Follia d'amore e d'oscurità

di Sylphs
(/viewuser.php?uid=162627)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


GLI SPECCHI

 
 
 
 
 
 
Due settimane dopo il suo arrivo ad Heather Ville, Irene aveva finalmente ripreso a esplorare la vasta, polverosa e buia residenza che ora era anche la sua casa, anche se in precedenza aveva preso la decisione di muoversi solo in determinati ambienti. Ma ora che conosceva R, che aveva capito che lui era il padrone indiscusso di Heather Ville, si sentiva libera di girarvi a suo piacimento, poiché lui gliel’aveva permesso. Heather Ville non l’avrebbe ghermita se era sotto la protezione del suo amico senza volto. La paura che provava nei confronti dell’oscurità, degli spifferi e delle pozze d’ombra che abbondavano ovunque era scemata lentamente fino a sparire.
Con una candela accesa nella mano destra e addosso una lunga gonna bianca e una camicia di raso, coi capelli biondi raccolti in una morbida coda, Irene stava esplorando curiosamente il secondo piano, muovendosi senza timore nei corridoi insidiati dalle tenebre, rassicurata dagli scricchiolii del pavimento e da qualche occasionale fruscio che, per quanto ne sapeva, poteva anche essere stato prodotto da R che la seguiva ovunque dal suo nascondiglio. In lei s’era risvegliata tutta la passione per il mistero: era inebriata da Heather Ville e da quello che nascondeva.
Anche al secondo piano le tende erano tirate e all’interno non penetrava nemmeno uno spiraglio di luce, ma per lo più era composto da un dedalo di stretti e asfittici corridoi. C’erano solo porte: una di esse era chiusa a chiave, Irene non riuscì ad aprirla nemmeno facendo forza, un’altra conduceva ad un semplice salottino privato con un vecchio camino pieno di cenere, mentre la terza portava ad una sala molto vasta, piena di mobili e di statue coperti da polverosi teli neri. La ragazza scelse di esplorare quella, introducendosi cautamente all’interno. Lì c’erano diversi candelabri con le candele accese, così spense la propria e la poggiò a terra.
Camminare tra tutte quelle forme indistinte, coperte dai teli, era come aggirarsi in uno strano labirinto. Provò a sbirciare scostando i drappi da qualcuna di quelle cose: un tavolino di legno, con incisi dei simboli dorati, un divano bucherellato, la statua di un grande angelo con le ali spiegate che sembrava fissarla. Quando tolse il telo da una forma vagamente umana, che lì per lì aveva scambiato per una statua, spalancò gli occhi ed esclamò: “Oh!”
Era un abito da sposa. Ma non un abito da sposa qualunque, un abito d’epoca, e in uno stato sorprendentemente buono a giudicare da tutti gli anni trascorsi dalla sua creazione. Era indosso ad un manichino dalle forme esili. Il bustino era ricamato con pizzi e merletti ingialliti, le maniche erano gonfie e soffici, mentre la gonna si allargava intorno alla vita come la corolla di un fiore. Il velo, appuntato sulla testa del manichino da una coroncina di roselline incartapecorite, era così lungo e così spesso da allargarsi in un considerevole pezzo di pavimento. Conficcati nel busto v’erano alcuni spilli, come se fosse stato rinnovato da poco. La ragazza lo rimirò con silenziosa ammirazione e tese la mano a sfiorarlo: era morbidissimo. Immaginò una damina che lo indossava per le sue nozze, si chiese a chi fosse appartenuto. R sapeva di possederlo? O era stato lui stesso a comperarlo? E dove? Non si trovavano più abiti simili. Poteva solo averlo ereditato.
Accanto all’abito v’era una cassettiera finemente intagliata solo parzialmente coperta dal telo. Irene si inginocchiò lì accanto e prese a curiosare nei cassetti, affascinata, con la sensazione di essere precipitata in un’altra epoca o addirittura in un altro mondo. Un tagliacarte, alcuni libri scritti a mano, e un album di fotografie, con la copertina coperta da arabeschi di polvere e luridume. La giovane lo tolse dal cassetto in cui era riposto e lo aprì con delicatezza. La carta ingiallita dagli anni frusciò.
