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{ Capitolo 5
~La Dea dal Volto
Velato
Romanus aprì le porte del padiglione e i
medici sussultarono.
Tutti attorno alla stuoia rialzata, chi con una
preghiera sulle labbra, chi con un pestello, chi con una coppa ricolma d’acqua
e petali scarlatti, tutti, nessuno escluso, alzarono il capo, esterrefatti
dalla presenza di un estraneo nelle stanze di Ammone.
Senza degnarli di una parola o di uno sguardo che
non fosse di tale odio e disgusto da far gelare il sangue, Romanus s’avvicinò al capezzale d’Egitto, rimanendo a fissarlo col
volto contratto.
Sudato, pallido, emaciato, il viso privo d’ogni
colore, Ammone si dibatteva sulla stuoia, smozzicando e ansimando parole senza
senso, sbattendo le palpebre gonfie e livide, da cui a stento si intravedeva la
striscia bianca della sclera. Ai lati delle labbra, d’un colore immondo, simile
a quello degli annegati, si raggrumavano gocce di sangue scuro e dal lezzo
insopportabile, che poi colavano, lente, giù, lungo il mento, fino a perdersi
nel panno della serva intenta ad asciugargli il volto per lenire almeno un poco
il suo dolore.
-Non dovreste essere qui-
Romanus alzò la testa verso l’uomo che
aveva parlato –un Sacerdote allampanato,
con il cranio rasato e la mascella squadrata-, ma non diede alcun peso alle
sue parole.
Non doveva essere lì? Stavano forse scherzando? Il
Regno d’Egitto era sull’orlo del collasso –e
Roma non poteva permettersi di subire le conseguenze economiche della sua
caduta- e lui non doveva essere lì?
Pazzi.
-E voi dovreste curare il Regno d’Egitto- ghignò,
inarcando un sopracciglio –Come vedete, non sono l’unico a non adempiere ai
miei doveri-
Le labbra del Sacerdote si strinsero fino a
diventare una linea scura sul volto livido.
-Rimarrò qui- disse Romanus, prendendo posto su una seggiola intarsiata lì accanto
–Fino a quando il Regno d’Egitto non riaprirà gli occhi su questo mondo-
E così fece: non s’allontanò dal capezzale d’Ammone
un giorno o una notte, rimanendo come un’ombra dietro le schiene curve dei
cerusici e dei Sacerdoti, premiando le serve che li aiutavano con un sorriso –e ben altro- se Egitto dava segni di
miglioramento; sibilando minacce e sfiorando la guaina del gladio se vedeva in
lui una ricaduta.
Non era raro vedere Romanus, nel mentre che Ra affrontava la sua lotta per rinascere
all’alba, con una mano sulla fronte di Ammone, oppure ritto dinanzi la stuoia,
gli occhi fissi sul corpo sempre più magro di Egitto.
***
-Cesare vuole incontrarvi in privato, dominus- Romanus sorrise compiaciuto dell’appellativo che il servo aveva
usato per rivolgersi a lui –Vi attende alle scuderie-
-Per quale motivo?- chiese Roma, corrugando la
fronte e alzandosi dallo sgabello.
-Non lo ha detto, dominus- il servo chinò il capo –Sono desolato, non lo ha detto-
Romanus si affiancò alla stuoia di
Ammone, scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte: ora Egitto riposava
tranquillo, il fiore rosso, come
l’avevano chiamato i Sacerdoti, aveva fatto il suo effetto. Lasciarlo solo..
-Non abbiate timore, dominus- mormorò la Sacerdotessa rimasta a vegliare insieme a lui
–Rimarrò io col mio signore: non lascerò che gli accada nulla di male-
-E sia- rispose Roma, voltando le spalle ad Ammone
–Se veglierai con cura, sai ben ricompensata-
Un sorriso gli scivolò sulle labbra e potè essere
sicuro che, dietro di lui, la donna era vistosamente arrossita.
