This is the last time I let you cook_
Quando Inghilterra si
era proposto di preparare la cena quella sera, America aveva avuto
subito che ridire: «Non pensarci nemmeno! Perché piuttosto
non... erhm... ecco, andiamo fuori? Sì sì, è da
tanto che n...!».
«America, sei
malato» l’interruppe glacialmente Arthur, lanciandogli
un’occhiata di traverso: aveva l’influenza già da
qualche giorno, eppure si ostinava a non volerne sapere di rimanere a
letto a riposare perché diceva che si annoiava. Così
girovagava per casa ignorando ogni richiamo che l’ex madrepatria
gli faceva perché si riguardasse.
Anche in quel preciso
momento avrebbe dovuto essere a dormire, invece che lì, in piedi
sulla soglia della cucina della casa del britannico con indosso il
pigiama più pesante che aveva e la vestaglia che Inghilterra gli
aveva prestato perché stesse un po’ più al caldo.
«N-no, non è
vero! Sto meglio!» mentì spudoratamente Alfred, sudando
freddo alla sola idea che Inghilterra potesse anche soltanto avvicinarsi ai fornelli «Per cui... perché non andiamo a mangiare fuori, eh?».
«Scordatelo, tu
rimani in casa» controbatté Arthur recidivo, afferrando il
proprio grembiule giallo da cucina.
America avrebbe potuto insistere quanto voleva, ma agli occhi del Kirkland era palese
che stesse ancora male: il più giovane aveva le guance arrossate
in modo quasi innaturale e, se lo fissava a lungo, riusciva a percepire
un lievissimo tremito nel suo corpo.
Probabilmente la febbre
stava aumentando di nuovo e quel cocciuto non voleva farglielo notare,
impegnato com’era a dimostrare quanto fosse forte e resistente.
«E stasera cucino
io» aggiunse con tono solenne l’inglese «Hai bisogno
di mangiare qualcosa di sano, non il solito, disgustoso cibo da fast
food».
Alfred boccheggiò
senza sapere cosa replicare: l’espressione esasperatamente greve
dell’ex madrepatria la diceva lunga su quanto sul serio stesse
prendendo il compito che si era autoimposto, e cioè prendersi
cura di lui.
Anche se non lo diceva a
parole, era palese che fosse una forma di amore nei suoi confronti e
l’americano lo sapeva bene: ormai si conoscevano da così
tanto tempo che aveva imparato quasi alla perfezione a leggere le
emozioni del britannico tra le righe delle sue azioni.
Se da un lato l’amore
era ciò che spingeva Arthur ad agire in quel modo,
dall’altro costituiva anche il maggior ostacolo per Alfred. Se
non ci fosse stato un vincolo affettivo così profondo con lui,
America non avrebbe avuto nessun motivo per trattenersi dal dire le
cose esattamente come stavano, e cioè che non voleva che il
maggiore cucinasse perché ogni suo piatto era un attentato alla
sua vita.
Ricordava che anche
quand’era bambino non era mai riuscito a dirglielo:
l’espressione teneramente compiaciuta che l’inglese gli
aveva sempre rivolto mentre lo guardava mangiare era stato il
più grande freno alla sua franchezza che avesse mai incontrato.
«Ma
perché?» tentò ancora una volta Alfred, cercando di
far ragionare l’altro benché non avesse la più
pallida idea di come poter deviare le sue intenzioni «S-se cucino
io, mh? Tu ti metti seduto in soggiorno, ti leggi uno di quei libri
assurdi pieni di fatine e maghi e folletti che ti piacciono tanto
mentre i...»
«Perché non vuoi che cucini io?».
La domanda riempì la cucina improvvisamente silenziosa quasi riecheggiando contro le pareti della stessa.
Alfred lo fissò
semplicemente, mordendosi il labbro inferiore nel notare
un’espressione confusa e allo stesso tempo rattristata comparire
sul volto dell’ex madrepatria. Non ce la faceva a rispondergli
sinceramente: ferirlo in quel momento, con quell’espressione sul viso, gli risultava praticamente impossibile.