Erano fotografie molto antiche, che, via via che sfogliava le pagine, erano più moderne. Erano gruppi di famiglia, o singoli, o coppie. Volti pallidi e inespressivi le sfilavano davanti agli occhi senza che lei potesse decifrarvi qualcosa di conosciuto. Sotto ad ognuna delle foto era scritta una minuscola didascalia. Lentamente Irene comprese: erano le immagini di una famiglia. Le varie generazioni di essa, fino alla più recente. A giudicare dalle didascalie, la famiglia si chiamava Lawrence, aveva a che fare con la Svezia, considerando i nomi propri, ed era molto ricca e prestigiosa.
Sì, ora che ci pensava i soggetti fotografati dovevano per forza essere imparentati, avevano numerose caratteristiche affini: i tratti affilati, le espressioni arcigne e impassibili, gli occhi grandi e fissi. Soltanto l’abbigliamento mutava: prima cuffie e abiti adorni di merletti, poi completi più moderni. La fissavano con sguardo gelido, le mani raccolte in grembo, la schiena diritta. Erano mariti e mogli seduti vicini, persone da sole, o la famiglia intera riunita con tanto di bambini, e tutti si chiamavano Lawrence. Irene non poteva impedirsi di provare un brivido, nel contemplare tutte quelle persone che ora erano ormai morte.
Le ultime fotografie rappresentavano gli ultimi rappresentanti in vita della famiglia Lawrence. Risalivano soltanto ad una decina o più di anni fa, così probabilmente tuttora avrebbe potuto trovarli, se avesse fatto ricerche. La prima foto raffigurava il signore e la signora Lawrence, Hugo e Ingrid, ma tuttavia lui aveva una curiosa particolarità: il suo volto era stato bruscamente cancellato da una chiazza d’inchiostro rosso, cosicché non se ne vedeva nulla. Si poteva solo immaginare che ormai doveva avere una certa età, se era vivo. Irene, stupefatta, accostò ancor più il viso all’album, ma effettivamente la faccia dell’uomo era stata davvero rovinata da una mano ignota.
“Che strano” pensò. La didascalia diceva che avevano avuto quattro figli.
I primi tre figli erano arcigni, pallidi e biondi come gli altri membri della famiglia. A parte che il terzo, Viktor, aveva a sua volta il viso violentemente calcato dall’inchiostro rosso. Irene strinse gli occhi, incuriosita e insieme disturbata da quello strano fenomeno. E tuttavia il suo stupore crebbe quando, girata pagina, scoprì che non c’erano altre foto. Dov’era finito il figlio più piccolo? Non c’erano segni di colla, dunque la fotografia non c’era mai stata, non era stata staccata dopo. Non c’era neanche una didascalia che potesse fornire qualche informazione…ma Irene ci vedeva bene, e aveva letto che i figli erano quattro. Dov’era l’ultimo? Perché la sua foto non era stata aggiunta a quella degli altri? Perché era stato ignorato, quando ogni altra immagine era stata accuratamente aggiunta?
Mentre si poneva questi interrogativi, improvvisamente udì un forte tonfo provenire dal corridoio attiguo alla sala in cui si trovava, e, con un sussulto, si girò di scatto spaventata, chiudendo l’album. Un’improvvisa folata di vento gelido aveva spento la luce dei candelabri ed ora si trovava del tutto al buio. Le ombre strisciavano ai margini della sua visuale, e i mobili coperti dai teli sembravano pallidi fantasmi sul punto di assalirla. Restò qualche attimo immobile sul pavimento, con l’album stretto al petto, pallida: “Chi c’è?” chiese con voce tremante. Aveva lasciato la porta aperta, se qualcuno aveva prodotto il rumore dal corridoio, l’avrebbe visto!
Restare in tutto quel buio l’inquietava, nonostante tutto. Cacciò l’album nel cassetto da cui l’aveva preso e si alzò rapidamente in piedi, guardandosi nervosamente intorno senza trovare nulla. Si avviò a passo svelto verso la porta. Mentre era a metà strada, il tonfo si ripeté, più smorzato, facendole balzare il cuore in petto. Si fermò di botto, la mano serrata sul cuore, il viso impaurito: “Papà?” chiamò. Non le rispose nessuno.
Ad un certo punto, gelide dita si infilarono tra le ciocche bionde. Colta dal panico, Irene gridò e si voltò rapidamente, pronta a colpire qualsiasi cosa le fosse capitata a tiro. Ma il panico si mutò in sollievo allorché s’accorse che le dita che l’avevano afferrata appartenevano solo alla mano tesa d’una statua che sporgeva dal telo che la copriva. Il cuore rallentò i battiti. La ragazza oltrepassò le ultime forme indistinte e giunse sulla soglia, piena di sollievo. Quella sala l’aveva lasciata impaurita.