***
-Che ne pensi di questo stallone, Romanus?- domandò Cesare, carezzando il
muso nero del cavallo.
Romanus incrociò le braccia al petto e,
pur sapendo che non era certo per quel motivo che l’altro lo aveva chiamato,
accondiscese a prendere tempo: osservò l’animale con attenzione, ne controllò i
denti e gli occhi, fece scorrere le dita tra la criniera e sul manto, saggiando
la durezza degli zoccoli e la potenza delle zampe.
-E’ un ottimo cavallo, Cesare- annuì, quando ebbe
finito –Pare veloce e agile, ma non servirà a portarti al di là del mare. Se
vuoi tornare a Roma, hai bisogno di una nave-
Il console accusò il colpo con un sorriso, poi
chiamò uno stalliere, intimandogli di portare un altro cavallo, il migliore
dopo lo stallone nero.
-Quali sono le tue intenzioni?- chiese Romanus nel prendere le briglie che il
servo gli porgeva.
Cesare non rispose e si issò sullo stallone; quello
nitrì, arretrando e scalciando, ma l’uomo non demorse e, con parole mormorate a
mezza voce e carezze sul collo, riuscì a domarlo. Rizzò la schiena, tirando
appena la cavezza e abbassò lo sguardo su Roma.
-Hai mai cavalcato attraverso il deserto?-
***
Dietro di loro, Alessandria scomparve nel turbinare
della sabbia e nella fiamma del sole.
La via carovaniera procedeva diritta, una lingua
dorata di pietrisco che si srotolava nel verde, affiancandosi all’azzurro del
Nilo.
I cavalli, il cui manto già si era imbiancato per la
polvere sollevata dagli zoccoli, galoppavano col collo piegato verso terra tale
era la velocità e il vento che andava loro contro; lo stallone di Cesare apriva
la strada, mentre Romanus si teneva
abbastanza indietro dal console, studiandone il volto contratto sì per lo
sforzo, ma anche per..no, non avrebbe saputo dirlo. Cosa poteva turbarlo? Non
erano giunte notizie infauste da Roma, né l’oracolo aveva presagito, almeno per
il momento, qualcosa di terribile. Aveva parlato di un giunco di papiro, sì, e
una piccola lupa che giocava con esso, ma senza strapparlo o morderlo; accanto,
aveva aggiunto la profetessa, un falco vegliava sull’animale.
Cosa potesse significare, Romanus non avrebbe saputo dirlo: indubbiamente, sapeva che la Lupa
indicava Roma, ma il giunco e il falco1? Erano segni a lui
sconosciuti e non sapeva quale fosse l’entità del loro significato. Certo era
che, quando Cesare aveva saputo del responso dell’oracolo, non era sembrato
tanto confuso quanto..stupito, e
perfino l’ombra di un sorriso –il sorriso del condottiero, del console,
dell’uomo politico, ma anche..- gli aveva sollevato le labbra.
Come poteva Cesare sapere cose che lui ignorava?
Romanus alzò gli occhi e si affiancò
all’altro, che ora procedeva al passo, lo sguardo perso a contemplare le acque
sinuose del Nilo che si perdevano in lontananza. Scesero insieme lungo
l’avvallamento, avvicinandosi alle rive del fiume, per poi smontare da cavallo
e lasciare che gli animali si riposassero dopo la corsa.
-Cosa turba il tuo animo?- Romanus fissò Cesare in viso –Parlamene-
Il console alzò gli occhi su di lui e non sfuggì il
suo sguardo: lo sostenne per alcuni istanti, inspirando a fondo, poi disse
-Un erede-
-Come..?- Roma inarcò le sopracciglia, senza capire
–Che intendi?-
-Un erede per l’Egitto..-
Romanus sentì lo stomaco torcersi: Tolomeo
era dunque riuscito a procurarsi una discendenza! Eppure Cleopatra non aveva
condiviso il talamo con lui nemmeno una notte, lo sapeva bene. Così come sapeva
bene che nessuna delle concubine era rimasta incinta: la maestria di erbe e
rituali avevano fatto sì che ciò accadesse.
