocca, o non trovava argomenti di cui discorrere.
No! Povero Stephan! Non meritava una considerazione così bassa. Era un bello e bravo ragazzo che lavorava per garantirsi un futuro e che l’avrebbe corteggiata sul serio solo quando avrebbe avuto una posizione. Il suo riserbo significava che aveva un rispetto enorme di lei.
“Saluta Stephan da parte mia, se lo vedi” finì per dire a suo padre: “Ma io preferisco restare qui”.
“Come vuoi” fece Giorgio, ancora piuttosto stupito. E partì per tornarsene nella civiltà.
Irene, che ardeva di impazienza nell’attesa che calasse la notte sulla lugubre Heather Ville, si accorse, non senza un certo stupore, che Tommaso le gravitava spesso attorno con aria sospettosa e corrucciata. Si chiese, con un balzo di spavento, se sospettasse qualcosa, se sospettasse di lei, ma il domestico sembrava piuttosto perso. Non aveva visto nulla, si affidava solo all’istinto. Così, per persuaderlo ad abbandonare i suoi sospetti, la ragazza si comportò come sempre, passando il tempo a leggere, suonare l’arpa e riposare nella sua stanza. Nella sua mente, dietro al viso sereno, però, si agitavano tumulti interiori e pensieri.
Se R era un uomo in carne ed ossa e non un fantasma né una presenza soprannaturale, significava che le parlava per forza da un punto segreto della casa, un punto che doveva riprodursi ovunque, dato che aveva affermato di spiarla anche quando non era nella sua stanza. E non solo lei, anche suo padre e Tommaso. Viveva con loro, strisciava nell’oscurità con la stessa naturalezza con cui un verme avrebbe strisciato nel letame. D’istinto, Irene si guardò intorno nervosa. Come al solito, non trovò nulla nella stanza della musica, ma chi poteva dire che R non la stesse osservando in quello stesso istante?
“Non ci arriverò mai da sola” si disse, le mani impegnate a muoversi sulle corde frementi dell’arpa: “Devo scoprirlo parlando con lui”.
Ma poiché R si era mostrato così categorico e lapidario sulla questione del volto, era improbabile che si svelasse tutto d’un colpo. Doveva andargli dietro ed essere astuta e lucida, e sforzarsi di individuare il punto da cui proveniva la sua voce.
“R” mormorò, nel silenzio gravoso che gravava sempre su Heather Ville: “Che suono misterioso ha questo nome!”
Suo padre tornò quella sera, carico di pacchi e pacchetti che depose sul tavolo della sala da pranzo: “Ho incontrato quel caro ragazzo, Stephan” annunciò soddisfatto: “Mi ha detto di salutarti tanto e che verrà da te non appena avrà un po’ di tempo libero”.
“Ah” commentò Irene.
“Quando ti ho nominata gli si sono illuminati gli occhi” spiegò Giorgio: “Non ci vuole molto a capire che ti ama tanto. Tu lo ami, Irene? Sappi che non esiterei a darti la mia approvazione, se voleste fidanzarvi ufficialmente”.
La ragazza rabbrividì appena: “Stephan è un  bravo ragazzo ” mormorò: “Lo stimo moltissimo, ma non penso ancora al fidanzamento, papà. Ci devo riflettere”.
Suo padre alzò gli occhi al cielo: “Al tuo posto non me lo lascerei sfuggire”.
Più tardi Irene pensò più seriamente all’idea di fidanzarsi con Stephan. In fondo non era così brutta. Lui la amava davvero, il che era molto difficile di quei tempi, e la rispettava. Apprezzava il suo intelletto. Certo, non avrebbe avuto una vita esaltante, ma calda e felice. Si immaginò al fianco di Stephan, impegnata a costruirsi una relazione che forse sarebbe sfociata persino in qualcosa di importante. Forse, se le si fosse finalmente dichiarato, gli avrebbe risposto di sì.
Al momento di andare a dormire, Irene fu presa da una paura strisciante e immotivata, e d’improvviso non fu più così sicura di voler parlare con R. Si disse d’essere stata pazza a non denunciarlo, a mentire a Tommaso, a credere alle parole di uno spettro senza volto che le aveva parlato nel buio più nero, e sempre con una lieve sfumatura di minaccia nel tono di voce. Ah! Quella voce! Ricordandola, la povera fanciulla emise un gemito di terrore. Era più simile alla voce di una bestia che a quella di un uomo. Tutto di lui era spaventoso e indefinito. Chi poteva dire che non l’avesse ingannata, che sarebbe venuto quella notte per usarle violenza e magari anche ucciderla? Ah, era stata una folle! Doveva andare da suo padre, doveva confessargli tutto prima che fosse troppo tardi!