Si bloccò per la terza volta, quando accennò un passo nel corridoio, e forse con ragione, poiché aveva scorto, alla fine di esso, una forma scura, vagamente umana, ingobbita su se stessa, che sembrava darle le spalle. Rimase per un attimo paralizzata, con la bocca spalancata e muta, a fissare la sagoma indistinta, indecisa se urlare. Poi realizzò, e le sue labbra prima aperte si tesero in un sorriso: “R!” esclamò. Era lui! Allora non era davvero soltanto una voce, una presenza che parlava dal nulla! Era un uomo in carne ed ossa!
La figura resa indistinta dal buio sobbalzò allorché lei gridò il suo nome, e, senza pronunciare una sola parola, senza neanche voltarsi dalla sua parte, corse via e scomparve, inghiottita dalle ombre. Il sorriso radioso di Irene scomparve, sostituito dalla delusione e dallo scoramento. Allungò una mano verso il punto in cui la sagoma scura era scomparsa: “Aspetta!” non l’avrebbe lasciato fuggire, non ora che era stata in grado di vederlo, e di captarne qualcosa che non fosse solo la voce e il respiro.
Scattò subito in corsa dietro al fuggiasco R, sollevandosi la gonna perché non le desse impiccio, con una selvaggia determinazione sul viso: “Non andartene, R!”
Sebbene lui fosse stato molto silenzioso, era stata in grado di percepire la direzione che aveva preso: la destra. Svoltò con una scivolata e fece appena in tempo ad avvistare qualcosa di scuro che girava l’angolo del corridoio successivo. Urlò disperata: “Perché rifuggi da me?!” prese anche lei la stessa direzione, e quasi andò a sbattere contro la porta chiusa a chiave che aveva già trovato in precedenza. Il prossimo corridoio terminava in un vicolo cieco. Per evitare di dare una testata all’uscio, Irene, stupefatta, fu costretta ad arrestarsi bruscamente, con tutt’altro che grazia, inciampando e cadendo lunga distesa sul pavimento.
Gridò un’imprecazione tutt’altro che signorile, mentre si metteva a sedere a stento, massaggiandosi i punti doloranti. Dove diavolo era finito R? Lei l’aveva chiaramente visto prendere quella direzione…era riuscito a volatilizzarsi nel nulla fuggendo in un vicolo cieco! Che fosse un mago? Ma, più che l’impossibilità della sua fuga, le rodeva terribilmente non essere riuscita a fermarlo. L’era sfuggito, per l’ennesima volta, e ci era andata così vicina! Ripeté l’imprecazione, gli occhi lucidi.
Poi si accorse di qualcosa che avrebbe dovuto notare in precedenza. La chiave. C’era una piccola chiave d’oro infilata nella serratura della porta che le stava di fronte. Ricordava perfettamente di non averla veduta quando era stata lì la prima volta. Le venne voglia d’imprecare contro se stessa per essere stata così stupida. Era ovvio: R era fuggito in quel modo. Mentre si rimetteva in piedi a stento, cercando di ricomporre come poteva i vestiti e i capelli, le venne il pensiero improvviso che forse, oltre che per fuggire, R l’avesse condotta lì per farle notare la porta. Possibile? Sì. Possibile. R non sarebbe uscito allo scoperto per una sciocchezza. Lui voleva che trovasse la porta e si rendesse conto della chiave.
Timorosa, allungò una mano e strinse la chiave. Era gelida. Restò un attimo ferma davanti alla porta chiusa, indecisa sul da farsi. Non sapeva cosa avrebbe potuto trovare oltre quella superficie lignea. Alla fine, spinta da qualcosa di potente cui non riusciva a dare nome, inspirò profondamente e la girò nella serratura.
Non appena l’aprì e si introdusse timorosamente dentro, una luce accecante la colpì in pieno, costringendola a schermarsi gli occhi con un mezzo grido. Allorché finalmente si fu abituata, restò letteralmente a bocca aperta, troppo stupefatta anche solo per respirare, paralizzata dalla meraviglia.