Un erede d’Egitto! No, non era notizia fausta, non
riusciva a vederla come tale. Un nuovo erede, il desiderio di fuggire dalla
sfera di influenza che tanto Roma aveva cercato di tessere attorno ad
Alessandria e alla sua corte..
-..e per Roma-
Roma sentì la bocca farsi secca e il mondo parve un
attimo vacillare sotto i suoi piedi; si voltò a guardare il console con occhi
sgranati, incapace di credere a quanto aveva appena sentito.
-Cleopatra..!- boccheggiò, la voce ridotta ad un
sussurro rantolante –Cleopatra è..!- ma non riuscì a finire la frase, che già
si accorse come lo sguardo di Cesare fosse attirato da tutt’altro.
Romanus seguì gli occhi del condottiero
–del padre del futuro signore
dell’Egitto..e di Roma-, fino ad incontrare le acque del Nilo che, davanti
a loro, ribollivano di schiuma bianca e rossa.
Entrambi indietreggiarono, inorriditi da dal
prodigio cui stavano assistendo: il fiume si gonfiò, allungandosi in una polla
lucente e si lascerò a metà, scivolando su di una corona a guisa di avvoltoio.
Dapprima la testa, il volto coperto da un velo
bianco, il collo appesantito da tre giri di granato, turchese e malachite, poi
il petto nudo, il seno percorso da brividi di freddo, i capezzoli, cosparsi di
polvere d’oro, inturgiditi, le braccia abbronzate, la veste tinta di zaffiro
che lasciava intravedere la vita sottile e le gambe snelle, e infine i piedi,
nudi, su cui si arricciavano viticci d’henné.2
Romanus trattenne il fiato mentre la
donna, no, la divinità velata delle
acque gli passava accanto, piegando appena il volto nascosto verso di lui: a
quel gesto la parrucca a trecce nere si scostò in un tintinnio di perle,
lasciandogli scorgere il profilo di un orecchio e un frammento di kohl, steso fino alla tempia. Se la Dea
gli avesse sorriso, egli non avrebbe saputo dirlo, ma si ritrovò comunque
avvinto dall’incantesimo che la donna pareva aver gettato anche su Cesare.
Il condottiero fece per precedere Romanus, ma la sconosciuta, come
avvertendo quel gesto, si voltò e rimase immobile a fissare, da dietro il velo,
il volto del console. L’uomo si immobilizzò e lanciò un’occhiata a Romanus: questi nemmeno gli rispose. Lo
lasciò indietro, sulla riva del Nilo, seguì la dea lungo il declivio, l’aiutò a
montare a cavallo e si sedette dietro di lei.
Non protestò quando la donna prese le redini e guidò
il cavallo al galoppo. Le strinse le braccia attorno alla vita e rimase in
silenzio.
***
-Mia signora!- Iras la sostenne, mentre Carmiana
chiamava un servo perché facesse arrivare subito un medico –Mia signora,
sedete! Riposate!-
Cleopatra la allontanò da sé con un gesto seccato,
asciugandosi le labbra. Il mondo girava, i colori si confondevano, la terra
mancava il suo appiglio; la testa doleva e pulsava, e il sapore acido in bocca
gli bruciava la gola.
Si portò una mano al ventre, respirando con affanno.
-Domina!-
Iras si lasciò sfuggire un gridolino e Cleopatra la
fulminò con lo sguardo, prima di voltarsi e sostenere gli occhi preoccupati di
Cesare come se nulla fosse accaduto. Trattenne il fiato, tuttavia, quando vide
il volto del console corrugato per un’ansia che solo in minima parte era
indirizzata alla madre del suo futuro erede.
-Cosa ti turba, oh Cesare?- gli chiede, posandogli
le mani sulle spalle e cercando gli occhi dell’uomo, che tanto fuggivano i
propri.