Poteva farlo, ma non lo fece. Una magia strana e inquietante ingiunse alle sue mani di chiudere la porta a chiave e alle sue gambe di condurla accanto al grosso letto polveroso. Ancora più spaventata, capì d’essere vittima di una sorta di sortilegio e che non se ne sarebbe liberata così facilmente.
“Forse non si farà sentire” pensò, con un misto di paura e di speranza nella voce, chiedendosi se la cosa l’avrebbe delusa oppure rassicurata: “Forse se ne resterà acquattato nell’ombra a fissarmi senza parlare”.
La cosa però era così terrorizzante che forse sarebbe stato meglio che si fosse messo a parlare.
“Povera me, perché sono capitata in questa casa così piena di segreti e di orrori?” si chiese cacciandosi tutta sotto le coperte come a volersi difendere da sguardi estranei e invisibili. Allungò la mano esile per spegnere la lampada, e quando tutto fu nuovamente in preda alle tenebre pastose, se ne restò accoccolata sotto alla coperta di broccato rossa, tutta tremante, col cuore che le batteva forte e le ronzava nelle orecchie, domandandosi se R si sarebbe fatto sentire, o il silenzio sarebbe rimasto fino al mattino. I minuti si susseguivano in una corsa lenta e sadica e lentamente la tensione di Irene si attenuava, sostituita da una sorta di impazienza nevrotica. Se doveva accadere qualcosa, ebbene, che accadesse!
Ad un certo punto, quando era in un bagno di sudore e non ne poteva più, balbettò con voce smozzicata: “R? Ci sei?”
Rimase in ascolto del nulla per un po’, poi, proprio quando era sul punto di convincersi che non sarebbe accaduto niente, la voce pacata e raschiante della notte prima rispose nell’oscurità: “Sì”.
Irene aveva sbagliato nel supporre d’essersi abituata. Udendo il suono spaventevole, sobbalzò sul materasso e cacciò un gridolino che tentò di soffocare tra le mani chiuse a pugno. Gli occhi le pizzicarono, gonfi di lacrime trattenute, e il tremore si decuplicò. Pateticamente si guardò attorno, ma sapeva che se anche ci fosse stata la luce non avrebbe visto nessuno.
“Hai ancora paura di me” sospirò la voce di R col tono più umano che gli riusciva: “Beh, è comprensibile, è solo la seconda volta che parliamo. Ma, Irene, dovresti fidarti quando ti dico che non intendo farti del male!”
“N-non ho paura” mentì la poverina che se ne stava tutta rattrappita sul letto: “È solo che pensavo che non saresti venuto” stava tentando disperatamente di riprendersi e di parlare con tono normale. R scoppiò nella sua risata agghiacciante: “Io mantengo sempre le mie promesse. Sempre”.
Anche stavolta non aveva l’aria di volerle fare del male. Irene si tranquillizzò un poco e si rilassò, sollevandosi un poco dai cuscini: “Volevo…volevo porti una domanda” disse infine, esitante. R le rispose con fare accondiscendente: “Chiedimi pure tutto quello che vuoi, purché non riguardi questioni di cui abbiamo già discusso. È mia intenzione recarti piacere in qualsiasi modo”.
La ragazza rabbrividì, chiedendosi se i doppi sensi in quell’ultima frase fossero stati volontari o se lui avesse solo voluto mostrarsi gentile nel suo modo singolare: “Ecco…volevo chiederti come fai a vedermi. Il buio è totale, sono certa che se anche fossi in questa stanza non ti vedrei ugualmente”.
R tacque per diversi minuti che Irene passò in soffocante attesa, piena di dubbi e di paure. Le avrebbe risposto, o si sarebbe chiuso nel silenzio? Alla fine il misterioso conversatore notturno senza volto parlò, spezzando il buio con la sua voce roca: “Hai presente i ciechi, Irene?”
La pallida fanciulla alzò un sopracciglio a quella domanda insolita: “Sì”.
“Ebbene” riprese R col tono d’un professore intento in una spiegazione: “Sai quindi che, poiché da tanto tempo non possono vedere nulla, sviluppano un udito assai superiore a quello di qualsiasi altro essere umano. Io, essendo rimasto nell’oscurità per anni e anni, ho sviluppato una vista superiore alla norma”.
