Guess who? - pubblicata
Questa
storia è nata grazie al contest "Giù la maschera" indetto
nel gruppo facebook "Tutte per una"; è una storia senza pretese
ma che mi sono divertita a scrivere e che ho adorato in ogni momento.
GUESS
WHO?
A Lela, Elle e Cinzia grazie per l'opportunità
È
meglio essere odiati per ciò che siamo che amati per la
maschera che portiamo.
[Jim
Morrison]
Il
mio nome è Jennifer Huxley e sono
allergica alle feste. Per essere più precisi sono allergica
al clima di falso
buonismo che si crea durante le feste e, quando vivi in una
città come New York,
è un po’ difficile fuggirne.
Ho
tirato un sospiro di sollievo quando
anche quest’anno San Valentino ha lasciato il posto al
quindici febbraio e
credevo di non dover più far i conti con allegria e
ipocrisia fino a Pasqua, ma
chiaramente mi ero scordata di Carnevale. Sì,
perché nel 2012, come del resto è
successo negli ultimi anni, ogni scusa è buona per
festeggiare e spendere soldi
inutilmente.
Carnevale,
fino a qualche giorno fa perlomeno,
era una delle poche feste che potevo far a meno di odiare; certo non
sono mai
stata tra le persone che andavano in giro in cerca di un costume per
partecipare al party più ‘in’
dell’anno, ma non ho mai nemmeno provato per
questo giorno il disprezzo che invece sentivo per le altre celebrazioni.
Il
cambiamento è avvenuto, come dicevo,
qualche giorno fa.
Come
tutti gli altri giorni, mi ero
alzata presto per andare a lavorare, ignara che la disgrazia mi
aspettasse
contenuta in una busta bianca davanti la porta di casa mia.
Dopo
aver fatto colazione con il mio
solito caffè nero e aver indossato divisa da infermiera e
cappotto, aprii la
porta pronta ad uscire: fu allora che lo trovai.
La
posta se ne stava, come tutte le
mattine, in bella vista sul mio zerbino monocolore: la raccolsi tutta
in
un’unica bracciata e mi diressi alla macchina; solo dopo
essermi seduta ed aver
acceso motore e riscaldamento, mi decisi a sbirciare la mia
corrispondenza. Tra
le bollette da pagare e la pubblicità spiccava lei: la
suddetta busta di carta
bianca, sul cui retro, a mano e in bella calligrafia, erano stati
scritti il
mio nome ed indirizzo. L’aprii curiosa e piena di sospetto e
ad ogni parola
sentii il mio cuore gelarsi fino a raggiungere una temperatura che
nemmeno
avrei potuto immaginare.
Non
poteva essere. No, no, no, no, no!
Anni
passati a nascondermi dai miei ex
compagni delle superiori per poi ricevere un tale invito proprio quando
pensavo
di essermi lasciata tutto alle spalle.
Il
problema, però, non si poneva: potevo
benissimo rifiutare e…
«L’hai
ricevuto?» la voce della mia
migliore amica al telefono era talmente acuta che anche un sordo
l’avrebbe
sentita.
«Sì,
e non ho intenzione di andare!»
misi in chiaro sin da subito.
«Ma
tu devi! Con chi andrò io,
altrimenti?»
«Non
andrai?»
«Smettila,
Jen! È una bellissima festa e
non possiamo perderla. Per di più è in maschera,
nessuno saprà che siamo noi!»
«Ash,
per favore io…»
«Ti
passo a prendere oggi dopo il turno
per andare a noleggiare il vestito! Baci!» prima che potessi
protestare, aveva
giù riattaccato ed io ero stata incastrata - dannazione!
Il
turno in ospedale fu terribilmente
impegnativo e, sebbene quando riposi il camice mi sentissi stremata,
ero grata
che il tanto lavoro mi avesse impedito di soffermarmi a rimuginare.
