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FLASHBACK
A spese di
chi vive la gente nei ricordi degli altri?
(Stanislaw J. Lec)
Il Fermaglio 1. Remus
Remus si chiede cosa ci facciano
lui e Sirius in quella camera, con tutta Grimmauld Place da disinfestare.
Lì dentro non c’è niente.
Solo tanta polvere, un po’ di
sporco, qualche oggetto innocuo e una macchia d’umido scura accanto alla
finestra.
Niente maledizioni scagliate
sulla porta, nessun artificio magico o anatemi, nessuna bestia bizzarra
acquattata nell’ombra.
Neanche un Molliccio nascosto
nell’armadio.
Eppure è lì che Sirius l’ha
trascinato quel pomeriggio.
E’ entrato nel salotto incedendo
con quel suo passo incerto e ciondolante, del tutto disinteressato ai Doxy
impazziti che gli svolazzavano attorno. Ha percorso a lunghe falcate la distanza
che lo separa dalle tende e scansando con svogliata disinvoltura una di quelle
bestioline velenose sortita dalle pieghe del tessuto unto l’ha afferrato per un
braccio facendogli cadere miseramente di mano il Doxicida che stringeva tra le
dita. L’ampolla si è infranta al suolo rovesciando il suo contenuto su un
tappeto dall’aria decisamente costosa nel più totale disinteresse del
proprietario: si è tirato dietro un peso recalcitrante con una facilità che
irritava, fuori dalla stanza, su per le scale di pietra, lungo corridoi stretti
e lugubri, di sopra, al secondo piano.
In una stanza che era sempre
stata chiusa a chiave.
A nulla erano valse intimazioni
varie e richieste di chiarezza.
L’Animagus l’aveva spinto dentro
con uno strattone per seguirlo, rapido, chiudendosi poi la porta alle spalle.
Remus si è ritrovato in una
stanza da letto piccola e piuttosto spoglia. Un letto, un basso scrittoio scuro,
una cassettiera, un armadio, una libreria. Il necessario. Poco altro a dare
carattere all’ambiente, ma proprio questo la rende peculiare in una casa in cui
è l’eccesso, l’ostentazione a farla da padrone. Azzarda qualche passo in avanti,
prendendosi il suo tempo per osservare con curiosità intenerita.
Potrebbe anche essere la sua
camera, pensa carezzando con un moto che sa di lascivo il vecchio intonaco
cadente che sotto la pressione morbida dei polpastrelli si sfarina
sbriciolandosi al suolo in un velato biancore. Si pulisce rapido le dita sul
tabarro logoro per un riflesso incondizionato.
Non sopporta lo sporco addosso.
Si sente già troppo sudicio
nell'animo.
Sirius resta poggiato alla porta
e lo guata critico.
Remus prova ad ignorarlo, ci
prova davvero, ma se li sente dentro quegli occhi chiari spalancati
all’inverosimile che conferiscono a quel viso già pallido e inquietante un’aria
di perpetua, atterrita follia. Quelle labbra tese, socchiuse a scoperchiare i
denti con quei canini ridicolmente lunghi (e dovrebbe essere lui la bestia
oscura!), e una punta di lingua a stuzzicare nervosa il labbro inferiore, gli si
imprimono vive sulla pelle. Le lunghe dita troppo magre e nocchiute artigliano
nervose la maniglia della porta come se volessero spezzarla. E’ stato lui ad
imprigionarlo lì, eppure sembra quello in trappola.
Remus fa un paio di passi
all’indietro in direzione del letto: con calma, silenzioso come sempre, facendo
attenzione a sollevare quanta meno polvere possibile, si siede sul bordo, il
materasso nudo geme sotto il suo peso. Tiene lo sguardo fisso al lampadario che
ondeggia pigro in una nuvola di pulviscolo svelato da un raggio di flebile sole
e le mani scomposte in grembo, inutili e immote come sempre nei momenti in cui
non trovano una vera occupazione.
Sa che Sirius potrebbe restare
lì per sempre a fissarlo come un idiota, perché lui non ha niente di meglio da
fare durante la giornata, e solo per questo si decide a parlare accantonando la
proverbiale cautela. Vorrebbe essere gentile e paziente, prendersi tutto il
tempo del mondo, ma Sirius è una persona adulta e quei suoi scatti infantili lo
irritano, e tutto quello che la sua bocca produce è un ringhio spazientito e
lugubre.
“Sirius, si può sapere che
succede?”
Si stupisce di vedere quelle
labbra pallide piegate in un sorriso storto, e non può fare a meno di pensare a
quanto tutto sembri sbagliato.
“Oggi buttiamo via tutta questa
robaccia.”, sentenzia esaltato.
Remus fissò il bambino senza
parlare.