Irene rifletté sull’affermazione per un po’. Non le trovava un senso logico. Ma si accontentò. Tutto ciò che poteva sembrare assurdo e irreale, se pronunciato da lui, assumeva significati più profondi. La ragazza si rese conto che lo spavento iniziale lentamente era scemato e che adesso era seduta ritta sul letto, incorniciata dalla chioma fluente, e che l’interesse e l’attrazione per il mistero s’erano risvegliati in lei: “Quindi” osservò un po’ scettica: “In questo istante puoi vedermi? Con precisione?”
Forse fu solo una sua impressione, ma le parve che R sogghignasse dal suo nascondiglio: “Proprio così. Sei una visione molto gradevole. Indossi una camicia da notte bianca con un fiocco sul collo, con una macchia all’altezza dei fianchi, e i tuoi capelli sono in avanti sul petto”.
Irene sussultò, dato che effettivamente indossava quella camicia da notte e aveva i capelli disposti in quel modo. Lo spavento si riaffacciò: “Impossibile…” sussurrò. R proruppe nella sua particolare risata: “Non così impossibile. È incredibile di cosa sia capace un essere umano che passa un po’ di tempo solo, a testare le sue capacità. Se tu restassi qui, Irene, sono certo che scopriresti aspetti interessanti su virtù nascoste che non credi di possedere. Con questo certo non voglio dire che tu non ne possegga già molte”.
Irene ignorò il complimento: “Tu che possiedi qualità così strabilianti…come mai non hai deciso di mostrarle in giro? Sono sicura che in molti le avrebbero trovate interessanti, come me”.
Ancora una volta ci fu una pausa di silenzio. Irene aveva incominciato ad abituarsi, e sapeva ad intuito che era perché R non era particolarmente incline a rispondere. Alla fine, però, lo fece, stavolta con evidente reticenza: “Mettiamola così, Irene…a volte le buone qualità non bastano a cambiare l’opinione che ha di te il mondo”.
Quel messaggio ambiguo la lasciò ancor più confusa: “Che vuoi dire?”
“Niente che potresti capire” ribatté lui brutale: “Non era questo il tenore delle conversazioni che mi aspettavo. Io voglio che tu mi racconti di te. Voglio sapere tutto di te. Di me ne ho abbastanza. Avanti, parla!”
Gliel’aveva detto come un ordine. Un ordine cui non poteva, e non voleva rifiutarsi di obbedire: “Ecco…sono nata in una città poco lontana da qui, circa diciotto anni fa. Mio padre era un ricco banchiere e mia madre una donna bellissima e distante. Ho passato l’infanzia nella residenza della mia famiglia e alla scuola privata, conducendo una vita dorata e monotona” si interruppe con le guance tinte di rosso, imbarazzata. R, che l’aveva ascoltata avidamente, le ingiunse: “Continua!”
“Avevo pochi amici perché anelavo alla solitudine e alla lettura. Passavo i pomeriggi liberi nella biblioteca di casa, intenta a divorare libri su libri. Soprattutto gialli. Mi figuravo un avvenire ricco di avventure e di mistero, ma gli anni si susseguivano uno uguale all’altro ed io mi sentivo…spenta” si rese conto con un trasalimento che stava confidando cose che non aveva mai detto a nessuno. Eppure il sortilegio la spingeva a parlare, era incatenata alla fascinazione che il mistero esercitava su di lei: “Poi, pochi mesi fa, mia madre morì di malattia, e la mia vita subì un violento mutamento. Mio padre, che prima di questo funesto avvenimento aveva amato immensamente la vita di città, così ricca di intrattenimento e di socialità, prese a desiderare invece la solitudine e l’isolamento. Così decidemmo di trasferirci qui”.
Alzò le spalle: “Questo è tutto”.
R attese un poco prima di rispondere. Sembrava colpito: “È una storia davvero interessante! Quindi tu preferisci la solitudine di Heather Ville alla confusione della città da cui provieni?”
“Beh…a parte certi aspetti della cosa, immagino di sì…”
“Ci trascorreresti il resto della tua vita?”
Una domanda simile la fece rabbrividire. Passare il resto della vita nell’atmosfera oscura di Heather Ville? No, neanche lei ne sarebbe stata capace: “Credo che alla lunga questo clima malsano non sia di giovamento alle persone” rispose cauta. Per tutta risposta R ridacchiò in modo sardonico: “Già, già, in effetti è così…però, Irene, sappi che dopo un po’ di tempo questa dimora diventa…magica. Non percepisci anche tu l’enorme aura di mistero che l’avvolge? Questa casa è viva. Mi parla, con gli scricchiolii del pavimento e il rumore dei cristalli del lampadario in sala da pranzo che tintinnano, e gli stessi fruscii che produco strisciando nel buio. Sì, questa casa ha una sua anima, e io ne faccio parte! Heather Ville è mia! È il mio rifugio, il mio corpo, la mia dura scorza che mi nasconde al mondo esterno. Io non posso esistere senza Heather Ville, ed Heather Ville non può esistere senza di me. Nessuno riuscirà a mandarmi via da qui, e nessuno potrà restare qui dentro finché lo deciderò io!”