Percepì del calore
aggredirgli le guance mentre dentro di sé ragionava sui pro e i
contro del dirgli la verità: se da un lato si sarebbe
senz’altro risparmiato la vita, dall’altro però
avrebbe completamente distrutto Inghilterra, che non si stava offrendo
di preparargli la cena con il preciso intento di ucciderlo,
bensì con la buona volontà di chi cerca di far stare
meglio una persona cara.
«Errhm... i-io...» esordì Jones, ancora fortemente indeciso su che partito scegliere.
Gli occorse soltanto un attimo in più per decidere delle sue sorti.
«N-niente... fai
pure...» acconsentì, abbassando gli occhi dal viso del
britannico al pavimento. Nel far ciò notò una inaspettata
scintilla d’allegria illuminargli lo sguardo e ciò, se non
altro, lo convinse d’aver fatto la cosa giusta.
Ora che ci pensava meglio,
lui era un eroe. Gli eroi si sacrificavano sempre per il bene del
prossimo - o per la gioia del proprio amante, nel suo caso specifico.
«Allora va’ di
là e riposati mentre io cucino» disse Arthur,
avvicinandoglisi per sospingerlo verso il soggiorno «Ti chiamo
quando ho finito».
La cena non era stata poi
così disgustosa come aveva temuto. America ricordava
d’aver mangiato cose che avevano sapori ben peggiori
quand’era stato colonia di Inghilterra, e tutto sommato la
minestra di quella sera poteva asserire con certezza che avesse un
gusto quantomeno decente.
Si era illuso di averla
scampata - addirittura aveva creduto che il maggiore fosse riuscito a
metter da parte tutto il suo orgoglio e si fosse deciso finalmente ad
utilizzare un libro di ricette per cucinare o che avesse preso lezioni
da qualcuno.
Le sue illusioni
però erano state cancellate qualche ora più tardi, nel
pieno della notte, quando Alfred era stato svegliato da atroci fitte
allo stomaco.
Sdraiato su un fianco nel
letto a due piazze che di solito condivideva con Inghilterra - che data
la sua malattia aveva preferito dormire sul divano per non essere
contagiato e potersi poi prendere cura di lui con più efficienza
- America cercava di riprender sonno e di ignorare il dolore ed i
continui gorgoglii affatto rassicuranti provenienti dal suo stomaco.
«Io
che credevo di essermi salvato...! Però Inghilterra alla fine
della cena era contento che avessi mangiato tutto...».
In effetti,
l’espressione di mite soddisfazione che gli aveva rivolto
l’inglese alla fine del pasto era stata la cosa più bella
dell’intera serata. Per un momento Alfred aveva avuto la
sensazione di essere tornato indietro nel tempo all’epoca del
colonialismo britannico.
L’unica differenza
era che adesso convivevano non perché lui fosse il fratellino
adottivo da proteggere dalle altre nazioni, bensì perché
si amavano.
Un ennesimo, acuto lamento
da parte del suo stomaco interruppe il filo dei suoi pensieri,
facendolo dolorosamente tornare al presente.
«Che
maleee...!» si lamentò a mezza voce, raggomitolandosi
ulteriormente sotto le coperte «Questa è l’ultima
volta che lo lascio cucinare! In un modo o in un altro devo trovare la
maniera di dirgli che cucina male...!» promise a sé
stesso, stringendo i pugni con decisione.
Stavolta era serio, non
come tutte le altre precedenti volte in cui aveva giurato a sé
stesso di parlare della sua cucina orribile ad Inghilterra e poi,
puntualmente, quando aveva dovuto farlo si era tirato indietro,
rimandando alla volta successiva mentre si sorbiva i dolori conseguenti
alla sua codardia.
L’avrebbe ferito, era
inevitabile e lo sapeva bene, ma d’altro canto non poteva
continuare a lasciargli campo libero in cucina solo perché
voleva evitare di litigare sull’argomento.
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