La
sola idea di partecipare a quella
festa mi dava il voltastomaco.
Le
superiori non erano state uno dei periodi
più felici della mia vita, per nessuno lo sono, potreste
contestare voi, ma la
verità è che per me erano state assolutamente
terribili. I capelli crespi, la
bassa statura e i vestiti di seconda mano di mia sorella non avevano di
certo
aumentato la mia popolarità, anzi, avevano concesso ad
Alexandra Smithson e
alla sua squadra di cheerleader di avere una scusa in più
per snobbarmi, come
se la mia cotta per David, il fidanzato di Alexandra, non fosse bastata.
Tutto
normale fin qui, direte voi. Be’
non proprio, perché, in effetti, non finisce qui! Il mio
vero problema alle
superiori era Andrew Mason, il miglior amico di David. Se Alexandra era
la
perfidia fatta persona, Andrew era il diavolo. La serie di scherzi
meschini di
cui fui protagonista in quattro anni gli basterebbe per una condanna a
vita
all’inferno. Per citarne alcuni: capelli blu al campeggio del
secondo anno;
ragno da laboratorio nell’armadietto al primo anno; punch sul
vestito al ballo
del terzo anno; esplosione di un composto chimico in faccia durante il
quarto,
di anno.
Capirete
bene come l’idea di rivedere
quegli esseri fosse a dir poco
nauseante per la sottoscritta, soprattutto quando il biglietto
d’invito
giungeva proprio da David e dalla sua neo-sposa Alexandra.
Un
clacson mi suonò dietro,
interrompendo i miei tristi ricordi: Ashley sulla sua decapottabile
giallo
limone mi faceva segno di sbrigarmi a salire.
«Pronta?»,
mi chiese non appena fui
seduta.
«A
dire il vero…»
«Tranquilla,
troveremo l’abito perfetto:
sarai stupenda e li lascerai a bocca aperta prendendoti la tua
vendetta!», mi
disse strizzandomi l’occhio. Se c’era una cosa che
Ashley sapeva fare era
persuadere le persone. Detta in quel modo era decisamente
più allettante, peccato
che io non fossi così sicura di apparire stupenda. Certo
negli anni il mio
fisico si era modellato sulle forme di una donna e non di un asse per
la
sfoglia, e i miei capelli erano diventati meno crespi, per lo meno
quando
l’umidità lo permetteva, ma continuavo a non
vedermi come questa gran bellezza.
Come
sempre mi sbagliavo; tre ore e non
so quanti negozi dopo, avevo trovato l’abito perfetto. Era
formato da un
semplice corpetto dorato ricamato con minuscole perline nere e da pizzi
del
medesimo colore; al di sotto di esso, la gonna si apriva a corolla
continuando
il motivo di pizzo sopra la stoffa dorata. Vi avevo abbinato un paio di
decolté
sempre nere dal vertiginoso tacco e una maschera, anch’essa
di pizzo nero, per
nascondere gli occhi.
«Perfetta!»,
mi sorrise Ashley da dietro
il suo vestito da matrona romana, «Ora non ci resta che
pensare ai capelli».
Passai
i giorni successivi a cercare di
distrarmi e di evitare i vari cataloghi di acconciature che Ashley
continuava a
mettermi sotto il naso; fu tutto inutile perché
più il giorno si avvicinava più
l’agitazione e la paura si facevano spazio in me.
«Andrà
tutto bene, vedrai», cercò di
rassicurarmi la mia miglior amica il pomeriggio della festa.
«No,
che non andrà bene! Non andrà bene
per nulla!», le risposi continuando a camminare avanti e
indietro, preda di una
crisi isterica.
«Smettila
di agitarti o ti spettinerai e
ti romperai un tacco», mi rimproverò guardandomi
tramite lo specchio davanti a
cui era seduta mentre sua madre, la parrucchiera a cui aveva rubato
tutti quei
cataloghi, le acconciava i capelli in una morbida coda boccolosa al
lato del
collo.