Irene ascoltava quel discorso, in apparenza un delirio, con il solito misto di paura e di attrazione. Riusciva a capirne il senso, anche se era inquietante e folle e sconclusionato: “Credo di riuscire a capirti, R” disse infatti: “Ma non posso negare di trovarla un tantino inquietante. E poi, a quanto dici…” esitò, per timore di esprimere la sua paura più profonda. Alla fine si decise, non avrebbe sopportato di restare nel dubbio: “Se non tolleri che altri condividano con te questa dimora, perché hai permesso a me e a mio padre di rimanere?”
Attese col cuore in gola. Vedeva poche ragioni per cui R avrebbe dovuto lasciarli restare, ma forse l’avrebbe sorpresa come era suo solito.
“Come vorrei che tu non mi credessi così crudele!” sospirò lui, e nel suo accento c’era una così scorata tristezza che Irene si sentì assalire dalla pietà: “Mi credi davvero capace di una cosa simile, scacciare un essere puro come te? Ah, non credere che non sarei in grado di farlo…” aggiunse come se stesse parlando a se stesso: “Ma la questione è che io non voglio farlo. Quando entrasti da quel portone, quando sentii il rumore, ero furioso. Come osavate violare la mia dimora? Poi però ti ho vista. Tu possiedi una sorta di magia, Irene. Nessuno oserebbe mai farti del male dopo aver visto i tuoi occhi. Non avrai mai nulla da temere da me. Per quanto riguarda invece il vecchio e l’imbecille…” la sua voce assunse un che di minaccioso: “Sarei tentato di toglierli di mezzo con enorme piacere”.
“No!” esclamò la fanciulla, gli occhi spalancati: “Ti prego, non fare del male a mio padre! Soffrirei terribilmente se ciò accadesse!”
“Se dici così, allora non lo toccherò” disse R: “Ho già detto che è il mio desiderio più grande recarti piacere in qualsiasi modo. Sarei davvero un pessimo padrone di casa se ti facessi soffrire! Farò come vuoi, lascerò stare il vecchio”.
In quelle parole si avvertiva un tale sforzo nel superare i propri desideri che Irene non poté che rimanerne toccata. Commossa, rivolse all’oscurità un tenero sguardo: “Hai un animo molto nobile, R” sussurrò, piena di fervore e di sincerità. Tese le braccia al nulla: “Ti prego, mostrati a me! Irene guardandoti non potrà che abbracciarti e ringraziarti della tua ospitalità!”
Se il giorno prima il rifiuto era stato categorico, stavolta ci fu una lunga pausa piena di desiderio e di esitazione. Irene restava immobile con le braccia tese e il viso atteggiato ad un sorriso. In quel momento non c’era qualcuno più sincero di lei, era davvero grata ad R e bruciava dalla voglia di scoprire quale fosse il suo volto, il volto del tenebroso cavaliere che parlava con lei nelle tenebre.
Infine R si fece sentire, con una voce contratta come se si stesse trattenendo dal piangere o dall’urlare: “La tua gratitudine mi è di un conforto che non puoi neanche immaginare. Ma, perdonami, ti imploro, mia cara Irene, se non mi mostro a te. Oh, non credere che non lo vorrei! Ma…non posso. Tuttavia mi ritengo soddisfatto: aver ricevuto il tuo tenero sguardo è stato sublime”.
Lei si sentì prendere dalla delusione cieca. Lui le sfuggiva ancora, si ostinava a restarsene nascosto nel buio! E probabilmente lo faceva con bene: era davvero conquistata dalla sua voce insinuante e dai suoi modi insieme timidi e feroci, aggressivi e galanti. Chinò il capo: “Rispetto i tuoi voleri, come tu rispetti i miei” mormorò dimessa.
“Grazie” fece lui sollevato: “Ora, però, è meglio che tu riposi, Irene. Vedo che sei stanca, non intendo certo sfinirti. Non voglio che le tue fresche guance deperiscano. Tornerò domani notte, e spero che tu sarai lieta del mio arrivo”.
“Se sarò lieta!” gemette lei, protesa verso l’oscurità come un assetato proteso verso una cascata: “Perché devi andartene? Resta qui! Non ho bisogno di dormire! Non ho bisogno di riposo! Proteggimi, R, ti prego, e confortami con la tua voce! Io ho bisogno di te!”
