Nathan Hellis
Nathan Victor Hellis,
Conte di Liverpool, ereditario diretto degli averi del nonno materno,
un Duca, e di tutto ciò che i suoi genitori avevano. Avevano,
sì, morti, che tragico, ahimé, incidente, ma altre
soluzioni non c’erano, che avreste fatto voi al posto mio? Eh? Un
esame di coscienza, oh sì, ci ho provato, ve lo assicuro, ma nel
momento in cui si viene drammaticamente a sapere che la tua coscienza
è oramai nulla, che non t’importa davvero di nulla oramai,
allora che ti resta da fare se non dar sfogo alla tua personale natura?
I vizi, i
piaceri, gli omicidi, gli usi, i soprusi, la violenza, il lusso, il
rendersi conto in maniera irrimediabile che l’unico modo si ha
per non apparire colpevoli è diventare dei mostri. L’ira,
la gola, l’accidia, l’invidia, l’avarizia, la
superbia…la lussuria, sono la fiamma che li alimenta e quella
che li distruggerà, sono il sole del mattino e l’ascia che
ti negherà la vita. Sono quello che ami e quello che odi, sono
solo la rappresentazione carnale di ogni vizio, la mia assenza non
porta altro che la consapevolezza che è tutto dannatamente
sbagliato.
Volete sapere chi sono
realmente adesso? Nathan Victor Hellis, nato a Londra a dire il vero,
il 28 Dicembre 1803, lì ho sempre vissuto, per quattordici anni
poi, che sono tutto meno che tanti. La mia famiglia, ah,
l’adoravo prima di degenerare, avevo con loro un bel rapporto per
altro, ma quella che adoravo di più era Tanja, lei non faceva
parte della famiglia Hellis, era Russa, ma si sa che durante la
Victorian Age Inghilterra e Russia erano nel bel mezzo di aspri
conflitti.
A dire il vero mi ricordo che
correvo fuori per poter giocare con lei, perché era una delle
poche persone che comprendeva che la mia natura non era quella che
mostravo e comunque non le importava sapermi un mostro, voleva che mi
comportassi come mi sentivo, me lo diceva sempre, mi faceva una
così grande tenerezza… la volevo veder soffrire. Io
volevo vedere la persona più importante della mia vita soffrire,
ma non soffrire per cose da poco conto come un giocattolo, io volevo
che soffrisse come non aveva mai sofferto prima, volevo che i suoi
genitori finissero in pasto ai leoni, volevo sentirla piangere
disperata, chiedermi pietà, perdono e qualsiasi cosa potesse
placare la mia ira, questo volevo. Volevo vederla ferita e rantolante a
terra che chiedeva scusa per aver mosso male una mano, con le parole
impastate per via del sangue misto alla saliva. Quanto avevo? Undici
anni? Davvero un ragazzino di undici anni può pensare e provare
certe sensazioni?
La guardavo e riuscivo a
trattenermi dal fare tutto ciò, ci provavo e più mi
trattenevo più ne sentivo il bisogno, ma alla fine riuscì
a non farle mai nulla, non la toccai nemmeno con una parola un
po’ troppo tagliente, assolutamente nulla. Cosa successe? La
trovai morta lo stesso. Me lo ricordo ancora, era stesa a terra, di
fronte alla porta di casa sua, il volto tumefatto, le lacrime che si
erano seccate su quella pelle, l’abito lilla lacero e macchiato
d’amaranto. Mi ricordo che per un attimo avevo provato un forte
senso d’appagamento, come se per la prima volta mi sentissi
davvero completo. Solo pochi attimi dopo mi resi conto che non
c’era più vita in quel corpo, che non era solo come
l’avevo immaginata una volta, era morta. Fu quello il punto in
cui provai qualcosa di nuovo, una tristezza infinita e fu
l’ultima volta che la sentii davvero. Sembra triste, ma
l’ho dimenticata in poco tempo, quella che fu la persona
più importante della mia vita, dimenticata, come se avessero
ucciso un gatto malconcio e non lei. Triste? Crudele? Spietato?
Probabilmente sì, ma è quello che sono. Non bisogna mai
sottovalutare il significato delle parole, quando vi dico che sono un
mostro, vi assicuro che io sono seriamente un mostro.