Il console si passò una mano sulla bocca, nel gesto
di chi sta setacciando le parole adatte in un discorso lungo e ingarbugliato,
come colui che cerca di scovare la chiara lucentezza della fonte in acqua
torbide e limacciose.
-Una donna- rispose, infine, inarcando le
sopracciglia –Una donna che mai avevo visto prima, ma che riconobbi perché è la
medesima ritratta nel ventre scuro dei tuoi templi-
Cleopatra sgranò gli occhi e si allontanò dal
romano, portandosi una mano alle labbra. Che fosse…? No. L’aveva lasciata
assieme alle sacerdotesse di Hathor, perché officiasse una cerimonia antica quanto
il tempio per coloro che ancora servivano i vecchi dei. Il proprio timore era
infondato. Non poteva essere…
-Descrivimela- e non era una preghiera, quanto un
ordine. L’ordine della Regina delle Due Terre.
Cesare dovette accorgersi di quel mutamento nella
voce di lei, perché storse le labbra e l’insofferenza per il tono disegnò una
ruga torta sulla fronte altrimenti spianata.
-Il volto era coperto, un velo candido le nascondeva
gli occhi. Portava una parrucca di trecce nere, sormontata da una corona ad avvoltoio,
di quelle che indossavano le tue Madri prima che il Persiano conquistasse
l’Egitto3-
La Regina pregò che la nausea alla bocca dello
stomaco fosse una mera conseguenza del bambino che portava in grembo e non di
un presagio nefasto per la Terra Nera. Era lei, non v’erano dubbi. Sebbene le
fosse ormai chiaro, chiuse gli occhi e si dispose ad ascoltare fino alla fine
il racconto sempre più concitato ed affettato di Cesare.
-Ed indossava una veste azzurra, del colore che voi
dite essere dei capelli degli dei; un collare a tre giri le pesava sul petto
nudo e i piedi calzavano sandali d’oro, di tale splendore che non mi stupirei
di vederli tra i tuoi preziosi, mia Cleopatra-
-Che fece quella donna, Cesare? Vi disse qualcosa?-
-No, rimase in silenzio. Tacque, emersa dalla acque
come..-
-Emerse dalle acque?- l’egiziana si aggrappò alle
spalle del console -Non mentirmi, Cesare! Non mentire a Cleopatra!-
Il romano indietreggiò, stupito da quel gesto
improvviso, e le prese le mani fra le sue, scuotendo appena il capo.
-Nessuna menzogna, mia Regina, ve lo assicuro. Se
non l’avessi vista con questi stessi occhi..! Ma è tutto vero, Giove Ottimo
Massimo mi sia testimone e possano le Furie trascinarmi nell’arido deserto
infuocato se ciò che ora ti sto per dire non corrisponde a verità! Le acque del
Nilo sorsero dal letto del fiume e si divisero sul suo capo, scrosciando alle
sue spalle e svanendo nella bianca spuma! Ed ella, in silenzio, mi impedì di
seguirla, ma senza parlare ordinò a Romanus
di andare con lei. Ed egli obbedì-
***
Il sole stava declinando oltre l’orizzonte.
Il sangue del giorno schizzò vermiglio contro il
cielo e la notte sollevò la propria lama lucida di stelle, rinfoderandola
dietro le dune.
Romanus tese l’orecchio a cercare
l’uggiolio dei cani a cantare i passi silenziosi di Ecate, ma non era più
nell’Urbe, non più in attesa ai crocicchi tintinnanti di bronzo. A dire il
vero, non si trovava nemmeno più ad Alessandria, ormai svanita nel paesaggio
alle proprie spalle.
Aveva seguito il cammino del sole per capire quanto
tempo fosse passato dacché la donna dal capo velato l’aveva condotto sulla
barca dalla prua a fusto di papiro con un fiore di loto arricciato verso
l’interno, ma nel fissare in silenzio il grembo disteso del cielo era come
scivolato in una sorta di incoscienza, da cui si era risvegliato solo alla
presa ferrea di uno dei nubiani dalla pelle lucida e la mascella squadrata.