Pigiato contro il muro, a
braccia conserte, osservò quella figura voltata di spalle che aveva di fronte,
chinato davanti al grosso baule di foggia antica con su impresso uno stemma
spocchioso d’argento luccicante: stava per terra, malamente accoccolato sulla
pietra a far leva sulle piante dei piedi in un ipnotico e incostante
oscillamento avanti e indietro. Canticchiava una nenia indefinita.
Stonato come una campana.
Sembrava convinto d’esser
solo nella stanza.
“Irritante”, pensò il
licantropo, mentre le labbra gli si congelavano in una smorfia esausta e
stomacata che rifletteva a meraviglia il suo stato del momento.
Si sentiva sempre così a
seguito di una luna piena. Non tanto per il dolore fisico cui ormai era avvezzo,
quanto per una spossatezza mentale che ogni mese lo avviliva. Quando la
coscienza umana si faceva strada a morsi e a unghiate col declino della luna
contro l’orizzonte si riportava indietro tutte le meschinità umane che celava
dentro.
Il lupo era solo istinto e
non capiva. Non soffriva.
E non faceva paura.
Era l’uomo che si nascondeva
tra le pieghe del licantropo che aveva imparato a temere e tenere a bada. Era
quello che cercava di strapparsi via dall’anima sotto gli occhi vuoti di una
fredda palla d’argento.
Sospirò infastidito da quelle
stupide elucubrazioni.
Era la stanchezza a produrle.
Solo grazie al pensiero che
una volta giunto a destinazione avrebbe potuto godersi un lungo e meritato
riposo era riuscito a trascinarsi dall’infermeria, dove era rimasto appena il
tempo di guarire dalle ferite fisiche (l’odore di quel posto lo infiacchiva),
lungo scale e corridoi gremiti di gente, forzando le membra a trascinarsi un
passo dopo l’altro in una parvenza di normalità, affinché nessuno notasse il suo
stato.
Perché nessuno vedesse l’uomo
che si dibatteva annaspando dietro il licantropo.
Arrivato all’uscio del
dormitorio aveva dato ormai fondo a tutte le proprie forze. Non era nemmeno
riuscito a sollevare la mano per premere la maniglia di ferro arrugginito, ma
aveva appoggiato il peso della spalla sulla porta facendo leva, nella speranza
che bastasse. Quando era riuscito tanto facilmente nell’impresa, trovandola
accostata, avrebbe dovuto intuire che non sarebbe stato così semplice.
Credeva che sarebbe stato
solo.
Era rimasto deluso.
C’erano pochi passi a
separarlo dall’agognato giaciglio.
Pochi passi e un qualche
migliaio di oggetti di varia natura disseminati sulla pietra. Vestiti, fogli di
pergamena di prima qualità, oggetti di varie forme e dimensioni dall’aria antica
e preziosa, libri di scuola nuovi di pacca avevano preso possesso dello spazio
come fossero dotati di vita propria..
“Non dovresti essere a
lezione?” chiese Remus acidulo.
“E tu?”, replicò l’altro a
sua volta, nell’intermezzo di quel seccante salmodio infantile: ingenuamente,
senza malizia, tutto intento a soppesare allegro un capo di vestiario con aria
critica prima di gettarlo con un moto tra lo stizzito e l’annoiato da qualche
parte indefinita alle sue spalle, sul pavimento.
A poca distanza da lui.
Il bambino continuava a
volgergli contro la nuca corvina senza degnarlo di uno sguardo. Non si era
stupito nemmeno un po’ di quelle parole. Sapeva che era lì e l’aveva sempre
saputo. Molto semplicemente lo ignorava non reputandolo un soggetto degno
d’attenzione, e se la cosa da un lato lo riempiva di gratitudine dall’altro
avrebbe bramato d’avere il suo collo sotto le zanne e stringere fino a
spremergli dalle vene l’ultima goccia d’indifferenza.
Remus socchiuse le labbra
lasciando scoperchiati i denti in una smorfia frustrata che di umano aveva ben
poco e decise di cambiare discorso, dal momento che quello li avrebbe portati su
una china pericolosa.
“Si può sapere che cavolo
stai facendo?”
Merlino, sembrava una
poppante isterica con quella vocetta acuta da bambino ad accrescere l’impaziente
irritazione che lo infiammava.
L’altro per tutta risposta
sollevò la testa e le spalle dal gigantesco baule in cui si era ficcato come
fosse un enorme Pensatoio e si era voltato verso di lui, le guance rosse per
l’eccitazione e gli occhi chiari luccicanti, e un paio di lunghe fini ciocche
corvine gli erano ciondolate pigramente davanti alla faccia conferendogli
un’aria idiota.
Remus avrebbe anche riso, in
un altro frangente.
“Non si vede?”, sorrise
l’altro tirando in alto il labbro superiore e arricciando il naso, lasciando
intravedere i denti bianchi e aguzzi dietro una smorfia da bimbo monello. “Mi
libero della spazzatura.”
