Solitudine
Mi
chiamo Riley.
Sono stato creato molto tempo fa
dalla mente di Spencer, anzi, del Dott. Spencer Reid,
agente speciale dell’FBI.
Vivo esattamente nello stesso posto
che ha visto la mia creazione. Quando Spencer era solo un bambino, vivevo anche
all’aria aperta, se aria aperta può chiamarsi la sua camera da letto.
Spencer
parlava spesso con me, giocavamo insieme, studiavamo insieme e mi confidava i
suoi più intimi segreti, i suoi sogni, i suoi desideri.
Con il passare del tempo sono stato
messo da parte; Spencer parlava sempre meno con me.
Spencer
è cresciuto, ma, no, non sono arrabbiato con lui per questo, non potrei essere
mai contro il mio creatore e amico, anche se io sono solo il suo amico
immaginario.
Sono
grato a Spencer, perché vivere nella sua mente è particolarmente stimolante. Ci
sono un’infinità di argomenti da conoscere e da capire e io ho accesso a tutta
la sua mente, quasi fosse il mio appartamento. Ammetto di vivere in una zona
poco praticata, perché Spencer ha deciso di conservare nei meandri più nascosti
e intimi della sua memoria i ricordi dell’infanzia, abbracciati ai più
dolorosi. A volte queste due caratteristiche coincidono. In ogni caso non c’è
il rischio di annoiarsi qui dentro.
Voglio
molto bene a Spencer. Io sono una parte di lui. Ho una mia identità, ma sono
legato intimamente alla sua esistenza, la qual cosa è ovvia e segue una logica
stringente.
Nella
calma apparente della sua mente ho deciso di tenere un diario o di riportare
ciò che ritengo importante nella vita di Spencer, forse la parte che, a causa
degli eventi e di alcune scelte, è stata la più trascurata da lui stesso. Io
voglio custodire la parte emozionale del
mio creatore, i suoi sentimenti passati e presenti, per prepararmi al futuro.
Se dovessi dare un
giudizio su Spencer, sarei certamente di parte, ma so che rispetto e riferisco
anche opinioni altrui, ma di chi, ora, non ha importanza.
Spencer ha deciso di
mettere al servizio degli altri la sua intelligenza, il suo alto quoziente
intellettivo. Lo vedo lavorare a intricati casi di omicidio e rapimenti come profiler dell’FBI. Riuscire a rimediare le ingiustizie del
mondo, magari non tutte, è diventata quasi una missione per lui. Ammiro Spencer
e le sue scelte, ma mi rendo conto che elogiarlo è per me qualcosa di naturale,
non sono la sua coscienza, sono solo uno dei prodotti della sua mente.
Una
delle caratteristiche che ha contraddistinto la sua vita è la solitudine.
Essere un genio non rende la vita
facile ad un bambino. Oltre all’ammirazione iniziale che provano gli adulti non
si riesce a guardare. E’ difficile capire come si viva questa condizione. I
coetanei per un genio rappresentano un mondo di cui non si fa parte. Non ci
sono tanti argomenti di cui discutere e ogni gioco diventa frustrante, perché
troppo semplice e troppo scontato. Se a otto anni sei già alle medie, la
questione si complica. Se a dodici anni sei già diplomato e pronto per il
college, difficilmente troverai di che discutere con un coetaneo.
Nemmeno chi frequenta le scuole con
te può essere tuo compagno e amico. Spencer apparteneva a quel mondo solo
accademicamente e non era raro che lo vedessero come un moccioso petulante, un
scherzo della natura, qualcuno che fosse irrimediabilmente fuori posto e debole. Spesso lo consideravano un problema, perché erano messi a confronto
con un genio e non riuscivano ad andare oltre il suo cervello, non riuscivano a
cogliere l’animo e il cuore spezzato che cercava di nascondersi ai loro
sguardi, che soffriva in silenzio, per non dar loro modo di infierire ancora su
di lui.
La
solitudine pesava molto a Spencer, ma non aveva il coraggio di parlarne con
nessuno. Un insegnante non avrebbe capito, considerato che anche loro spesso si
sentivano messi in secondo piano dalle sue risposte fin troppo intelligenti.