Era il tramonto e ogni segno di vita era scomparso:
sulle rive del Nilo non più donne s’affaccendavano per raccogliere l’acqua, non
più fanciulli si rincorrevano schizzando schiuma e fango, non più vecchi torti
dall’età fissavano il proprio riflesso limaccioso. Li aveva visti con la coda
dell’occhio alzare la testa, mentre la barca passava, e rivolgere gesti
riverenti, parole appassionate, alcuni, addirittura, si erano prostrati tra i
giunchi tale era la loro reverenza.
E Romanus,
in quel limbo tra l’incoscienza e la comprensione di sé, aveva trovato quel
comportamento tra il più funesto dei presagi: non un solo istante aveva
lasciato andare il pomo del gladio.
Il nubiano ruggì di nuovo qualcosa nella sua lingua
bestiale e Romanus assottigliò lo
sguardo. Non somigliava per nulla agli ambasciatori vestiti di colori
sgargianti e dal greco fluente che aveva incontrato il lontano giorno dello
sposalizio di Cleopatra e Tolomeo, e nemmeno ai legati che aveva intravisto a
palazzo nei giorni precedenti alla guerra, dove oziare sotto il sole d’Egitto
pareva così semplice da poter essere annoverato tra le leggi naturali in quel
paese straniero.
No, il nubiano che gli stava di fronte aveva tratti
rozzi e bestiali, la mascella squadrata e prominente; il corpo massiccio, cotto
dal sole e tirato sulle spalle e sul petto largo come cuoio, gli conferiva una
forte pesantezza e ferocia. Era nudo fino alla cintola, il basso ventre coperto
solo da un gonnellino di lino bianco che a stento gli arrivava alle ginocchia larghe
e di parvenza sgraziata. Gli occhi, infossati nella fronte gibbosa, sembravano
ancor più incavati a causa della linea del kohl che gli tingeva la pelle fino a
poco dopo la piega della palpebra; negli occhi fangosi non v’era lume di
comprensione, né di umanità.
Romanus lo seguì, le dita sempre strette
al pomo del gladio; fissò gli occhi sulla schiena bruciata, ma non fu certo
così incauto da dimenticare gli altri barcaioli –nubiani anch’essi. Assunse un’espressione fredda e si lasciò
guidare fino al naos, posto al centro
dell’imbarcazione; il nubiano si fermò dinanzi alla tenda tinta del color del
diaspro e sostenuta da urei dorati, dandogli l’ordine di entrare. Romanus inarcò un sopracciglio e gli
indirizzò un ghigno divertito, come a rimarcare la propria posizione di
superiorità: a lui, quanto meno, era concesso di entrare al cospetto della
donna e sperare di vederla in viso.
Ella, infatti, dopo averlo condotto a cavallo fino
alla barca, aveva sfilato sulla passerella accanto ai nubiani rigorosamente a
capo chino, ed era entrata nel naos, senza più uscirne.
-Posso sapere per quale motivo sono stato convocato
al vostro cospetto, domina?- chiese
quando si fu introdotto ed ebbe lasciato cadere la tenda dietro di sé -Una
risposta mi sembra più che mai doverosa, visto…- ma, di nuovo, le parole gli
morirono sulle labbra.
La donna stava ritta dinanzi ad un piccolo braciere
acceso e gli dava le spalle: con una mano andava a prendere alcuni petali
contenuti in un vaso d’albastro, gettandoli poi tra i tizzoni ardenti, e con le
dita intrecciava il fumo azzurrino che si levava dai resti inceneriti del fiore
di loto. L’odore era tanto intenso che Romanus
si sentì piegare le ginocchia; scosse il capo per cancellare il buio calato
sugli occhi e rialzò lo sguardo sulla donna. Questa lo stava fissando con un
lieve sorriso a sollevarle le labbra truccate di carminio, un sopracciglio inarcato
con fare divertito; il gesto aveva creato un bagliore cremisi sulle palpebre
truccate e gli occhi scuri, contornati dalla linea severa del kohl, erano
accesi dal palpito infuocato del braciere.
