Follia d'amore e d'oscurità

di Sylphs
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IL VOLTO DI R

 
 
 
 
 
 
Stephan aveva preso l’irrevocabile decisione di recarsi a Heather Ville costi quel che costi, e di affrontare Raphael Lawrence. Se ce ne fosse stata la necessità si sarebbe caricato Irene sulle spalle e l’avrebbe portata via di peso, ma non poteva sopravvivere un minuto di più col pensiero che era sola in compagnia dell’omicida senza volto.
Così, mentre gettava rapido nella borsa di pelle quello di cui poteva avere bisogno: un grimaldello preso all’officina, un piccolo coltello e una cordella, chino sul letto nella sua stanza, era deciso a partire e a mettere a rischio la vita per amore di quella ragazza che avrebbe voluto sposare con tutto se stesso e per cui risparmiava denaro da mesi e mesi. Si diceva angosciato che lei stava bene, che non era accaduto niente di irreparabile, e che Raphael, per quanto orribile e completamente distaccato dai criteri umani, non le avrebbe fatto del male se non per un motivo fondatissimo. Da un’altra parte era preoccupato per Tommaso ed era determinato a salvare anche lui qualora l’avesse incontrato sulla via per Heather Ville.
Mentre stava sistemando le ultime cose, suonò il campanello. Drizzò la testa di scatto, sorpreso: in casa c’era solo lui e non aspettava visite. Il campanello continuò a suonare con frenesia isterica, ripetutamente. Chi poteva essere? A giudicare dalla scampanellata doveva essere piuttosto urgente. In quel momento Stephan era sufficientemente preso dal suo progetto, ma poiché già c’era si diresse alla porta perplesso. Il campanello insisteva a suonare. Leggermente irritato, esclamò: “Va bene, va bene, arrivo!”
Aperta la porta, si trovò davanti Irene. La ragazza era accasciata contro il muro del suo pianerottolo, sporca e lacera, con addosso un malridotto abito rosso stile primi del novecento e i piedi nudi e coperti di tagli e di ferite che li avevano segnati durante la corsa in mezzo ai sassi. Aveva i capelli arruffati e un volto così pallido, occhiaie così profonde, due occhi così pieni di choc e di lacrime, che si sarebbe detta in un completo stato confusionale. Allorché la vide, prima Stephan rimase del tutto stupefatto, poi un sorriso di gioia e di sollievo immensi gli illuminò il viso: “Irene! Sei tu! Ma cosa…”
“Stephan” singhiozzò lei. Si gettò su di lui e premette il viso sul suo petto, abbandonandosi inerte: “Stephan…perdonami…”
Il giovane la sostenne amorevolmente, troppo sollevato e felice per pensare a qualcosa. Irene era lì, accanto a lui, salva, incolume, era riuscita a scappare da Raphael! Se la strinse al petto con tutte le forze e lei lo abbracciò di rimando, debolmente. La baciò sui capelli e richiuse la porta mentre la trascinava verso la sua stanza. Lei piangeva ormai senza ritegno, come se solo allora che l’aveva raggiunto, che lui l’aveva abbracciata s’era permessa di dare sfogo al suo turbamento, e gridò: “Stephan…Tommaso è morto! È morto!”
Il ragazzo fece una smorfia di dolore. Se l’era aspettato, ma lo stesso la notizia della morte del domestico l’aveva addolorato. Era stato un brav’uomo, non se l’era meritato. Portò Irene in camera, sempre tenendola abbracciata, e una volta chiusa la porta le accarezzò dolcemente i capelli scarmigliati: “Ora è tutto finito, è tutto finito, ci sono qui io” le sussurrò all’orecchio col tono più rassicurante che gli riusciva. Lei continuava a piangere con forza, ma lentamente andava calmandosi. Le carezze, la voce rassicurante del giovane avevano su di lei un effetto benefico, la facevano sentire protetta. Pian piano i singhiozzi si acquietarono e Stephan allentò la presa su di lei: “I tuoi piedi, Irene! Come te li sei ridotti?”
“Sono venuta qui a piedi da Heather Ville” disse lei con voce spenta. I suoi occhi azzurri erano persi nel vuoto: “Volevo soltanto andare via”.