Di lì in avanti il mio
scopo fu sbarazzarmi di tutto ciò che era legato a lei,
perché non ero stato io a farle del male, no, era stato qualche
altro ed io avevo dentro la sensazione repressa di quel sadismo, quando
questo non è una parola grossa per farsi “belli”
agli occhi altrui, quando questo si dimostra essere una vera e propria
malattia mentale. Io sono sadico, profondamente sadico, quello che di
sbagliato ho fatto è stato reprimere il mio stesso sadismo per
paura di poter fare Troppo male. Quella fu la cosa che mi permise di
togliere ogni freno a quello che ero, che mi permise di diventare
quello che sentivo, e non fu graduale, fu uno scatto d’ira,
seguì il controllo di un momento in cui la mia sottil mente mi
permise di entrare in casa loro, sorridere ai suoi genitori, come se
nulla fosse mai successo, mentre dentro avevo il desiderio solo di far
del male.
Sono nato
per portare questo mondo allo sfacelo, e così sia, venga il Mio
Regno, sia fatta la Mia volontà, come in cielo così in
terra, vi negherò il pane quotidiano, accrescerò per me i
vostri debiti, così che voi sputiate sangue per annullare i miei
crediti, prenderò le vostre mogli, schiavizzerò i vostri
primogeniti e mi nutrirò della vostra anima, questo per indurvi
in tentazione e costringervi nel male. L’Inferno non ha nome, ci
camminiamo sopra ogni singolo giorno, nulla ci salverà mai dal
conoscere le ceneri del suo suolo.
Fu quando lui, il padre, se ne
andò di là che potei saltare al collo della sua signora,
potevo sentirla arrancare, ma il fiato le mancava anche solo per poter
urlare, vedevo i suoi occhi pieni di vera disperazione,
l’attaccarsi ultimo a qualsiasi cosa, quella mano che si allunga
verso il mio volto, l’altra che si serra con poca forza sul mio
polso, i suoi occhi spalancati che mi chiedono perché, di
smetterla, e ad ogni muta richiesta io stringevo di più. Nemmeno
me ne rendevo conto che sul mio volto non c’era rabbia,
c’era esaltazione, ero..esaltato nel vedere quella scena e
più la vedevo e più sentivo il corpo fremere e la mente
gridarmi di continuare. Un grido continuo che tamburellava il cervello,
snervante, che volevo annientare e sapevo che avrei potuto farlo
unicamente assecondandola, un ticchettio di un orologio troppo
pressante per essere ignorato, troppo pressante per non divenirne un
umile asservito. E’ l’orologio che scandisce i secondi che
mancano alla morte e più si avvicina più il suo rintocco
è forte e prepotente, poi? Poi c’è un ultimo
battito, quello che ti fa quasi urlare per il piacere, migliore di un
qualsivoglia orgasmo, migliore della droga, migliore di..tutto, e dopo
quello il nulla. Solo gli occhi vitrei e spenti di chi hai appena
ucciso, e allora te ne penti, te ne rendi davvero conto e ti allontani
da quel corpo morto, lo fissi con spavento, ma non hai paura di quello,
hai paura di te stesso, di quello che sei e che sei diventato, di
quello che puoi fare senza nemmeno rendertene conto.
Fu lo scombussolamento di un
attimo, la decisione di rimanere lì per terra a fissare
sconvolto la cosa, la forza di mentire all’uomo che la
trovò e che mi picchiò, credendomi, senza sbagliare, che
fossi stato io. La freddezza e la paura che avevo di me che mi permise
di guardarlo negli occhi e dirgli piangendo che non ero stato io, che
era stato un mostro, era stato un uomo che non mi apparteneva, era
stato qualche altro. Ed ero così convinto di quel che dicevo,
che non poté fare a meno di credermi e chiedermi com’era
fatto.
“Aveva occhi accesi di
un’esaltazione innaturale, il corpo teso, la mente eccitata, un
sorriso enorme ed il respiro accelerato di chi sta provando qualcosa di
spettacolare per la prima volta. Era un uomo, era moro, aveva gli occhi
neri come la pece, le labbra sottili ed il volto deturpato, il suo
corpo era muscoloso e le sue mani logore per il lavoro.”
Lo denunciò alle
autorità, era un ricercato, era il mio alter ego, così lo
definivo, quel mio inconscio descrivere il mio esatto opposto,
perché non volevo essere quello, non mi piaceva la prospettiva,
sapevo che c’era, ma non lo volevo accettare, non ancora, ero
ancora umano, avevo ancora quel briciolo di coscienza che mi imponeva
di rifiutare e reprimere quella parte a me legata tanto in
profondità.