Specchi. Centinaia di specchi sistemati ai lati del vasto salone buio che le si presentava davanti agli occhi, in più file, così tanti che non riusciva a contarli, specchi di varie forme e dimensioni che arrivavano fino all’alto soffitto. Come se fossero stati tolti da qualsiasi altro luogo di Heather Ville e rinchiusi lì, lì dove non avrebbero potuto nuocere a nessuno. Così tanti specchi che la stanza sembrava scoppiare. La fioca luce del sole al tramonto colpiva quelli della prima fila, che, in uno strabiliante gioco di luci, proiettavano il lucore a loro volta a quelli più in alto, e ancora, e ancora, in un insieme gigantesco di luci proiettate di specchio in specchio. Alla fine di quell’immensa catena riflettente, sul soffitto oscuro s’era formato un enorme disco di luce argentea che illuminava tutto di un chiarore da sogno.
Irene non trovava parole per descrivere lo stupendo spettacolo che aveva davanti agli occhi. Una luce così intensa che faceva fatica a fissarla, ma da cui non riusciva a distogliere lo sguardo. Era abbagliata, catturata, avvinta, sconvolta. Se ne stava immobile sulla soglia, col naso all’insù e gli occhi spalancati fissi sulla grande palla argentea sospesa sopra la sua testa, risultato della luce di centinaia di specchi. La perfetta simulazione, anzi, ancor migliore di una delle tanti notti che aveva contemplato in città.
“R mantiene sempre le sue promesse” sussurrò infine, con le guance rigate di lacrime: “Mi aveva promesso la luna…e me l’ha donata”.
 
“Quello che hai fatto…” disse Irene quella stessa notte, accoccolata sul letto con le ginocchia strette al petto, nel buio assoluto della sua stanza, non appena ebbe congedato suo padre: “R…è stato veramente…” si interruppe, poiché non trovava le parole per descrivere quello spettacolo che era rimasta in piedi a fissare un’ora buona, per ringraziarlo. Attese, tremante, che lui si facesse sentire, che con la sua voce dissipasse il suo stupore, anche solo per ironizzare in modo sardonico come faceva spesso.
“Ho solo esaudito il tuo desiderio” replicò lui, insinuandosi nel buio: “Ma non ho fatto tutto in un giorno. Quegli specchi erano già lì. Li ho solo sistemati meglio” aggiunse con modestia. Irene non era altrettanto incline a minimizzare l’opera del suo amico: “È stato il dono più bello che abbia mai ricevuto! Davvero! Non ho mai visto niente di simile…” era sincera, ma si chiese se per caso fosse un insulto all’anello di Stephan. Certo, un regalo amorevole, ma non altrettanto magnifico.
“Mi fa piacere che ti piaccia. Vedo che hai tenuto la chiave. Bene. Quella stanza ora è tua. Potrai andarci quando vorrai per ammirare la tua luna. Tanto io non mi recavo lì quasi mai. Anzi, ho spesso pensato di distruggerla” commentò R. Irene sorrise e strinse in mano la chiave d’oro che portava legata al collo con un laccio. Infine disse: “R, adoro parlare con te. È diventata quasi…un’ossessione. Se una notte per caso tu non mi rispondessi, mi sentirei così angosciata!”
“Questo non succederebbe mai” esclamò lui: “Per me è lo stesso. Heather Ville è tua. Ogni camera per te sarà aperta, e potrai andare dove vorrai e toccare tutto ciò che vorrai. Condivideremo insieme questa dimora. Presto, vedrai, imparerai a conoscerla come la conosco io”.
La fanciulla spalancò gli occhi sorpresa ed emozionata per l’improvvisa concessione. Heather Ville…sua? Le labbra le tremarono come fragili foglie mosse dal vento: “R…io…” nuovamente non seppe cosa dire. L’avrebbe abbracciato, se solo ce lo avesse avuto davanti. La voglia di poterlo stringere era così insostenibile che d’istinto chiuse a pugno le mani e prese a tremare tutta. Forse, chissà, anche lui provava la stessa cosa, ma si tratteneva per suoi motivi.
Per la prima volta, spinta da qualcosa di irresistibile e di indefinito, Irene scese dal letto con un salto e fece qualche passo avanti nella camera buia, senza sapere dove cercare: “R, rispetto la tua decisione, non intendo costringerti a venire allo scoperto” sussurrò, la voce rotta: “Ma ti prego, dammi un segno. Credo di averti visto per un attimo, questo pomeriggio. Dove ti trovi? Non temere, non ti cercherò, ma voglio sapere dove sei”.