“Cosa è accaduto?” le chiese Stephan con una nota di rabbia: “Cosa ti ha fatto quell’assassino?” la aiutò premurosamente a sedere e subito andò a riempirle una bacinella d’acqua fresca, permettendole di immergerci i piedi doloranti. Mentre li teneva a mollo, prese a massaggiarglieli delicatamente, attento a non sfiorare le piaghe e le croste che avevano deturpato la sua pelle bianca. Era indeciso tra il sollievo che provava nel saperla lì accanto a lui e la preoccupazione per quello che doveva aver passato.
Alla povera ragazza occorsero alcuni istanti per riuscire a formare una risposta completa. Alla fine bisbigliò: “Avevi ragione, Stephan. Su tutto. Perdonami. Ero…ero così inebriata…R è un mostro. Le cose che fa, io…io non avevo mai visto…quella gola tagliata…c’era tanto sangue…oh, no, no!”
Aveva preso a urlare come un’ossessa, evidentemente preda degli effetti del brutto trauma psicologico che aveva subito. Stephan la prese delicatamente per le spalle e la tenne ferma con gentile fermezza, guardandola dritta negli occhi: “Calmati, adesso, Irene. Guarda, sei al sicuro ora. Ci sono io, e non permetterò che ti faccia del male. Sta tranquilla. Tesoro, sta tranquilla”.
Irene ricambiò lo sguardo con occhi pieni di terrore. In quelli dolci e sinceri del giovane sembrò trovare una sorta di salvezza, perché si riprese e smise di gridare e dibattersi. Gli afferrò le mani con presa convulsa e si accostò impetuosamente a lui, tremante: “Salvami, Stephan…ti prego…salvami da lui. Sono stata così cattiva con te, ti ho detto cose orribili…ma ero sotto l’effetto del suo incantesimo…io non volevo…”
“Shh” l’interruppe lui con dolcezza, posandole un dito sulle labbra: “Non preoccuparti. Ho capito. Io non ti abbandonerò, Irene. Io ti salverò. Io ti amo!”
A quell’appassionata dichiarazione la fanciulla lo guardò con gli occhi pieni di lacrime. Gli teneva ancora le mani, che stringeva con disperazione, come in una muta richiesta di aiuto. Una lacrima le rigò la guancia e mormorò: “Ti amo anch’io, Stephan. Ti prego, perdonami per quello che ti ho fatto”.
Il cuore di Stephan batté più forte dall’emozione. Aveva atteso a lungo quel momento, quelle parole, ed ora erano arrivate. Si sporse verso di lei e la baciò teneramente sulle labbra. Lei ricambiò il bacio e tutto era assolutamente perfetto, era naturale, era come avrebbe dovuto essere da molto tempo.
Allorché si separarono, Irene chiese angosciata circa la salute di suo padre. Stephan la rassicurò dicendole che stava bene e che non correva alcun pericolo. Poi la ragazza, che era rimasta accoccolata tra le sue braccia, attaccò a parlare con tono pieno di paura: “Ho paura, Stephan. Ho paura che R venga a riprendermi. Avresti dovuto vederlo…era fuori di sé. Cosa ti farebbe se scoprisse che ti amo con tutta me stessa? Forse non dovremmo stare insieme. Forse dovresti andar via al più presto”.
“No, amore” replicò con veemenza Stephan, stringendola più forte come a marcarne il possesso: “Ora che ti ho al mio fianco non gli permetterò mai di portarti in quel posto maledetto. Sei libera, adesso! Sei libera dall’influenza di Raphael”.
“Raphael?” fece lei confusa: “Perché l’hai chiamato Raphael?”
Il giovane le raccontò la storia che aveva appreso da Megara e Irene ascoltò tutto con grande attenzione. Ora le era tutto chiaro. L’album di fotografie… la famiglia si chiamava Lawrence, e R, cioè, Raphael, aveva cancellato con inchiostro rosso le facce del padre e del terzo fratello, coloro che aveva ucciso. Si spiegavano anche certi commenti circa la sua famiglia e certe cose che possedeva. Nell’apprendere della sua triste storia, la fanciulla fu presa nuovamente da quell’insensata pietà nei suoi confronti. Un bambino che solo ad un anno di vita veniva rinchiuso in una torre, solo…nessun motivo giustificava un simile comportamento. Era naturale che R…Raphael sviluppasse un carattere del genere. Questo certo non giustificava gli orribili delitti che aveva compiuto, ma dava un senso ai motivi per cui li aveva compiuti.