«Io
non vengo!», urlai.
Ashley
alzò gli occhi al cielo: «Tu
verrai, a costo di portartici a forza dopo averti sedata!»,
la sua minaccia mi
spaventò, anche perché, fino a prova contraria,
l’infermiera sono io, lei è una
contabile: figurarsi se sapeva sedare una persona!
«Okay,
ma se è terribile possiamo
fuggire subito?», chiesi con l’aria da cucciolo che
sapevo l’avrebbe fatta
capitolare.
«D’accordo»,
acconsentì, infatti, ed io
sorrisi soddisfatta.
«I
vostri nomi, prego?», chiese il
portinaio all’entrata del palazzo e io rivolsi uno sguardo
irritato in
direzione di Ashley.
«Nessuno
saprà che siamo noi, eh?», le
dissi ironica rinfacciandole le parole che mi aveva rivolto solo
qualche giorno
prima. Per tutta risposta lei si limitò a sorridere
mestamente prima di girarsi
e fornire i nostri nomi.
«Oh.
Mio. Dio! Non credo ai miei occhi:
Ashley Davy e Jennifer Huxley, non avrei mai pensato di vedervi
qui!», la voce
di Alexandra, l’avrei riconosciuta ovunque, ci fece voltare
verso di lei dando
dimostrazione che la sfortuna non arriva mai sola.
«Non
avremmo mai potuto perderci una
festa simile», Ashley non sembrò trovare problemi
a risponderle.
«Sono
davvero contenta che siate venute!
Venite vi faccio strada», la padrona di casa, nel suo
bellissimo abito rosso
alla Jessica Rabbit - c’erano forse dubbi? - ci diede le
spalle e si avviò
verso il grande ascensore che occupava tutta la parete di fronte a noi.
Quando
fummo salite, pigiò il numero corrispondente
all’ultimo piano: un attico, -
naturalmente!
La
sala principale dell’attico si palesò
davanti a noi in tutto il suo splendore non appena le porte
dell’ascensore si
aprirono. Era addobbata con ogni tipo di festoni e stelle filanti e qua
e là,
riposti su alcuni tavoli dalle tovaglie di colori sgargianti, facevano
bella
mostra di sé piramidi di calici di champagne. Al centro, un
tavolo ovale era
imbastito con cibo di ogni genere, dagli antipasti ai dolci tipici.
La
musica risuonava nell’aria insieme al
chiacchiericcio degli invitati, ma la cosa che saltava maggiormente
all’occhio
era la varietà di costumi presenti. Le donne si erano
decisamente sbizzarrite e
in sala si potevano ammirare grandi personaggi femminili di tutte le
epoche
storiche oltre alle più classiche infermiere, diavolesse e
indiane. Gli uomini,
al contrario, erano rimasti più sul classico, la maggior
parte indossava
completi scuri e aveva come unico travestimento una maschera a coprire
il viso.
Per
un momento dimenticai dove fossi e
soprattutto chi avessi di fianco e mi godetti l’atmosfera e
il panorama, poi la
voce della padrona di casa interruppe il mio idillio dando aria alla
bocca.
«Non
avete davvero idea di come mi
faccia piacere rivedervi, ve l’ho già detto, vero?
Oh, ma chi se ne importa?
Venite vi faccio salutare David, sono sicura che anche lui
sarà entusiasta!»
afferrò me ed Ashley per un braccio e ci trascinò
verso un gruppetto di persone
che parlava a ridosso dell’ampia finestra che dava sul
balcone.
«David,
tesoro, guarda chi è arrivato!
Ashley Davy e Jennifer Huxley, ci avresti mai scommesso?»
David, che nonostante
la maschera lasciava intravedere come la sua bellezza non fosse stata
intaccata
dagli anni, ci sorrise e strinse la mano ad entrambe.