Si accorse, stupita, di avere il viso rigato di lacrime. Era in preda alla magia, non voleva che se ne andasse, desiderava la sua voce e desiderava la sua presenza. Era attratta da lui nel modo morboso in cui la preda è attratta dal predatore.
“Buonanotte, Irene” le sussurrò soltanto R, prima di dissolversi in una folata di gelido vento notturno, lasciandola ancora tremante per la dolcezza con cui la sua voce rude aveva pronunciato quella frase. Irene rimase a lungo seduta e ansimante, sperando di poterlo sentire di nuovo, ma l’unico conforto che le restò fu che forse lui era ancora vicino a lei, e vegliava su di lei senza farsi udire.
“Buonanotte, R” bisbigliò prima di sprofondare nel sonno per sognare com’era davvero il suo misterioso amico.
 
Il giorno e la notte erano divenute ormai due cose molto distinte. Il giorno era per lo più la normalità che aveva sempre conosciuto, fatta di abitudini e di tranquillità, un trascinarsi avanti nelle ore tra un intrattenimento e l’altro, la notte invece si era trasformata in un mondo misterioso e fantastico popolato di presenze sinistre e di fascino. La notte era il mondo di R, il momento in cui Heather Ville acquisiva davvero una sua anima, che di giorno si addormentava stanca.
A colazione, seduta sola al tavolo coperto dal drappo rosso, Irene inzuppava pigramente una brioche nella tazza di cioccolata fumante e ripensava con rimpianto e impazienza al suo strano amico. Le sembrava di percepire la realtà che la circondava con una sorta di apatia, con un così scarso interesse che spesso si sorprendeva a fissare il vuoto assente. Come stregata, il buio che all’inizio tanto la inquietava aveva preso lentamente ad affascinarla, e a spingerla a tenere le tende chiuse e le lampade spente. Sebbene fosse mattina, la sala da pranzo era completamente avvolta dalle tenebre e l’unica luce proveniva dalle fiammelle del candelabro che le stava accanto. Irene non era affatto disturbata da ciò, anzi, provava uno strano senso di protezione. Sopra la sua testa i cristalli luccicanti del lampadario trillavano appena e creavano una melodia misteriosa e inquietante.
“Perché resti in questo buio, signorina Irene?” disse di colpo la voce insospettita di Tommaso, sorprendendola. Sollevò lo sguardo e scorse il domestico che entrava in sala da pranzo con aria di disapprovazione. Andò alle finestre e aprì con decisione le tende di broccato. I potenti raggi di sole che penetrarono dentro le ferirono gli occhi e d’istinto se li schermò, infastidita. Tommaso si avvicinò al tavolo per portar via la tazza vuota e si soffermò un attimo accanto a lei, scrutandola attentamente. La ragazza, a disagio, sentì spontaneo evitare l’occhiata.
“Con chi stavi parlando questa notte, signorina?” volle sapere Tommaso. Irene ebbe un sobbalzo e venne presa dal terrore. Possibile che il domestico invadente avesse sentito la sua conversazione con R? Presa dal panico, balbettò: “Con nessuno. Cosa dici, Tommaso?”
Lui aveva l’aria di uno a cui non veniva raccontata giusta: “Stavo passando davanti alla tua porta per prepararmi un bicchiere di latte e ho udito la tua voce che parlava. Non ho sentito cosa hai detto, ma era come se parlassi con qualcuno”.
Irene, che non desiderava, per nulla al mondo, che lui si mettesse in mezzo alle magiche conversazioni con R, mentì con naturalezza: “Devo aver parlato nel sonno. A volte mi capita. Con chi credi che avrei dovuto parlare?”
“Ah, questo devi dirmelo tu” la aggredì lui. La fanciulla avvampò per la collera: “Cosa stai insinuando?! Che io mi chiuda in camera da letto con un uomo? Sono una  brava ragazza, io! Non mi chiudo in camera con nessuno! Dovresti vergognarti di avere un’opinione così bassa di me!”
Si era molto accalorata nel discorso, ma le parve che Tommaso non si vergognasse affatto delle sue insinuazioni, anzi, che si insospettisse ancora di più. Finì per farle un cenno del capo: “In questo caso mi scuso, signorina”.