“Ora mi è tutto chiaro” sussurrò quando il giovane smise di parlare: “È strano, sai, come i tasselli vadano al loro posto, adesso. R…Raphael ha passato una vita intera a nascondersi. E quello che ha fatto a Tommaso…” un brivido la colse. No, a quello non voleva in alcun modo ripensare. Era troppo orribile, troppo scioccante. Le parve di avercelo ancora davanti, con la gola tagliata che spargeva sangue a terra, appeso a testa in giù con gli occhi vitrei fissi su di lei. Emise un gemito.
Stephan la baciò nuovamente sulle labbra e la strinse forte: “Non temere, amore. Ce ne andremo. Fuggiremo il più lontano possibile. Possiamo andare…in Australia, forse? È un bel posto. Oppure in Francia. Lì diventeresti una musicista di grande talento”.
“Ma…e il denaro che hai guadagnato?”
“Sai che ti dico? Non mi importa. Lo spenderò nella partenza. Al diavolo i miei progetti! Averti è già troppo per me. E faremo in modo da portare con noi anche tuo padre. Sì. Ecco cosa faremo. Al più presto prenderemo il primo aereo e voleremo dritti a Parigi. Lì Raphael non ci troverà mai. Lasciamolo cuocere nel suo brodo. Parigi ti piacerà tantissimo, ne sono sicuro! È una città così magica e piena di mistero, così piena di musica e di canzoni d’amore. Ogni giorno visiterai un posto diverso: la Senna, Notre Dame, la Torre Eiffel, Mont Martre, l’ile de la citè…e poi potremo…”
“Stephan” lo interruppe lei. Gli accarezzò il viso e sorrise, commossa: “Grazie, Stephan”.
Si sdraiarono sul misero lettuccio di Stephan stretti l’uno all’altra e si addormentarono, e Irene, tra le braccia del suo amore, riuscì a non avere incubi.
 
Stephan passò i successivi due giorni sbrigando le faccende per la partenza per Parigi. Si trattava di un viaggio alquanto precipitoso, perciò era anche disposto a salire su un elicottero scassato pur di staccarsi dalla nazione. L’ombra di Raphael incombeva su di loro, minacciosa, e benché il ragazzo fosse sicuro che non sarebbe mai uscito da Heather Ville, gli restava sempre il timore che si sarebbe spinto a tanto, pur di riprendersi la ragazza. Chi poteva dire cosa passasse in quella mente malata?
Raccolse insieme tutti i risparmi faticosamente guadagnati e andò alla più vicina agenzia di viaggi per sapere qual era l’aereo più prossimo in partenza per la capitale francese, e se era possibile prendere tre biglietti, uno per lui, uno per la fidanzata e uno per il, diciamolo pure, futuro suocero.
Irene, dal canto suo, restò chiusa in casa tutto il tempo, troppo impaurita per mettere il naso fuori. Passava le giornate buttata sul letto con gli occhi fissi al soffitto e si sentiva inerte, trascinata da una corrente che da una parte la spingeva verso Parigi, dall’altra manteneva vivo un legame con Heather Ville. Era dilaniata da sentimenti contrastanti. Infatti da una parte provava terrore per quella casa maledetta e per Raphael, ma dall’altra ripensava al lamento straziante che lui aveva emesso dall’interno della sua prigione mentre lei correva via, e se ne sentiva in qualche modo toccata. Sì, Raphael era un assassino, e aveva fatto cose terribili, ma in più occasioni aveva creduto di vedere, in lui, una vena di bontà. Era possibile che ci fosse del buono perfino in un uomo capace di appendere per i piedi le sue vittime e cacciarle come pezzi di carne nella fornace? Chi era il vero Raphael, quello che aveva fatto a pezzi il padre, il fratello, il marito di Megara e Tommaso, o quello che aveva ballato con lei e che aveva ammesso, in un momento che poi era subito passato, di essersi sentito egoista per le sue azioni?
No, lei doveva andare a Parigi e farsi una nuova vita, allontanare per sempre dalla mente quel sinistro personaggio senza volto e tutto quello che lo riguardava. Il suo futuro era Stephan. Le parve quasi di vedersi, in un palcoscenico illuminato, con uno sgargiante vestito addosso, acclamata da una folla di parigini tra cui c’era Stephan, mentre eseguiva un malinconico lamento con la sua arpa. Era quello il suo destino, quello che voleva con tutta se stessa. Una vita varia, avventurosa, al fianco del giovane che amava e da cui era amata. Rimanere per sempre chiusa in una gelida tomba in compagnia di un assassino senza volto era un pensiero terrificante. Però… però andarsene così, come una ladra, senza dire niente, senza farsi più vedere, sarebbe stato crudele nei confronti di Raphael. Ne avrebbe sofferto moltissimo…e le aveva dato qualcosa, nel suo piccolo. Chissà cosa stava passando soltanto adesso, là solo e sperduto nella sua Heather Ville, con la sola compagnia delle ombre e di coloro che aveva ucciso.