«No,
davvero! Sono contento siate venute»,
ringraziai il pizzo che mi celava parte del volto o tutti avrebbero
potuto
notare il mio orrore davanti alla scelta di parole che lui aveva usato
- aveva
veramente detto ‘no, davvero’? - stare con
Alexandra doveva averlo fatto
cambiare parecchio se il giocatore della squadra di football della
scuola si
metteva ad usare termini come ‘no, davvero’. Non
dovetti essere l’unica a
pensarla in quella maniera perché riuscii a intravedere
Ashley che cercava di
celare una risata.
«A
dire il vero nemmeno noi pensavamo di
venire, ma visto che siamo qui ne approfittiamo per fare un giro e
guardare chi
c’è! Grazie mille ancora per l’invito,
è stato splendido
rincontrarvi», tagliò corto la mia amica, imitando
il
loro modo di parlare per poi trascinarmi via mentre se la rideva sotto
i baffi.
«Sei
tremenda, Ash!» le dissi quando
fummo abbastanza lontane.
«Questa
serata si prospetta decisamente
divertente amica mia!» mi rispose con un sorriso molto
eloquente, porgendomi un
calice di vino che fissai indecisa. Iniziare subito a bere e rischiare
di dare
spettacolo alla festa in cui potevo riscattarmi non sembrava essere una
buona
idea.
«Andiamo,
sciogliti. Vedrai che un
bicchiere di spumante non ti farà nulla e poi hai bisogno di
essere meno
inibita per far vedere a tutti che non ti importa più nulla
di loro e di quello
che pensano», mi incentivò lei, quando vide il mio
tentennamento.
«Hai
ragione, sai?», inghiottii il sorso
di spumante, «ora vado a fare un giro, ti
dispiace?», Ashley si limitò a farmi
un cenno con la mano prima di sparire lei stessa in mezzo ai vari
costumi.
Mi
concessi un minuto, giusto il tempo
di prendere in mano la situazione, poi mi mossi per la sala guardandomi
intorno.
Nonostante, le maschere riuscii a riconoscere diversi compagni di
scuola e mi
fermai a chiacchierare con più di uno di loro. Frasi di
cortesia, per lo più,
ma niente male per una ex reietta come me.
Quando
poco più tardi vidi avvicinarmisi
Zorro, di certo non avrei mai potuto pensare che tutto nella mia vita
stava per
cambiare.
«Posso
chiedere alla più bella della
festa il prossimo ballo?», mi chiese, porgendomi una mano
guantata di nero.
«Seriamente?»
chiesi, aggrottando le
sopracciglia, incredula e sospettosa al medesimo tempo.
«Penso
davvero tu sia la più bella della
sala, ma, se non ti va di ballare, possiamo sempre andare sul terrazzo
a
scambiare due chiacchiere», il sorriso malizioso mi disse che
non aveva nessuna
intenzione di arrendersi. «E
sia. Lo sai, però, che Zorro non è
biondo?» domandai mentre prendevo la sua mano e mi lasciavo
trascinare sulla
pista da ballo. La musica di sottofondo era un lento che non conoscevo
e per di
più non ero mai stata brava a ballare; così,
quando mi mise un braccio intorno
alla vita, mi limitai a seguire i suoi movimenti in modo un
po’ impacciato.
«Rilassati,
è solo un ballo…» quelle
parole mi fecero capire che doveva essersi accorto di quanto mi
sentissi a
disagio; per quanto avessi cercato di celarlo, evidentemente non ero
una brava
attrice.
«Non
sono abituata a ballare…» buttai
lì, sperando che cambiasse argomento in fretta o non
parlasse affatto.
«Lo
so!» mi stupì, invece, con la sua
risposta.
«Come?»
«Ricordo
che non c’eri mai ai balli di
fine anno, Jennifer», mi allontanai bruscamente. Pensavo che
il mio
travestimento fosse riuscito bene, ma a quanto pare mi ero sbagliata e
ora
quell’uomo si rivolgeva a me rivangando un passato del quale
non ero orgogliosa
e che avrei preferito sotterrare sotto metri e metri di terra.