-Poco più di un fanciullo- mormorò con quello
sguardo indagatore che Romanus non
faticò ad assimilare a quello di Etruria, il giorno loro primo incontro -Tuttavia
pare che gli Dei vogliano concederti molto di più del doppio dei tuoi anni-
Romanus fu sul punto di ribattere, ma lo
sguardo cadde sulle dita della donna, secche e nodose, sul seno cadente e sulle
rughe attorno agli occhi e sulla fronte che il trucco aveva tentato invano di
nascondere. Tutto il suo corpo emanava il ricordo di bellezza, eppure una
bellezza antica quanto il tempo, ormai sfiorita.
-Chi siete voi?- le chiese -Voi che mi considerate
poco più di un fanciullo?-
La donna non rispose immediatamente alla domanda: si
allontanò dal braciere e si avvicinò a Romanus,
inclinando la testa sulla spalla e osservando con gli occhi appena socchiusi, le labbra schiuse.
-Dimmi, oh giovane potenza, sai tu quali acque
stiamo attraversando? Conosci il nome del Luogo che ora cinge i nostri corpi e
i nostri Cuori con braccia di deserto?-
-Quale segreto celi nella risposta, se arrivate a
pormi una nuova domanda, domina?-
-Heliopolis-
disse allora la donna con un sorriso divertito; gli diede le spalle e tese il
braccio verso un piatto bronzeo colmo di datteri. Sfiorò il frutto a punta di
dita e risollevò lo sguardo su Romanus
che, quasi soffocato dall’odore del loto bruciato, faticava mantenersi
concentrato -Il tell da cui tutto
ebbe inizio, il monticello di terra che il Benben
trafisse, per poi mutarsi in pietra5. Qui Atum, Signore e Padre di tutti gli Dei, possa Egli avere Vita,
Salute e Forza!, nacque da sé e da sé generò Shu e Tefnut, possano Essi avere
Vita, Salute e Forza!4-
Romanus avvertì il cuore farsi pesante
nel petto e la testa gravare sui sensi infiacchiti. Alzò pesantemente il capo e
la voce gli strinse la gola: là, dove prima aveva visto una donna bella sì, ma
in avanti negli anni e schiava del mutare dei secoli, ora giganteggiava una
regina, una divinità, con le braccia
allargate e l’ombra di ali piumate che abbracciava l’interno perimetro del naos6. Ogni traccia di vecchiaia era sparita dal suo volto e le sue
membra erano forti; gli occhi erano gorghi neri di saggezza antica, le mani
artigli rapaci macchiati del sangue nemico. Fredda e letale, nobile e crudele
come le statue che Romanus aveva
visto sovrastare la gente comune per le vie di Alessandria.
L’odore intenso del braciere divenne ancora più
forte, la cabina tremolò nel fumo azzurrino, disegnando volute di danzatrici e
auletridi, corpi indistinti che si muovevano rapidi sul tendaggio di diaspro,
braccia, gambe, trecce e dita, giochi di luci e di ombre, soffocati e
soffocanti.
-Su questa Terra Nera mossi i miei
prima passi, benedetti dagli Dei!- gridò la donna e le ombre esplosero alle sue
spalle in un tripudio luci rossastre -Il Benben,
il Raggio Primigenio, mi sostenne quando mi levai in piedi, dopo che Khnum, il
Vasaio -Possa egli avere vita, salute e forza!- plasmò il mio corpo sul suo
tornio e Ptah mi diede la Vita, pronunciando il mio Nome!7”
Romanus crollò in
ginocchio. La testa e le tempie pulsavano, la vista era un groviglio di colori
risucchiati dagli occhi della donna; le orecchie rombavano e i polmoni
stagnavano nel petto appesantito dal profumo greve.