Irene lo seguì nervosamente con gli occhi mentre se ne andava. Il cuore le palpitava spaventato e teso. Era certa che Tommaso avrebbe continuato a spiarla. Che arrivasse a mettersi a origliare dalla porta la notte per scoprire i suoi incontri con R? Certo, lei non faceva nulla di male, ma sarebbe stata una catastrofe se il domestico si fosse accorto della presenza del suo amico. Avrebbero provato a fargli del male…e lei non poteva permetterlo. Il suo misterioso conversatore notturno doveva restare solo suo…forse avrebbe dovuto fare in modo che suo padre passasse per la sua stanza quella notte, così, scoprendo Tommaso davanti alla porta, l’avrebbe scacciato credendolo un profittatore. Ma no, nemmeno il domestico impiccione meritava un licenziamento così ingiusto.
“Dovrei forse smettere di parlare con R?” si chiese: “Ma no, no, non posso! Non adesso che sono così vicina! Se solo potessi trovare il modo di tenerlo occupato o di dissimulare i suoi sospetti…”
Le venne l’idea durante il pomeriggio dopo ore che era in trepidante riflessione. Quando tornò suo padre, gli andò incontro nell’atrio: “Papà, c’è una cosa molto importante che devo chiederti. Un…favore”.
Lui sorrise indulgente e le prese le mani: “Ebbene, tesoro, dimmi pure. Se mi sarà possibile farò ciò che posso per renderti piacere”.
Irene sfoderò il suo sorriso più dolce e più implorante: “Mi sono dimenticata in città un libro che tenevo in gran conto. Ragione e Sentimento. Potresti mandare Tommaso lì a prenderlo? Così avrà l’occasione di parlare un po’ con la gente e di passare qualche giorno in mezzo alla vitalità. Poveretto, è più di una settimana che lavora instancabilmente qui dentro!”
Giorgio assunse un’espressione poco convinta: “Mandarlo in città? Credi davvero che sarebbe saggio lasciare Heather Ville senza un governante? Nello stato in cui è? Potrei benissimo andare a prenderti io quel libro quando torno in città”.
“No, non credo” ribatté lei sicura: “Non ti scomoderei mai per questo, papà. E poi a dir la verità del libro mi importa poco. In verità sono seriamente preoccupata per il povero Tommaso. Lavora così tanto e ha così poche occasioni di fare conversazione! Se già io che amo la solitudine sono disturbata dal clima di Heather Ville, figurati lui che ha sempre adorato la vita mondana. Sta facendo così tanto per noi, papà! Concedigli questa piccola vacanza. Sono certa che quando tornerà sarà più reattivo e lavorerà meglio. E poi, tra me e te” soggiunse con tono confidenziale: “Temo che la vita qui non gli giovi. A volte sostiene di sentire e vedere cose del tutto insensate!”
Se c’era una dote che era sempre stata certa di possedere, ebbene, era quella di far fare alle persone quello che voleva. Sapeva parlar bene sia con le parole che con il corpo e conosceva le leve da usare per raggiungere il suo obiettivo, specialmente se la persona da convincere era suo padre o Stephan. Giorgio infatti dopo il discorso appariva insieme conquistato dalla sua apprensione umana nei confronti del domestico e contrito d’essere stato così crudele da non averci pensato: “Diamine, hai ragione! Come farei senza di te, Irene? Povero Tommaso! Lo farò partire immediatamente e gli darò una somma di denaro con cui potrà fare compere. Grazie per avermelo fatto notare!”
“Di niente, papà. La salute di Tommaso è di estrema importanza per me” rispose lei con un sorriso a metà tra il raggiante e l’innocente. Dentro si congratulava con se stessa per essersi liberata facilmente del domestico.
Tommaso partì quella sera stessa con soldi e compito di recuperare il libro dimenticato, e un’aria affatto contenta della novità. Prima di infilarsi in macchina scoccò ad Irene un lungo sguardo inquisitorio. Lei stavolta lo fronteggiò senza paura e gli sfiorò la spalla: “Goditi la vacanza, mio caro!”
“Sto diventando una mentitrice coi fiocchi” pensò guardandolo allontanarsi nell’erba malcurata che circondava l’imponente Heather Ville: “Che sia l’influenza di questo posto?”
 
“Sei una donna subdola e straordinaria!” sghignazzò divertito ed euforico R quella notte stessa, dopo aver risposto di sì alla sua domanda “ci sei?” come se avessero stabilito una specie di rito, nell’oscurità totale della camera di Irene che se ne stava inginocchiata sul letto con le coperte buttate di lato.
“Fare quella scena compassionevole al vecchio! La faccia convinta che aveva! L’hai rigirato come volevi e lui non s’è accorto di nulla!” continuò l’uomo senza volto, senza smettere di sghignazzare in modo sguaiato dal punto cieco in cui si nascondeva: “La stupidità umana non ha davvero confini”.