«Mi
hai riconosciuta…»
«Ho
fatto fatica inizialmente ma sì, poi
ti ho riconosciuta», mi rispose, attirandomi di nuovo contro
il suo petto e
obbligandomi a continuare la danza, «cosa
c’è di male?»
«C’è
che ora non so se mi stai prendendo
in giro o sei serio quando parli con me», mi lasciai sfuggire
e me ne pentii
nell’esatto istante in cui le parole lasciavano la mia bocca.
Gli avevo appena
rivelato che non ero sicura di me stessa - pessima mossa Jennifer!
«Ero
serio quando ti ho detto che credo
tu sia la più bella della sala», mi
sussurrò talmente vicino al mio orecchio
che potei sentire il suo fiato caldo sul collo.
«Come
posso esserne certa?»
«Perché
non ho chiesto di ballare a
nessun altra donna in tutta la sera e non intendo ballare con
nessun’altra
all’infuori di te, quindi spero tu abbia messo delle scarpe
comode».
«Sei
bravo con le parole, devo
ammetterlo, ma ho smesso di farmi incantare anni fa».
«Mi
dispiace…», fece lui, di nuovo
sussurrando.
«Per
cosa?»
«Per
i brutti momenti alle superiori», i
suoi occhi, contro ogni mia aspettativa, mi dissero che era sincero,
davvero
sincero e dispiaciuto e io dovetti arrendermi all’evidenza
che quell’uomo mi
stava lasciando senza parole ogni volta che apriva bocca.
«Grazie…»
ci muovemmo insieme,
coordinati per il resto della canzone e le due successive poi, sempre
tenendomi
per mano, mi condusse sul terrazzo; lontani dalla musica e dalla
confusione
potei notare solo in quel momento quanto l’uomo che era con
me fosse affascinante.
«So
che sei un’infermiera ora. Ti piace
il tuo lavoro?»
«Lo
adoro, davvero. Tu cosa fai?», non
ero ancora pronta a domandargli chi fosse e sinceramente speravo che
prima o
poi si togliesse la maschera rivelandomi lui stesso la sua
identità.
«Sono
un avvocato. Lavoro per lo più nei
casi in cui sono coinvolti dei minori. È un lavoro che, se
sei bravo, sa dare
le sue soddisfazioni».
«E
tu sei bravo?»
«Uno
dei migliori a quanto dicono»,
ridemmo assieme di quella falsa modestia che, tuttavia, non era nemmeno
presunzione.
«Ti
ho rubata alla tua amica, spero non
me ne voglia», riprese poco dopo mentre, appoggiati al
davanzale, prendeva le
mie dita e iniziava a giocarci, continuando, però, a
guardarmi negli occhi: un
gesto che mi procurò brividi lungo tutta la spina dorsale e
che mi obbligò a
qualche secondo di silenzio prima di riuscire a mettere insieme le
parole in
una frase che fosse quanto meno coerente.
«Credo
non ricordi nemmeno di essere
venuta con me», ridendo, gli indicai Ashley che stava
flirtando in modo
decisamente spudorato con un ragazzo molto avvenente.
«Se
lei è troppo impegnata posso darti
un passaggio io a casa, più tardi».
«Ci
penserò, magari dopo che mi avrai
detto chi sei», suggerii visto che lui continuava a non far
cenno al fatto di
volersi svelare.
«Non
credo sia una buona idea».
«Perché
no?»
«Perché
potrei non rivederti più».
«Cosa
intendi?»
«Non
ti sono mai stato molto simpatico»,
rispose, abbassando lo sguardo sulle nostre mani intrecciate.
«Non
ho mai odiato nessuno senza motivo.
Come mai non mi stavi simpatico?»