“Sai perché le donne sono tutte come Pandora?” le chiese lui triste: “Perché sono curiose! Tu prometti, ma alla fine la curiosità sarà tale che andresti a cercarmi. E se lo facessi sarei costretto a prendere dei drastici provvedimenti. Non costringermi a farlo, Irene. Io mi fido di te, ma non voglio darti motivo di tradirmi. Accontentati del suono della mia voce, come io mi accontento di guardarti”.
Se le altre volte Irene aveva accettato a testa china, questa sentì montare la rabbia e il dolore. Dopo che R l’aveva avvinta a sé con la magia degli specchi e con la sua voce roca e suadente allo stesso tempo, non poteva privarla del piacere di potergli almeno stringere una mano: “Sei crudele!” singhiozzò, sull’orlo di versare lacrime perlacee: “Vuoi privarmi persino del piacere di saperti accanto a me, dove posso percepirti? Tu mi spezzi il cuore, R! Non ce la faccio più a parlare con il nulla. Dammi almeno la prova che hai un corpo, che sei una persona che posso guardare e toccare!”
“T’interessa a tal punto sapere come sono fatto?” disse R con un misto di sofferenza e di ira nel tono. Irene scosse la testa, gli occhi umidi di pianto: “No, voglio solo…vedere che sei accanto a me. Fai rumore. Dammi un segno! Non costringermi a passare questi attimi in preda al terrore che tu possa cessare di colpo di parlarmi, lasciandomi la paura d’essertene andato come un soffio di vento!”
“Irene, mia povera cara…cerca di capire” sussurrò lui insistente e addolorato: “È la prima volta…e ora che le cose sono arrivate a questo punto…devo essere cauto, non posso rovinare tutto. Lascia almeno che…che organizzi tutto per bene. Dammi la prova che non mi temi più e che ti sono caro”.
“Se mi sei caro!” gridò lei, terribilmente agitata: “Lo sai, quanto mi sei caro! Sei cattivo a torturarmi così!”
“Dici la verità?” domandò R, insieme emozionato e avido di quelle parole appassionate. Irene annuì vigorosamente: “Come puoi pensare che io ti mentisca? Sai che non ho mai incontrato nessuno come te, sai con quanta ansia attendo la notte perché tu possa parlarmi!”
“Provamelo” le intimò lui, sempre più eccitato: “Provami che dici il vero, ed io, te lo prometto, verrò allo scoperto…verrò solo allo scoperto. Non importa come”.
La povera fanciulla si sentì sommergere dalla disperazione. Si nascose il viso rigato di lacrime fra le mani tremanti: “Come?! Come posso provartelo, R? Dimmi come fare ed io subito eseguirò! Ti prego!”
“Devi trovare il modo da sola” ribatté lui: “Nel frattempo continueremo a parlarci così”.
“Ma io…” prima che potesse tuttavia concludere la frase, o implorarlo ancora, la voce tesa di suo padre esclamò attraverso la porta chiusa: “Irene? Và tutto bene? Cos’è questo fracasso?”
La ragazza sobbalzò violentemente e girò uno sguardo spaventato all’uscio. Infine rispose, la voce carica di tensione: “S-sì, papà, io…ho avuto un…un incubo”.
Quando lui se ne fu andato, subito tornò a concentrarsi sulla discussione: “R?” chiese spaventata. Non rispose nessuno. Il panico la colse: “R? R, ti prego!” lo supplicò, scossa da violenti singhiozzi. Ma il buio continuò a restare gravido di silenzio. Irene affondò la faccia nel cuscino e giacque come morta sul letto, la schiena sussultante: “R…”
Come faceva a provargli i suoi sentimenti? Se l’occasione non le si presentava presto, non avrebbe mai potuto convincerlo a venire allo scoperto. R manteneva sempre le sue promesse, così si sarebbe fatto vedere solo nel caso in cui lei avrebbe prestato fede alla sua.
 
Il giorno dopo era scostante e imbronciata e non prestò minimamente attenzione a suo padre che tentava di domandarle con gentilezza cosa fosse successo quella notte. Rispose in malo modo e non si pentì vedendolo andar via con l’aria da cane bastonato. In quel momento le importava solo di R e di trovare il modo di fare quello che le aveva chiesto.