Irene, che aveva avviato la conversazione assai più tranquilla della notte prima, aggrottò la fronte contrariata: “Non ci trovo nulla di divertente, R. Tommaso è una brava persona, sfrattarlo in quel modo non è stato molto piacevole. Dire bugie non è mai un’azione di cui vantarsi”.
“Mi permetto di dissentire” ribatté lui con la voce ancora un po’ tremante per il riso di prima: “Penso che l’arte del mentire sia la più sublime e la più attraente che esista, soprattutto in una donna. L’amo a tal punto da voler credere vere le bugie, e da crogiolarmi nelle illusioni. Anche il buio è una sorta di menzogna, non trovi? Ci nasconde il vero aspetto delle cose”.
“Anche il tuo” lo aggredì lei, che ne aveva sempre meno paura, mentre ne era sempre più affascinata.
“Sì. Anche il mio” ammise lui.
“Sai, ancora non mi sono abituata a questo modo di conversare” riprese Irene con tono vivace. Sorrise e scosse la testa, sorpresa e divertita insieme: “Così, al buio, senza poterti vedere, immaginandoti soltanto come se tu fossi il personaggio di un romanzo inquietante. In un certo senso è…affascinante. Non poterti vedere, intendo. Ascoltare il suono della tua voce. È un po’ come conoscere qualcuno on line”.
“On line?” le fece eco lui con un fare così confuso, storpiando così tanto quella parola da strapparle una risatina: “Cosa significa?”
“È come avviare una corrispondenza letteraria con una persona sconosciuta” spiegò lei, divertita dalla sua ignoranza. Lui sembrava così colto ed erudito, eppure ammutoliva di fronte ad una cosa così scontata: “Solo per mezzo di un computer…una grossa macchina con uno schermo capace di spedire dei testi scritti” soggiunse, nell’eventualità che lui non sapesse nemmeno questo.
“Interessante…” commentò R colpito: “Il mondo moderno è veramente una sorpresa, per me!”
“Sul serio?” chiese Irene. Ma in verità non ne era poi così sorpresa: da quando era andata a vivere in quella casa grande e antica, le era parso d’essere stata proiettata ai primi del novecento, e lei non era neanche una ragazza molto moderna, anzi, si era sempre definita all’antica. Improvvisamente fu presa da una curiosità troppo impellente per essere ritardata: “R…quanti anni hai?”
Lui esitò un istante. Infine rispose con tono neutro: “Più di quanti ne hai tu, ma credo di potermi considerare ancora giovane”.
La ragazza sporse il labbro inferiore in un broncio. Aveva imparato a conoscerlo abbastanza bene per sapere che non le avrebbe detto altro. Dalle sue parole, suppose che la sua età fosse compresa in una fascia che andava dai venti ai trent’anni. Si sistemò meglio sul materasso, appoggiandosi sulle ginocchia con un movimento fluido e scrollandosi i lunghi capelli sulla schiena, lo sguardo attento sempre diretto al nulla tenebroso: “Dimmi, R…come mai vivi tutto solo ad Heather Ville? Hai vissuto sempre solo, oppure avevi compagnia? Dove sono i tuoi genitori? E i tuoi amici? E…” fece uno sforzo per superare l’improvvisa amarezza: “…la tua fidanzata?”
A quelle ultime parole, R scoppiò nella sua solita risata, ma stavolta era meno sardonica del solito: “Heather Ville è mia…di nessun altro” sentenziò, ma Irene, anche se era solo una supposizione, pensò che la cosa non gli fosse poi così gradita come voleva far credere: “Lo è sempre stata e sempre lo sarà. Quando la morte verrà a sussurrarmi all’orecchio il suo segreto, farò in modo di distruggerla perché nessun altro possa appropriarsene. I miei genitori, dici?” emise un verso sarcastico e sprezzante: “Mia madre mi è sempre rifuggita, a malapena ne ricordo il viso, non mi importa cosa ne sia stato di lei. Mio padre…lui ha avuto quello che si meritava”.
“Lo so” sussurrò Irene rattristata: “Anche mia madre non è mai stata un tipo materno”.
“Gli amici…cosa te ne fai degli amici?” continuò R con animosità: “Sono la razza più falsa che esista al mondo. Sono opportunisti e traditori. Non ho mai avuto amici. Non che ne volessi, ovviamente”.