«Se
te lo dicessi potrei non rivederti
più».
«Continui
a dirlo ma Jim Morrison diceva
che è meglio essere odiati per ciò che siamo che
amati per la maschera che
portiamo», commentai e in quel momento mi accorsi che volevo
sapere terribilmente
chi fosse, non importava se lo avrei odiato in seguito
perché quella sera spesa
con lui era stata magnifica e in un modo o nell’altro non
avrei potuto
dimenticarla. Glielo dissi e lui mi sorrise tristemente, come se non mi
credesse.
«Posso
toglierla dopo averti
accompagnato a casa?» domandò e io annuii. Guardai
l’orologio e mi accorsi che
comunque si era fatto tardi; gli chiesi di aspettarmi mentre informavo
Ashley
della mia decisione e che lo avrei poi raggiunto all’entrata
del palazzo. Mi salutò
con un bacio sulla guancia che mi lasciò ammutolita e con il
volto arrossato.
«Tesoro,
vedrò di non telefonarti presto
domani mattina, così potrai riposare dopo una notte di sesso
sfrenato!» fu il
commento della mia amica quando le dissi di non aspettarmi; non sprecai
nemmeno
fiato a cercare di spiegarle che non intendevo andare a letto con il
primo che
capitava e mi limitai a sorridere, allontanandomi.
Il
mio cavaliere mi aspettava appoggiato
a una macchina lussuosa con il sorriso stampato in volto. Si era tolto
il
mantello da Zorro ma sembrava non avere freddo vestito semplicemente di
una
camicia di seta nera; io, egoisticamente, mi godetti il panorama dei
muscoli
che la stoffa pregiata metteva in risalto.
Durante
il tragitto verso casa
continuammo a parlare del più e del meno. Mi
raccontò che - anche se non lo
avrei creduto dopo che lo avessi visto in volto, a detta sua - usciva
da una
storia d’amore piuttosto lunga e tormentata in cui lui
sembrava essere vittima
e non carnefice: la ragazza di cui era innamorato lo aveva tradito con
uno dei
suoi amici più cari e lo aveva fatto nel loro letto.
«Mi
dispiace», commentai, «deve essere
stato terribile scoprirlo».
«Non
quanto è stata terribile la mia
rabbia per loro. Lui si è trovato con il naso rotto e da
ricostruire, lei con
un sacco di gioielli in meno: mi sono ripreso tutto ciò che
le avevo regalato
per poi venderlo».
«Sei
vendicativo».
«Lo
sono, e sono anche molto geloso»,
suonò come un avvertimento e glielo feci notare.
«Potrebbe
esserlo».
«Abbiamo
condiviso una serata…»
«Una
serata decisamente piacevole alla
quale spero seguirà una cena», era diretto e
sfacciato e per l’ennesima volta
rimasi senza parole, «sempre che tu non mi tiri dietro una
scarpa quando vedrai
chi sono», rise e solo a quel punto mi accorsi che eravamo
fermi di fronte a
casa mia. Decisi di non rispondere e alzai le mani verso il suo volto
accarezzando i bordi della maschera, tentennando prima di decidermi a
levarla.
Lui venne in mio soccorso posando le sue mani sulle mie e aiutandomi a
compiere
quel movimento, tuttavia, mentre lo facevo, chiusi gli occhi. Lasciammo
cadere
la maschera poi lui mi prese il viso tra le mani.
«Guardami»,
mi soffiò e io mi obbligai
ad aprire gli occhi. La bocca mi si seccò e nessun suono
uscì dalla mia gola
quando lo riconobbi. Come avevo potuto essere così stupida
da non riconoscere
la sua voce? La stessa voce che per anni mi aveva tormentata.