“Ma cos’è che teme?” si chiese disperata, mentre suonava l’arpa assorta nei suoi pensieri: “Perché non vuole mostrarsi a me? Ora che mi è così caro, ora che non posso fare a meno di lui? Cosa lo spinge a restare nascosto? Paura? Di cosa, poi? Pudore? Insicurezza? Oh, povera me! Perché dev’essere tutto così complicato?”
Se solo R non fosse stato un misterioso uomo senza volto, ma una persona come tutte le altre! Ora come ora non ne avrebbe parlato neanche a suo padre. Ma d’altronde se R non fosse stato R lei non avrebbe provato quei sentimenti per lui. Ne era stregata, senza averlo mai visto. R era riuscito a conquistarla senza neanche farsi vedere. E il suo povero, vecchio Stephan, che l’aspettava in città, che le aveva donato l’anello, che aveva già in mente propositi seri…che fine aveva fatto, lui? Non era mai nemmeno venuto a farle visita. Se sperava che Irene sprecasse un pensiero per lui, era un illuso, uno stupido illuso. Oh, ma perfino per Stephan non aveva smesso di provare qualcosa! Stephan emanava un’aura di salvezza, di rassicurazione, che tuttora l’attraeva, anche se con minor intensità di prima. Era troppo presa da R e dall’alone di mistero che non l’abbandonava mai.
“R, cosa provi per me? Cosa vuoi da me? Perché hai voluto parlarmi? Solo per far cessare la tua solitudine?” chiese ad un immaginario interlocutore, smettendo di suonare e appoggiando le mani in grembo con angoscia. Per spingerlo a rivelarsi avrebbe dovuto provargli i suoi sentimenti, ma se almeno fosse riuscita a scoprire dove si nascondeva…
Un fruscio. Lievissimo. Come di qualcosa che si trascina, o meglio…che striscia. Identico a quello che aveva sentito il primo giorno che era venuta a Heather Ville, e che l’aveva spaventata a morte. Non appena le sue orecchie ormai allenate lo captarono, fu rapida a balzare in piedi e a fissare il punto da cui proveniva. Stavolta non s’era fatta cogliere impreparata: veniva dal muro scrostato che aveva di fronte. Anzi, da dentro il muro.
Fu come se le si accendesse una lampadina nel cervello. Presa da una frenesia che rasentava l’isteria, si gettò sul muro e vi incollò l’orecchio ansimando. Aveva i sensi attentissimi: lo strisciare si stava allontanando velocemente, attraverso il muro. Attaccata ad esso come un ragno, Irene cominciò a muoversi con i fruscii, tastandolo freneticamente, in più punti, terrorizzata al pensiero di perderli. Oddio, oddio, oddio…come aveva fatto ad essere così cieca, anzi, così sorda?
Allorché giunse sulla soglia della stanza della musica, uscì rapidamente e si incollò subito al muro che proseguiva lungo il corridoio: lo strisciare proseguiva. Irene continuò a seguirlo, sempre più in fibrillazione, pallida, con l’aria rovente che le sibilava tra i denti serrati. Oltre la superficie dura e scrostata a cui era abbarbicata, un altro corpo si muoveva rapido e sinuoso, strisciando. Svoltò bruscamente sulla parete che aderiva alla scalinata cigolante e Irene gli venne dietro, percorrendola più velocemente che le riusciva. Il cuore le martellava convulso contro il petto.
Ad un certo punto il rumore si allontanò, il corpo che strisciava la stava seminando. Irene affrettò il passo ed entrò in un salottino fiocamente illuminato. Seguì il muro fino a trovarsi davanti…la grata. Il buco nero chiuso dalle sbarre che aveva notato all’inizio. Subito si aggrappò ad esso e cercò di spingere la testa dentro più che poteva, ma era tutto solo una tenebra gelida e puzzolente di marcio. Un cunicolo che correva lungo tutto il muro e che aveva un’apertura laddove era situata la grata che Tommaso le aveva detto essere un condotto di areazione. Un enorme condotto di areazione che aveva un’apertura in ogni stanza e che occupava tutta la casa come un perfetto dedalo di stretti cunicoli totalmente bui. Un condotto di areazione in disuso da anni, che ormai non si sapeva nemmeno più a cosa servisse.
“Oh mio Dio” pensò Irene, le dita strette alle sbarre, gli occhi che cercavano invano di frugare il buio densissimo che avvolgeva il nascondiglio: “È qui che si nasconde”.