L’unico adulto presente nella sua vita che gli volesse bene davvero era sua
madre, ma non se la sentiva di coinvolgerla nei suoi problemi, dato che doveva
affrontare già i propri fantasmi, la sua malattia mentale.
Io,
Riley, riuscii a fargli compagnia per qualche tempo e
proprio la solitudine è stata la chiave della mia nascita; tempo dopo io non
potevo più bastare. Aveva bisogno di quel calore umano che non poteva
riprodurre nella sua mente. Qualcuno trovò.
Si chiamava Ethan Cooper ed era un
piccolo genio, non esattamente come lui, ma era molto più vicino a lui di molte
altre persone. Si diplomarono lo stesso anno; Ethan aveva quindici anni allora.
Passavano molto tempo insieme, discutevano del loro futuro e sapevano che
avrebbero dovuto separarsi, che quella sarebbe stata per loro l’ultima estate:
Spencer avrebbe frequentato il MIT, mentre Ethan aveva optato per Yale. Spencer
era fin troppo responsabile per scegliere un college solo per seguire l’amico,
ma entrambi si ripromisero di entrare nell’FBI e si tennero sempre in contatto.
Si
frequentavano spesso, più che altro era Spencer a passare molto tempo in casa
Cooper, perché sua madre non permetteva di portare qualcuno da loro, non per
cattiveria, ma il suo disturbo mentale le creava anche problemi relazionali.
Spencer era sempre ben accetto a casa Cooper per la cena, come anche in
qualunque altro momento della giornata. La mamma di Ethan era una tipica
casalinga che preparava torte e biscotti ogni giorno per i suoi figli, sempre
attenta e premurosa e Spencer godeva di riflesso quelle attenzioni che a lui
mancavano. Sua madre gli voleva molto bene, ma facevano insieme altre cose,
piuttosto che impastare uova e farina. Passavano molto tempo a leggere sdraiati
sul letto e questo non l’avrebbe barattato con niente.
La
famiglia Cooper era diversa dalla sua; intanto, i genitori non erano divorziati
e questo era un grande vantaggio. Ethan non era figlio unico e questo apriva
diversamente la sua mente alle relazioni con gli altri. Litigare con i suoi
fratelli era benefico e gli dava quella forza che mancava a Spencer. Il
fratello più grande di Ethan compariva solo di rado a casa Cooper, non era
quasi mai presente nelle ore che vedevano Spencer loro ospite. Non mancava mai,
invece, il membro più piccolo della famiglia, Cecily.
Per Spencer lei era l’animale strano della situazione. Avere a che fare con
qualcuno più piccolo di lui lo metteva particolarmente a disagio. Come si
doveva rapportare a lei? Come poteva avere una conversazione con una bambina
che non sapeva ancora pronunciare decentemente la lettera R e, se era una
brutta giornata, anche la S? Storpiava il suo nome, che diventava “Pent” per chissà quale logica astratta della mente della
ragazzina, se mai una regola la governasse. Le emozioni di Spencer erano
irritanti anche per me, vedeva questa presenza come un fastidio, qualcosa che
era fuori dalle sue possibilità di gestione. Si sentiva impotente e oppresso. Che
poteva fare con lei? Purtroppo per lui Cecily aveva
libero accesso a tutte le camere, compresa quella di Ethan, che si dimostrava
protettivo con quella piccola creatura.
Solo raramente gli era capitato di
rimanere da solo nella stessa stanza con lei. Solitamente la bambina lo fissava
prima da lontano, poi con piccoli passi si avvicinava a lui per porgergli
qualche giocattolo o, peggio, fargli qualche domanda priva di qualunque tatto.
Chiedere a Spencer dei suoi genitori gli provocava sempre un grande imbarazzo,
condito da vergogna, senso di colpa e tristezza insieme, ma sapeva che non
poteva certo prendersela con lei, che conosceva solo quella famiglia felice da pubblicità.