Irene lo capiva fin troppo bene. Anche lei non aveva mai sentito il bisogno di costruirsi un’emozionante vita sociale come facevano molti intorno a lei. Era convinta che chi si vantava d’avere molti amici in realtà poteva contare solo sulla metà di loro e forse persino su nessuno. Le poche volte che s’era costretta ad uscire dalla biblioteca per aggregarsi alle altre ragazze, se n’era sempre rimasta in un angolo come un pesce fuor d’acqua senza riuscire ad inserirsi nei loro discorsi futili. In più, considerata la sua evidente bellezza che molte di loro non possedevano, suscitava invidia e, quindi, antipatia. Ebbe la netta sensazione d’avere finalmente incontrato una personalità affine che potesse capirla e partecipare appieno ai suoi discorsi, senza respingerla o stupirsi come suo padre o Stephan. R era intelligente, misterioso, interessante, e diceva cose fuori dal comune. Degli aspetti che insieme la inebriavano e la spingevano a rafforzare il loro ambiguo legame.
“Se non vuoi avere amici” constatò infine quando fu certa che le sue emozioni non potessero trasparire dalla voce: “Allora noi come dobbiamo considerarci? Perché hai voluto farti sentire da me?”
Dopo una piccola pausa, R parlò con lo stesso tono insicuro che solo una volta lei gli aveva sentito: “Non lo so” confessò: “Forse è perché mi sentivo solo. Sono anni, cara Irene, che non parlavo con qualcuno. Sono anni che strisciavo e mi nutrivo solo di oscurità. Forse vedendoti, spiandoti mentre suonavi l’arpa, dormivi e cercavi di adattarti ad Heather Ville, ho pensato che la mia solitudine potesse avere fine. Anche solo per qualche notte”.
Sinceramente commossa, Irene cercò qualcosa da dire. Avrebbe potuto confidargli che per lei era lo stesso, che lo trovava un interlocutore che non somigliava a nessun altro che aveva conosciuto. Fu lui a trarla d’impiccio, chiedendole per la terza volta, dubbioso: “Hai paura di me?”
“No!” questo ora poteva dichiararlo con sicurezza: “No, non potrei mai avere paura di te. Lo giuro”.
“Bene” commentò R tutto lieto, tornato quasi subito al suo atteggiamento sardonico e divertito: “Ne sono felice. Ne sono davvero felice. Sei una brava ragazza, Irene. Una bella e brava ragazza degna di essere ricoperta di doni. Dimmi, poiché non hai paura di me: c’è qualcosa che desideri? Un desiderio che io potrei esaudire?”
Irene fu colta da un’esitazione: “Cosa significa?”
R ridacchiò sguaiato, con la sua risata raschiante che sembrava scaturire più dalla gola che dalla bocca: “Non ricordi cosa ti ho detto? Voglio recarti piacere in qualsiasi modo. Sarebbe così bello compiere una buona azione, rendermi utile ad una brava ragazza come te…allora, cosa desideri?”
“Mostrami il tuo volto!” ogni volta non poteva fare a meno di provare. E ogni volta lui le dava la stessa risposta: “Ah! Cattiva! Mi chiedi proprio quello che sai che non posso darti. Su, dammi l’occasione di renderti felice in altro modo”.
Irene ci pensò su per qualche attimo, divertita dal gioco. Lui intendeva… qualsiasi cosa? Qualsiasi? Poiché non le veniva in mente nient’altro, esclamò ridendo: “Dammi la luna!”
Stranamente R non rise con lei, anzi, rimase a lungo in silenzio. Alla fine commentò con tono misterioso: “Non ti accontenti di poco, Irene”.
Lei rise ancora di più, imbarazzata: “Tu mi hai chiesto cosa preferissi avere, ed io ti ho risposto. Se trovi che questo sia più semplice che venire allo scoperto…”
“Bene” disse lui: “Allora provvederò al più presto”.
Irene alzò le sopracciglia, convinta che scherzasse. Nessuno avrebbe mai potuto darle la luna! Nemmeno R, per quanto misterioso e magico fosse. R. Il suo amico. Ora non aveva più dubbi nel ritenerlo tale: ogni notte era come se il suo cuore si aprisse e finalmente respirasse, e non poteva fare a meno di parlare con lui e di ascoltare la sua strana voce. Nessuno mai era riuscito a farla sentire come R, in sole tre notti: inebriata, incantata, catturata. Anzi, avevano sempre detto quanto era distratta e passiva, quanto poco si entusiasmava. Non avevano capito che erano loro i poco entusiasti, e che per reazione lei non si animava. Con R invece poteva parlare di tutto, abbandonare la paura di svelarsi per quella che era. Era convinta di aver trovato un miracolo.
Una persona così intelligente e così profonda, poi, doveva celare per timidezza una bellezza altrettanto radiosa…occhi sensibili, un’armonia nei tratti, un bel sorriso.
Quella notte, prima di addormentarsi, Irene si dimenticò di fare una carezza all’anello di Stephan.

 




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1005986