Così Irene si rese conto, senza particolare turbamento, che sì, era pronta a partire per Parigi e a cominciare una vita nuova, ma che non se ne sarebbe mai potuta andare senza prima dire addio a Raphael. Era un pensiero folle e immorale e comportava un terribile rischio, ma non poteva non seguirlo. Tornare in quel posto maledetto era l’ultima cosa al mondo che desiderava fare, tuttavia era suo dovere farlo. E sapeva anche con chiarezza che Stephan non l’avrebbe mai lasciata andare, così avrebbe dovuto far tutto da sola. Se tutto andava secondo i piani, sarebbe tornata all’arrivar dell’alba, nel giorno in cui partiva il loro aereo. Si sarebbe imbarcata e tutto sarebbe finito. In caso contrario…oh, ma era sicura di riuscire a fuggire di nuovo.
Quella sera, mentre Stephan dormiva fiducioso nel suo letto, Irene indossò una maglietta blu sua che le arrivava alle ginocchia, un paio di pantaloni e scarponi da trekking, poi si fissò nello specchio appeso al muro con espressione decisa e impaurita. “Sono impazzita” sussurrò. Chiunque al suo posto se ne sarebbe rimasto al sicuro fino alla partenza. Ma lei era Irene, e Irene amava il rischio, e non era un’egoista.
Prima di andarsene, si avvicinò silenziosamente a Stephan e si chinò su di lui. L’oscurità era densa, ma gli era così vicina che distingueva ugualmente il viso rilassato e rassicurato dall’imminente partenza. Sorrise intenerita e gli carezzò una guancia liscia: “Tornerò” bisbigliò nel silenzio. Quindi si alzò e, in punta di piedi, lasciò la casa.
S’era premurata di chiamare un tassì prima, così, quando scese nell’aria fredda e buia della notte fonda, sotto ad un cielo trapunto di milioni di luminose stelle, l’auto bianca con il cartellino sul tettuccio era già lì ad aspettarla. Irene non s’era resa conto che fuori infuriava un violento temporale: lampi bianchi squarciavano il cielo con rombi d’inferno e dalle nubi grigie e scure veniva giù un mantello di gocce furiose che sommergeva la strada, le case, i pochi passanti che ancora correvano per tornare al riparo sotto a voluminosi ombrelli. Irene corse verso il taxi stringendosi nella giacca e cacciando il mento nel bavero, ma quando fu entrata precipitosamente e si fu seduta sul sedile posteriore, era lo stesso bagnata come un pulcino, tremante, coi capelli bagnati e gocciolanti. I filamenti d’acqua scorrevano lungo il finestrino, opacizzavano il vetro.
Il tassista, un grasso uomo di mezz’età con vispi occhietti scuri, si girò dalla sua parte: “Dove andiamo, signorina?”
Irene esitò. Non era sicura che lui conoscesse Heather Ville e trovare il cammino così a memoria in quel putiferio d’acqua sarebbe stata un’impresa. Frugò nei pantaloni e ne estrasse una cartina che teneva dai tempi in cui si preparava al trasloco, la dispiegò e gliela porse, indicandogli un cerchio che aveva sottolineato col pennarello: “Ecco, qui”.
Il tassista diede una rapida occhiata alla cartina, quindi i suoi occhi guizzarono alla ragazza. Annuì con un secco cenno del capo, sempre guardandola in modo strano, e mise in moto. Partì sotto a quella pioggia torrenziale, proteso in avanti per vedere la strada attraverso il finestrino zuppo che i tergicristalli che oscillavano impazziti non riuscivano a rischiarare. Fuori dalla città il nero della notte mischiato alla pioggia non faceva vedere quasi nulla. L’erba era bagnata e l’odore arrivava persino dentro l’abitacolo. Ai lati della strada asfaltata lucida d’acqua, a malapena illuminata dai fari accesi, sfilavano alberi dai rami gocciolanti. L’ennesimo tuono squarciò il cielo e si udì un rombo sordo.