Quella era la tana di R. Un’oscurità stretta, puzzolente e assoluta, pervasa da un gelo che ghiacciava le ossa, un’oscurità che gli permetteva di strisciare ovunque e di spiare tutti quelli che si muovevano ad Heather Ville, in cui si era confinato per nascondersi da loro. Un labirinto che solo un genio o un folle sarebbe stato in grado di memorizzare e far suo.
“R!” gridò la ragazza, all’interno del cunicolo che aderiva a quel muro. L’eco fece rimbombare ovunque la sua voce, ma non giunse risposta né sentì più alcun fruscio. Probabilmente lui ora stava strisciando ai piani alti, furioso, ammirato o stupefatto che lei avesse scoperto il suo nascondiglio. Un nascondiglio in cui non si sarebbe mai infilata, nemmeno se ne fosse andato della sua stessa vita: la prova che gli aveva concesso era ancora valida, non sarebbe mai andata a cercarlo in quell’oscurità, che lui conosceva assai meglio di lei.
“R” mormorò infine, fissando il cunicolo: “Sei la persona più incredibile che io abbia mai conosciuto. Non ti cercherò. Troverò il modo di provarti i miei sentimenti. Ma ora so dove sei”.
 
Quella sera stessa, poco prima dell’ora in cui solitamente lei ed R intraprendevano una delle loro solite conversazioni, Irene era in piedi di fronte alla grata buia che dava sul letto in cui lei dormiva ogni notte. Era strano pensare che lui le aveva parlato da lì tutto quel tempo, fissandola, e che lei non se n’era mai accorta. Ma adesso avrebbe provveduto. Una volta per tutte.
Aveva fatto in modo di procurarsi un martello, una pinza e il rebbio di una forchetta. Poiché a volte Stephan le aveva dato qualche dritta circa quel genere di lavoretti, si sentiva più o meno in grado di portare e termine il suo proposito. Aveva detto che non l’avrebbe cercato, ma non che l’avrebbe costretto a parlarle da dietro le sbarre, come un carcerato o una belva feroce. Con la testardaggine che le era famosa, si tirò i capelli dietro le orecchie, si rimboccò le maniche e impugnò decisa il martello.
Fu un lavoro lento ma meticoloso. Prima valutò varie posizioni, spostandosi in modo da guardare i chiodi metallici che assicuravano la grata di sbarre all’apertura da varie angolazioni, poi s’era messa all’opera con la massima cura, partendo da quello di destra. Afferrò il chiodo con la pinza e delicatamente tentò di levarlo. Era assicurato piuttosto bene, così dovette fare forza e tirare con violenza per smuoverlo. Allorché lo ebbe fatto, liberò definitivamente quel lato col rebbio che infilò nei forellini nel metallo, pulendoli da frammenti di pietra che li bloccavano al muro. A quel punto, soddisfatta, sorrise, si deterse il sudore dalla fronte, e ripartì con il lato sinistro.
Dopo circa un’ora che lavorava senza concedersi soste, finalmente la grata di sbarre che aderiva alla buia apertura dei cunicoli si staccò e Irene dovette fare un enorme sforzo per sostenerla, barcollando pericolosamente in obliquo. Tuttavia, il cuore le si aprì per la gioia: ce l’aveva fatta! Ora aveva davanti solo un buco che non era chiuso da nulla, un semplice buco nero e gelido che poteva trapassare con la mano.  Irene si lavò le mani in bagno, fremente al pensiero che quella notte R avrebbe avuto a separarlo da lei soltanto un salto che l’avrebbe portato dal cunicolo al pavimento della stanza. Un salto che, non si faceva illusioni, difficilmente avrebbe fatto prima che lei gli avesse dato la prova che agognava, ma che era più abbordabile d’una grata di sbarre da smuovere.
Dopodiché indossò la camicia da notte, si pettinò i capelli e s’infilò a letto, senza però addormentarsi, ma restando ben desta con la schiena appoggiata alla testiera e gli occhi aperti fissi sul buco nero ancor più nero del buio tutt’intorno, in attesa che R mostrasse la sua reazione in seguito alla scoperta.