Spencer non la detestava, questo no, non aveva fatto niente di male quando gli
aveva chiesto che lavoro facesse suo padre o perché sua mamma non veniva mai a
prenderlo da casa loro, però soffriva, paragonando la propria vita alla sua,
che conservava la semplicità dell’infanzia che lui non aveva mai conosciuto. Guardava
la sicurezza del suo mondo e provava un piccolo moto di invidia, pentendosene, mentre
lei lo prendeva per mano con le sue appiccicose e lo accompagnava alla porta,
quando ormai era ora di andare a casa. Un giorno gli chiese perché fosse triste
e Spencer si ritrovò a negare l’evidenza che una bambina di quattro anni era
stata capace di leggergli in volto; Cecily gli stampò
un bacio su una guancia, sollevandosi in punta di piedi, e gli chiese se stesse
meglio.
Quello fu solo uno degli episodi che permise a
Spencer di sentire il calore di un’emozione dolce.
Nonostante
i bei momenti in casa Cooper, Spencer doveva ripiombare nel proprio mondo, a
casa sua, dove era un miracolo se trovava qualcosa di pulito da indossare. A
volte sua madre dimenticava persino di preparare qualcosa da mangiare,
quantomeno, negli orari soliti per pranzo e cena. Era una fortuna poter
usufruire della mensa a scuola.
Tornato a casa Spencer si dedicava a
qualcosa di utile per rendere più facile la vita a sé e a Diana. Cercava di
farle prendere le sue medicine, di svegliarla al mattino e costringerla ad
alzarsi da letto. Ogni tanto si cimentava nella preparazione della colazione,
anche se non era molto bravo in queste cose e poi, ogni tanto se ne ricordava,
era solo un bambino e non aveva senso colpevolizzarsi se le uova si erano
bruciacchiate un po’.
In
quella casa, con sua madre sempre assopita da qualche parte, fosse anche sul
tavolo della sala da pranzo in mezzo ai suoi libri, si sentiva solo, solo in
tutti quei metri quadri, decisamente eccessivi per un bambino piccolo e
mingherlino come lui.
Sapeva che non doveva lasciare che altri
scoprissero della sua condizione, che sua mamma non si occupava molto di lui,
non per cattiveria, ma perché non ci riusciva. Si sforzava di apparire normale
davanti agli occhi degli altri, ben curato, ben nutrito, sempre in ordine,
sempre attento. Eppure si sentiva terribilmente solo, senza nemmeno un padre a
dargli quel sostegno di cui aveva bisogno. Era andato via un giorno, senza
troppe spiegazioni, senza troppi convenevoli, nemmeno una lacrima, lasciandolo
consapevolmente in una situazione difficile.
Lo detestava e non si sarebbe
scrollato di dosso questo sentimento per anni e anni. Non che suo padre avesse
tentato di riavvicinarsi a lui o si fosse fatto vivo ogni tanto, nemmeno a
Natale o al suo compleanno. Era letteralmente scomparso, lasciandolo perso
nella sua solitudine.
In
quello stato d’animo preparò le valigie per il college, indeciso se portarsi
dietro qualche fotografia, qualcosa che gli ricordasse che una famiglia
l’aveva, che da qualcuno era stato generato. Scelse una in cui era solo con sua
madre, di qualche anno prima, in cui lei non era nello stato pietoso che la
costringeva in quel periodo ad essere terribilmente distante da lui e dal resto
del mondo.
Sospirò preoccupato di lasciarla
sola, ma non aveva molta altra scelta in quel momento, sperava solo che tutto
andasse per il meglio, che la fortuna lo assistesse per un po’.
Nota dell’Autrice:
Mi cimento per la prima volta con questa serie che mi sta letteralmente
divorando il cervello (espressione poco felice, ma rende l’idea!). Ormai sogno
anche di notte tutta la squadra, i serial killer no, almeno per ora …
Il personaggio che più mi ha colpito è il Dott. Spencer Reid: mi intenerisce e mi fa pena allo stesso tempo,
inoltre adoro sua madre!
Spero che l’idea vi piaccia. Non mi dilungherò molto, ma, se la storia vi
piace potrei scrivere un seguito.
Attendo commenti!
Lady
Snape