-Il mio nome è Kemetankh Hotepibtaui- la voce di
lei s’era fatta più dolce, appena un sussurro -L’Egitto Vivificato che Pacifica
il Cuore delle Due Terre-
Dita esili, secche e nodose, lo
invitarono a sollevare il mento; le palpebre di Romanus erano pesanti, a stento riusciva a tenere gli occhi aperti:
dinanzi a lui, Kemet si era chinata, il momento di follia scemato e soffiato
via da un refolo di vento. Era tornata un’anziana figura colma di saggezza,
dagli occhi belli e tristi.
-L’Egitto dei Padri..- mormorò Romanus con voce roca. Si umettò le
labbra e tentò di proseguire, ma la gola era secca, le parole rimanevano
incastrate e si sgretolavano prima di raggiungere la bocca.
-Lascia che ti aiuti, giovane e
potente Roma- mormorò lei e il tono, seppure dolce, pareva nascondere una nota
sibillina. Gli occhi d’ossidiana si socchiusero e si fecero gelidi come quelli
dei cobra: lo stesso sguardo di Ammone, fu il pensiero che riuscì a sollevarsi
dalle acqua limacciose nella mente di Romanus.
Kemet, una figura sfocata ai lati
degli occhi, prese una coppa di ricolma e la inclinò, perché bevesse.
-In questo luogo, dalle cui acque
io trovai la vita e la nascente forza- sibilò e Romanus s’accorse troppo tardi che dentro la coppa galleggiavano i
resti spezzati di bianchi fiori di loto8 -Io rinascerò a nuova vita
e troverò la forza-
Fu istante: come un fiammata il
liquido bruciò nello stomaco e raggiunse la testa, dove arse con la forza di un
incendio. Cadde preda della confusione, nel gorgo nero dove ogni luce era ombra
e l’ombra si disfaceva in gocce fangose di pallida luce, tanto debole da essere
immediatamente soffocata.
In quell’antro di follia
incandescente, dove anche il corpo era morso dal fuoco della carne e della
pazzia, l’unico colore era il lampo di zaffiro della veste di Kemet, mentre
scivolava, del tutto inutile, a terra.
L’unica realtà cui aggrapparsi le
labbra infuocate di Madre Egitto.
Note
di Fine Capitolo
OHMMMIODDIOL’HOAGGIORNATA!
Scusate! E’ che..era praticamente un
anno che non la proseguivo e…e oggi, niente, oggi è arrivata l’ispirazione di
botto!
Okay, mi calmo e passo alle note!
1Il giunco ed il
falco sono i simboli del Basso e dell’Alto Egitto.
2Quella della Dea che
emerge dalle acque era la fantasia erotica “più in voga” tra gli antichi egizi.
3Cambise, 525 a.C.
4Atum è il Dio
increato, autogeneratosi sul monticello di Heliopolis che era emerso dalle
acque del Nun. Creò i propri due figli, Shu e Tefnut, con l’aiuto della Dea
Mano. Sì, non sto scherzando.
5Di fatti, l’obelisco
non rappresenta altro che il raggio di Ra pietrificato.
6Le ali sono un
riferimento ad Iside.
7Ripreso da una mia
role su Facebook, dove ruolo col personaggio di Madre Egitto. Ptah era il
demiurgo della cosmologia menfita.
8Avete presente il
papiro erotico di Torino? Ecco, se ricordate, le donne hanno un fiore di loto
sopra la testa: questo a simboleggiare la perdita della coscienza di sé, “droghe”
e…diciamo, libertinaggio. Come dire, un liberarsi e sfogarsi dei sensi, ecco.
Come se fossero preda dell’euforia più estrema, quasi non fossero più padrone
del loro corpo.
Ringrazio
Jo-san
aver recensito (secoli addietro!
SCUSA!) il precedente capitolo!
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