Irene, che cercava di scorgere qualcosa fuori dal finestrino, strofinandosi le braccia per scaldarsi, si rivolse al silenzioso tassista: “È molto che piove così?”
Lui alzò lo sguardo e la guardò in quel suo modo strano dallo specchio retrovisore: “Signorina…dov’è stata gli ultimi due giorni? Sono quarant’otto ore che continua in questo modo. Prima era tutto sereno, e poi di colpo ecco che è venuto giù questo putiferio. E dovesse vedere che lampi! Piuttosto, una signorina come lei non dovrebbe andare in posti sperduti come questo. Sa che qui piove più fortemente che in città?”
Irene aggrottò la fronte, poiché le era difficile crederlo. Ma era proprio così: lì le gocce erano ancora di più, e martellavano con un crepitio come di fiamme sfrigolanti l’erba e il terreno, dando vita a pozzanghere grosse come laghi che le ruote dell’auto facevano straripare, ma soprattutto c’erano assai più lampi e più saette, che si intrecciavano tra loro e rombavano. Ad un certo punto oltrepassarono un albero che doveva essere stato colpito: era in fiamme e lingue di fuoco arancione consumavano i rami adunchi e il tronco.
“Io…” bisbigliò la ragazza colpita: “Io…sono stata molto dentro casa”.
“Allora si spiega tutto” commentò il tassista rassicurato. Rassicurato ma anche un pochino teso: evidentemente non gli andava a genio recarsi in luoghi così inospitali e dimenticati da Dio. Era come scendere all’inferno, di propria volontà.
Era tutto buio e pieno di gocce d’acqua, ma Irene riconobbe subito il profilo oscuro e minaccioso di Heather Ville che se ne stava acquattata in mezzo al violento temporale come una bestia spaventosa e tesa, eretta nonostante le intemperie, che si guardava intorno con occhi furiosi e addolorati alla ricerca della preda perduta e tutt’intorno a sé aveva costretto perfino il tempo a variare in sintonia con il suo strazio. Quella visione le strappò un violento brivido. Era certa che se ci fosse tornata sarebbe stata divorata e magari sarebbe anche morta…fu tentata di dire al tassista di lasciar perdere, di pagarlo in più perché la riaccompagnasse da Stephan.
“No” si disse: “No, ho cominciato questa dannata cosa e la finirò!”
“Per favore, accosti qui” disse bruscamente al tassista. Quello subito assunse un’aria sollevata: “Come vuole” portò la macchina sul ciglio della strada accidentata che conduceva ad Heather Ville e la fermò in una folta macchia di cespugli. Irene rimase ferma a bordo, con una mano stretta sullo sportello e una posa insicura del viso, nell’atto di uscire in quel turbolento manifestarsi della furia della natura. Il tassista aspettò qualche minuto, poi, vedendo che non si muoveva, tagliò corto: “Il tassametro dice venticinque euro e cinquanta, signorina”.
“Oh!” esclamò lei come ridestata da un sogno: “Oh, certo” mise una mano in tasca e ne entrasse il denaro. Prima di darlo all’uomo, però, esitò: “Potrebbe aspettarmi qui, per favore? Non ci metterò molto”.
Il tassista contrasse le labbra: “Signorina, io sotto questa pioggia, in questo posto dimenticato da Dio non ci resto. Mi spiace”.
“Si tratta solo di una ventina di minuti, niente di più” lo implorò la fanciulla con voce sconfortata. Come sarebbe tornata indietro in quel temporale? Già la marcia a piedi nudi l’aveva sufficientemente logorata, a quell’ora di notte sarebbe potuta morire assiderata. Il tassista si impietosì, anche se non abbandonò l’aria seccata. Le strappò di mano i soldi: “Venti minuti, chiaro? Se non torna entro quell’ora torno indietro”.
Irene emise un lungo sospiro. Doveva accontentarsi, non aveva alternative: “D’accordo” capitolò. L’altro la guardò scuotendo la testa, pensando molto probabilmente che era pazza ad andare in quel posto. Forse aveva ragione. Ma ora non aveva granché importanza. Preso un bel respiro, aprì la portiera e subito una folata di acqua e di gelido vento notturno la prese in pieno, costringendola a piegarsi su se stessa. Uscì dalla macchina chiudendosi subito lo sportello alle spalle e per un po’ le rimase accanto, oscillante nell’erba bagnata, colpita da raffiche di vento e pioggia, bagnata fradicia, coi capelli incollati alle guance e gli occhi socchiusi che invano tentavano di guardarsi intorno. Sopra la sua testa tuonavano lampi.