Scorsero così i giorni,
le settimane ed i mesi, sin quando non ci fu un incidente, il giorno in
cui la mia carrozza si ritrovò improvvisamente senza cavalli, si
erano staccati per non si sa quali motivi. Sta di fatto che la carrozza
si ribaltò, non ricordo dove finimmo, da lì in avanti non
avrei ricordato più nulla, c’era solo il buio di un
momento e più nessun freno che fermava i miei istinti, nessua
etica, nessuna morale, non conoscevo più nulla,
l’educazione che mi avevano impartito era andata a farsi
benedire. Non avevo più nulla, ero libero. Libero di chiamarmi
davvero Nathan Hellis. Libero da quel sottile vincolo che mi impediva
di dar libero sfogo alla mia…artisticità!
Et
Voilà! Madame et Monsieur! Spero, pubblico di Londra! Che il mio
Umile e sconsolato, quanto riluttante e pieno di macabre scene ,
spettacolo, stenda un velo traslucido e pietoso su questa Mia
personalità. Quando amore e sadimso s’incontrano, al
bivio, quel! Bivio! Lì c’è la morte.
E la morte segnò in
quegli anni per primi i miei genitori, ma non li strangolai, li uccisi
in maniera più sottile. Lei? Lei mi divertì a vederla
inorridire mentre godevo profondamente del suo dolore mentre la lama di
quell’arma le scorreva tra i seni, segnando profondamente la
pelle e donandole un dolore mai conosciuto, nessuno l’aveva mai
toccata prima e non escludo che la cosa eccitasse anche lei sotto
sotto. In fin dei conti la donna è sempre stata la parte passiva
della coppia ed in quanto tale per natura masochista, più il
maschio si impone, più è prepotente nei suoi confronti,
più lei finge di dibattersi, e più si eccita. Alla fine
non potei che osservarla mentre il sangue colato a terra diveniva
troppo, le ferite troppo profonde e la morte sopraggiungere lentamente.
Morì così. Dissanguata. Le ho lasciato il tempo di capire
che stava per morire, le ho lasciato la speranza, non sono stato forse
misericordioso? Perché tenerle questa premura? Perché
l’ho fatto? Se solo lo sapessi…
Lui, lui lo appesi a testa in
giù, gli feci delle domande sul mio passato ma non mi
aiutò a comprendere molto, so solo che alla fine me lo sono
creato da solo, tanto bene che non distinguo più la
realtà dalla finzione, è così sottile il velo che
oramai lo ho distrutto, forse ho fatto del male anche a me stesso con
ciò, forse è stato solo un caso, ma non so più
cos’è vero e cosa invece no. Morì soffocato, mi
ricordo che lo rinchiusi in una bara legato e messo a testa in
giù, mi ricordo che da dietro il coperchio gi chiedevo se era
contento, se era orgoglioso di suo figlio, gli assicurai che avrei
fatto tantissima strada, che avrei guadagnato e reso onore alla
famiglia Hellis molto più di quanto fece lui. E fu così
sin quando il peso del corpo non diventò troppo pressante sui
suoi plomoni ed alla fine morì, anche lui.
Ebbi il coraggio di dire che
erano scomparsi, ebbi il coraggio di piangere come non mai ed allo
stesso modo ricordavo di averlo già fatto una volta, ma non
sapevo dire quando. Mi credettero anche, ero un quattordicenne in fin
dei conti, con un faccino anche piuttosto carino e sapevo essere
così carico di disperazione che non mi chiesero più
niente per “evitare di turbare la psiche del ragazzo”,
così dissero, ma in me ristagnava già la base fangosa
dalla quale sarebbe germogliata e cresciuta senza freni la
depravazione. Sì, quella c’è in me, depravazione
allo stato puro, come pura è la follia che alle volte si scorge
dagli occhi cerulei, non sottovalutarla, ma chère, sono sicuro
che se tu lo facessi poi non avresti più tempo per pentirtene.
Questa era la sotria, in
breve, di Nathan Victor Hellis, gente, c’è chi lo odia e
chi è capace anche d’amarlo. Lui, lui non distingue
più quello che è odio dall’amore e punisce tutti
con la stessa moneta: il suo personale piacere.
Nella
villa Hellis, poco fuori Londra, siede, su un trono d’oro e
d’argento, colui che della depravazione e dei vizi è il
re. Se volete vivere ogni istante della vostra vita nel migliore dei
modi, passate a fargli visita. Se volete passare gli ultimi attimi
della vostra esistenza nella redenzione, passate a fargli visita. Se
volete solo scoprire quale altro nome può avere l’Inferno,
passate a fargli visita. Lui è la risposta a tutte le vostre
domande, ma ogni risposta ha un prezzo.
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