«Andrew
Mason…» fu tutto ciò che riuscii
ad articolare e lui si limitò ad annuire. Non potevo
farcela, nonostante quello
che avevo detto sul non scordare la magnifica serata insieme, non
potevo uscire
di nuovo con Andrew Mason, l’uomo che mi aveva rovinato
l’adolescenza. Prima
che lui potesse dire qualsiasi cosa aprii la porta della macchina e mi
fiondai
giù, una mano nella borsetta alla ricerca disperata delle
chiavi di casa che
non sembravano voler venire in mio soccorso. Udii lo sbattere anche
della sua
di portiera e i suoi passi che mi seguivano affrettati.
«Jennifer,
Jennifer per favore aspetta
un momento!» mi urlò prima di raggiungermi ed
afferrarmi un polso, obbligandomi
a voltarmi nella sua direzione.
«Cosa?
Cosa vuoi? Sentirti dire che non
fa differenza? Lo sai benissimo anche tu, invece, che è
cambiato tutto!»
«Appunto,
Jen, è cambiato tutto. Io sono
cambiato. Hai passato una serata con me, devi aver capito che non sono
più il
ragazzino coglione che ti ha fatto tutto quel male! Jen, Jen
ascoltami», mi
disse, asciugandomi con il pollice una lacrima che non mi ero nemmeno
accorta
di aver versato e alzandomi il volto perché i nostri occhi
fossero alla stessa
altezza, «se potessi cancellare ciò che ho fatto,
non esiterei un solo istante.
Non voglio che mi odi. Sono anni che spero di incontrarti per chiederti
scusa,
ma non avrei mai immaginato che un giorno sarei stato di fronte a te a
implorarti di perdonarmi e di concedermi una possibilità,
perché questa sera,
con te, sono stato bene come non stavo da mesi; perché tu
sei una persona
fantastica ed io vorrei poterti conoscere davvero,
frequentarti».
«Non
posso, scusa». Mi liberai della
presa delle sue mani e lo lasciai lì mentre veloce me ne
rientravo dentro casa.
Quando
finalmente fui sola, scoppiai in
singhiozzi. Piansi perché non volevo fosse lui,
l’uomo fantastico con cui avevo
passato la serata; perché il rivangare il passato faceva
male ed ogni volta che
ripensavo ai suoi occhi uno dei suoi scherzi idioti e crudeli mi
tornava alla
mente, impedendomi di guardare avanti; eppure lo volevo, con tutta me
stessa
desideravo poter dimenticare, perdonare, dare una seconda occasione,
conoscere
l’uomo che era diventato e che più volte durante
quella serata mi aveva fatto
battere il cuore e provocato brividi alla schiena.
Per
una settimana ricevetti ogni giorno un
giacinto color porpora; io che conoscevo il linguaggio dei fiori non
potevo non
sapere che era una chiara richiesta di perdono alla quale non detti mai
risposta.
Il
settimo giorno, mentre mi trovavo con
Ashley a casa mia, intente a preparare la nostra serata film e pizza il
citofonò suonò di nuovo. Questa volta il fiorista
portava un ciclamino ed io
seppi che si era arreso. Con uno strano sentimento nel cuore rientrai
posando
il fiore sulla tavola consapevole dello sguardo curioso di Ashley.
«Cosa
significa questo?»
«Rassegnazione,
addio», spiegai senza
togliere lo sguardo dal vaso.
«C’è
un biglietto, però», mi disse,
prendendolo in mano e leggendo: «Un uomo deve saper capire
quando le sue
attenzioni non sono desiderate. Faccio un ultimo tentativo: questa sera
alle
otto vieni all’indirizzo che ti ho scritto dietro, se non ci
sarai, non
sentirai mai più parlare di me». Il cuore mi
martellò furiosamente nel petto e
alzai gli occhi istintivamente verso l’orologio: le sette.
«Scorda
il passato. Va da lui e scopri
se ne vale la pena», mi sorrise la mia amica, poggiandomi una
mano sulla
spalla.
Prima
ancora che lei parlasse, sapevo già
cosa avrei fatto: sarei andata.
|