Si allontanò barcollando dall’auto e cercò di imprimersi in testa il luogo in cui era parcheggiata per tornarvi tra poco. Rivoli d’acqua gelida le scorrevano sulla schiena dalla scollatura della maglietta e le bagnavano le guance come false lacrime mentre si avvicinava, sempre più esitante e spaventata, alla sinistra Heather Ville. Allorché le fu davanti, e poté distinguerla più nitidamente (era riuscita a orientarsi solo perché era molto grande) le parve che la dimora drizzasse di colpo quelle vecchie mura dolorosamente ripiegate in giù e che le finestre nere si illuminassero, e che tutta la sua fatiscente struttura si, come dire, rivitalizzasse e ringalluzzisse come se dopo giorni di resa avesse trovato infine quello che cercava. Il cuore le venne stretto in una morsa. Diamine, in quel momento preferiva rimanere lì all’addiaccio, sotto quella tempesta, anziché entrare.
“Povera me” mormorò, la voce persa in tutto quel frastuono: “La verità è che ho il cuore troppo tenero”.
Su, si disse, arrancando fino al portone su cui scorrevano copiosi rivoli d’acqua piovana, domani sarai a Parigi, con Stephan, e non dovrai preoccuparti più di nulla. Appoggiò le mani tremanti al portone e, infreddolita e bagnata, gli diede una forte spinta. Con un possente cigolio quello si aprì e dall’interno completamente oscuro di Heather Ville venne un tepore tentatore. Di certo la casa di Stephan era assai più calda, ma perfino Heather Ville era preferibile al gelo di fuori. Irene entrò di corsa, e richiuse il portone dietro di sé per non fare entrare l’acqua, appoggiandoci la schiena. Stette qualche istante a riprendere fiato, sotto ai piedi già una bella pozzanghera, coi capelli che le spiovevano in avanti stillando acqua dalle punte.
Quindi, allorché mise a fuoco la sala da pranzo, vide con vivo disappunto che era completamente nel caos: il lungo tavolo di legno giaceva rovesciato su un lato, col drappo rosso deturpato da grossi squarci e buttato malamente poco lontano, e le sedie rotte, prive di gambe, sparse un po’ ovunque, e accanto ad esso era raccolta una gran quantità di cocci e frammenti di stoviglie e posate fracassati. I frammenti taglienti brillavano appena nel buio, catturando mille riflessi, ed erano davvero tantissimi. Doveva essere stato distrutto un intero servizio da pasto. I due grossi candelabri erano stati scagliati contro il muro ed ora giacevano sul pavimento, con i bracci piegati e ormai rovinati, le candele erano saltate via, e intorno ad essi si erano formate grandi chiazze di cera bollente.
Ma la cosa più impressionante era l’imponente lampadario di cristallo: non pendeva più in alto, era invece accartocciato al centro esatto della sala, nient’altro che uno scheletro di metallo circondato da luccicanti frammenti di cristallo, con le catene che l’avevano tenuto appeso al soffitto abbandonate intorno. Quelle stesse catene, o almeno, i loro pezzi mancanti, pendevano ancora dal buco nel soffitto, recise e annerite. Il resto della casa era nascosto dal buio, ma la ragazza non dubitava che fosse in condizioni simili. Per il resto, un silenzio di tomba.
Tesa, fece qualche passo avanti, guardandosi intorno con rapidi scatti nervosi degli occhi, pronta a cogliere il minimo rumore. Si chinò e raccolse un frammento di cristallo. Se lo rigirò tra le mani e la pietra preziosa catturò uno scintillio. Era bellissimo. Ma improvvisamente avvertì un bruciore al palmo e lo lasciò cadere con un gesto di stizza: s’era tagliata ed ora il suo sangue tingeva di rosso il pavimento.