E Remus non aveva saputo come
replicare.
Era un mondo troppo lontano
dal suo. Spazzatura, l’aveva definita. Una sola delle piume d’oca che giacevano
al suolo deturpate dalla pazzia di una mano infantile, o una mera libbra
dell’inchiostro dorato riversato su qualche candida camiciola, valeva più di
tutti i vestiti che aveva nel suo bagaglio.
Lui non era ricco e non
gl’importava.
In fondo era colpa sua e del
suo “problema” se i suoi genitori avevano cominciato a riempirsi di debiti nel
vano tentativo di cercare una cura. Perché, e non poteva dar loro torto, un
figlio così per quanto si sforzasse di essere perfetto proprio non riuscivano ad
amarlo. Ma quel ragazzo che non dava il giusto valore a delle cose tanto
meravigliose in qualche modo lo indisponeva lo stesso. Piccolo, sporco, patetico
figlio di papà.
Con la coda dell’occhio notò
la “spazzatura”.
Era un bellissimo, prezioso
mantello.
Nero, morbido e caldo.
Gli sfiorava i piedi.
Un imperdonabile spreco.
Senza che un vero pensiero
cosciente gli attraversasse la mente Remus schiacciò il tessuto costoso con la
punta della scarpa, furioso, un moto caldo e piacevole d’orgoglioso godimento ad
invadergli i sensi nel sentire la stoffa nera coi ricchi ricami d’argento e
smeraldo a scricchiolargli e gemere sotto la sua suola di finto cuoio.
Aveva continuato a fissarlo
con sfida mentre lo faceva, perché reagisse a quello che voleva essere un atto
di massimo spregio. Voleva vedere quel viso indifferente contrarsi in una
smorfia di rabbia.
Voleva battersi. Magari
mordere e graffiare.
Ma l’altro non volle dare
neppure quella soddisfazione.
Semplicemente rise scuotendo
la testa in un moto di pietosa tenerezza.
“Peccato che non piaccia
neanche a te, te l’avrei regalato. Ti sarebbe stato bene.”
“Non voglio la tua carità.”,
ringhiò di rimando Remus a quel ghigno irritante. “Sono stanco. Voglio solo
andare a dormire.”
“Un po’ presto per andare a
dormire.”, aveva biascicato Sirius con l’aria di chi malamente sopporta, e solo
per educazione, una discussione fattasi improvvisamente tediosa. Non aveva
aggiunto altro, né aveva dato l’aria di aver compreso in qualche modo il
problema, o che ci si aspettasse qualcosa da lui.
Si era stretto nelle spalle
ed era tornato a immergersi nel baule quasi vuoto.
Remus non potette far niente
a parte aspettare. Certo, avrebbe potuto andare in Sala Comune, stendersi sul
divano fino all’ora di cena. Non sarebbe stata la situazione ottimale, ma meglio
che niente.
Eppure i piedi si rifiutavano
di muoversi.
Era come assistere a qualcosa
di importante.
La disperazione con cui
quegli oggetti volavano da tutte le parti della stanza sotto la furia delle sue
bracciate violente al ritmo di quel canto frenetico era quasi ipnotica, al punto
che accolse quasi come una cosa inevitabile il moto parabolico di un pezzo di
cioccolata mezza sciolta che precipitò in picchiata contro la federa del suo
povero cuscino. Sperò che qualche elfo domestico di buon cuore avrebbe sistemato
le cose prima dell’ora di andare a dormire, ma la fortuna non l’aveva mai
particolarmente arriso.
L’altro nel frattempo arrestò
di botto quell’affannosa opera di pulizia di fronte ad un paio di calzini neri
(come quasi tutto quello che indossava) appallottolati in malo modo. Li soppesò
con calma tra le dita, srotolandoli con una cura che mai si sarebbe detta
appartenere a una persona tanto grossolana. Ne estrasse fuori uno specchietto
col bordo di legno, di quelli piccoli e rotondi usati dalle donne per sistemarsi
il trucco.
Misero, anonimo, neanche
molto bello.
Anzi, decisamente orrendo.
Eppure quello stesso ragazzo
che aveva trattato come roba da rigattiere ricchi oggetti e capi di vestiario
stringeva tra la punta delle dita quell’oggetto, come fosse fatto d’ali di
farfalla. Rimase a rimirarlo per una lunga frazione d’istante prima di
ficcarselo malamente nella tasca posteriore dei pantaloni, la tenerezza di poc’anzi
totalmente accantonata.
“Quello non lo butti,
Black?”, aveva ghignato sarcastico il licantropo facendo incauta mostra dei
canini ancora troppo aguzzi a seguito del recente plenilunio.
“No.”, aveva replicato
l’altro in un sussurro mogio. “Questo no.”
Fermaglio 1. Fine
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