La reazione di R fu il silenzio. Irene sapeva che era lì, ne captava la presenza che la fissava dal buco del nascondiglio, e il respiro ansimante, ma la sua voce non arrivò a darle conforto. Terrorizzata al pensiero d’averlo perso per sempre per essersi presa quella piccola libertà, disse distintamente: “R, non voglio che tu ti arrabbi con me. È stato per puro caso che ho scoperto dove ti nascondi, non intendevo farlo. Ti sei tradito facendo rumore. Come vedi, però, io non sono andata a cercarti. Ho solo tolto queste sbarre perché non voglio avere nulla che mi allontani da te. Non ho dimenticato il nostro patto: cercherò il modo di provarti la mia stima, ma nel frattempo, te ne prego, continuiamo come se non fosse successo nulla. Soffrirò, ma rispetterò i tuoi voleri. Non violerò mai il tuo nascondiglio”.
Al di là del buco tutto taceva, ma le parve di scorgere un luccichio di occhi che la fissavano febbrili. Guardò proprio in quella direzione, e insistette, col tono più dolce che le riusciva: “Io ho solo te, R, lo sai. Non ti tradirò. Fidati di me. Parla senza timore, ti giuro che non cercherò mai di guardarti, se non vuoi”.
Ciò che avvenne in seguito, l’avrebbe ricordato per sempre. Sebbene fosse buio, vide con chiarezza una mano coperta da un guanto di cuoio nero uscire dalle tenebre del buco e tendersi, come in una disperata richiesta di aiuto, verso di lei. Il resto del corpo restò nascosto (evidentemente neanche R aveva dimenticato il loro patto), ma una mano solida come la cassapanca che le stava al lato esitò, col palmo rivolto all’insù.
Irene si sentì sopraffare dalla tenerezza e dall’emozione e le lacrime le salirono agli occhi, mentre fissava la mano di R che emergeva dal buio timida e tremante, chiedendo grazia da lei. Lui era davvero lì, solido e reale, un punto interrogativo, ma…un uomo! Non un parto della sua fantasia! Un uomo che le tendeva la mano come un bambino, e si ostinava a nascondersi nell’oscurità.
Si alzò lentamente dal letto, e allorché fu in piedi s’accorse di tremare come una foglia. Avanzò a stento verso quella mano tesa come se si trattasse d’una visione, con la vista appannata dalle lacrime che le rotolavano sul viso. A sua volta allungò la mano, esitò un istante, poi prese quella di lui, stringendola. Non poteva sentirla, era coperta dal guanto, ma emanava calore ed era la mano di una persona viva e animata dalle emozioni. Emise un singhiozzo e sorrise della gioia di quella conquista, mentre le sue dita esili si intrecciavano a quelle di R. Erano ognuno rifugiato nel suo nascondiglio, lei nella sua stanza, lui nel suo cunicolo, le mani strette a metà tra i due, che si accarezzavano a vicenda come a studiare l’altro e a trasmettergli affetto tramite quella piccola stretta che per ora non permetteva nulla di più. Irene non avrebbe mai voluto lasciare andare quella mano.
“Irene” disse infine R, stavolta molto più vicino, dalle tenebre del suo buco, senza lasciarle la mano. La voce gli tremava un po’: “Ora so come fare a non rovinare tutto. Grazie a te. Porta a termine la prova e finalmente potrò uscire ed esserti accanto. Tu per me conti più di chiunque altro. Ti prego, salvami dalla mia solitudine. Ti ho scelta come compagna non appena ti ho vista. Io ti amo, Irene” ammise infine con difficoltà: “E probabilmente te ne fai poco dell’amore di un dannato, di un…” esitò: “Ma il mio amore per te è sincero ed intenso e farò di tutto perché tu lo ricambi. Sei…sei una ragazza splendida”.
Commossa dalla dichiarazione e ancor più dall’incredibile scoperta che R la amava, Irene sorrise raggiante e gli strinse ancora di più la mano: “Non devi temere riguardo a questo, R. Tu mi hai già conquistata da tempo. Farò di tutto per dimostrartelo. Se sei dannato, non mi importa. Saremo dannati insieme. La tua presenza mi è cara più di quella del mio stesso padre”.
Le sue parole trasudavano sincerità, era travolta dalla gioia che R si fosse innamorato di lei. Oh, lei voleva essere al suo fianco, con tutta se stessa! La mano di lui le accarezzò amorevolmente il palmo, e infine lui ripeté: “Ti amo, Irene. Non me ne andrò mai”.
     

 




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1009459