Si rimise in piedi con un senso d’angoscia. Erano già passati dieci minuti, il tassista non avrebbe aspettato ancora molto: forse aveva sopravvalutato la propria capacità di velocità. Se non faceva qualcosa al più presto rischiava di restare intrappolata lì, e non ne aveva alcuna voglia. Dov’era R…cioè, Raphael? Perché aveva fracassato tutto a quel modo? Oddio, che si fosse…
Le comparve in mente l’immagine terrificante dell’uomo senza volto che pendeva impiccato in qualche cantuccio scuro di Heather Ville, con la faccia ancora coperta dal drappo e gli arti mollemente abbandonati lungo i fianchi e d’istinto emise un rantolo strozzato. No, non poteva essere! Non poteva essere! Però, a pensarci, Raphael era capace di tutto, anche di spingersi fino al suicidio. Ma se si fosse suicidato…Irene non avrebbe mai potuto perdonarselo. Doveva essere vivo!
“Ma sì, che è vivo” si disse angosciata e sull’orlo delle lacrime: “Heather Ville e lui sono una cosa sola, sarebbe già completamente distrutta se si fosse ucciso. Di sicuro è nascosto da qualche parte…al secondo piano! Ma certo!”
Il pensiero di tornare in quell’ala maledetta era orribile, ma in quel momento la fanciulla era troppo angosciata per dare ascolto alla ragione. Si mise a correre e salì a precipizio la scala, incespicando, attenta a non sfiorare i numerosi frammenti e mobili fracassati che incontrò lungo il cammino. La paura di trovare Raphael impiccato, schiacciato sotto ad una finestra o sgozzato non le dava tregua. In qualche modo qualcosa la legava ancora a quell’uomo, e le impediva di gioire della sua morte.
Allorché giunse al famoso secondo piano, lo trovò fracassato e avvolto dalla completa oscurità, come il resto. Si guardò freneticamente intorno senza trovare nulla. Dov’era Raphael? Dove poteva essersi nascosto? Fece un paio di manovre a caso, urtando numerose volte qualche mobile rovesciato.
Mentre, ormai prossima alle lacrime, si fermava al centro di un corridoio adorno di porte sbarrate, udì, smorzato, il suono di un lamento terribile e ininterrotto, come di un animale ferito, che proveniva da un punto alla sua destra. Sobbalzò e si disse che la persona che emetteva quel lamento non poteva essere che Raphael. Immediatamente tese l’orecchio e prese la direzione da cui proveniva il rumore. Esso cresceva d’intensità via via che s’avvicinava: erano singhiozzi straziati, misti a parole confuse e indistinte, cariche di minaccia, cariche di supplica, e a grida strozzate che potevano esprimere solo un profondo dolore. Udendo tutto questo, alla poverina mancò il cuore e non poté fare a meno di provare rimorso. Ricordarsi il corpo nudo e martoriato di Tommaso era difficile, con quei lamenti nelle orecchie.
Si nascose lesta dietro il muro di pietra e si sporse appena per guardare. Era la stanza dove Raphael teneva i corpi delle sue vittime, quella stanza che in tutto quel tempo aveva solo cercato di dimenticare. La luce della fornace gettava bagliori funerei sul pavimento e tingeva il tutto di un lucore crudo. Non c’era più traccia del cadavere del domestico, probabilmente non ne restava che cenere da togliere da quella bocca d’inferno, e questo la sollevò. Tuttavia il puzzo di carne putrefatta era più forte che mai e le provocava conati di vomito.
Raphael era in ginocchio accanto alla fornace, illuminato in pieno dalle fiamme, col capo coperto dal drappo nero chino in avanti e le mani strette spasmodicamente sulle imperfezioni del pavimento, il corpo piegato e sofferente scosso da un tremito convulso. Esalava quel rantolo terribile, da animale ferito, ed era l’immagine stessa del dolore e della resa, lì accasciato per terra come un fantoccio di stracci. Accanto a lui c’era la pala da panettiere, che aveva la parte fonda imbrattata di sangue coagulato e di pezzetti di carne morta. Le lacrime cadevano da sotto al drappo e bagnavano il suolo sotto di lui. Ogni volta che emetteva un gemito più forte degli altri, esso era accompagnato dal rumore di un tuono all’esterno, che ne intensificava la sofferenza.
Di fronte a quell’immagine straziante e allo stesso tempo commovente, Irene, nascosta dietro la parete, non seppe cosa pensare. Raphael era una continua contrapposizione: piangeva di tutto cuore, eppure aveva vicino quell’orribile aggeggio pieno di sangue. Cos’era in realtà, un demone o un angelo? Certo non s’era accorto di lei, altrimenti non le avrebbe mostrato il suo tormento. E poi, a volte, era il suo nome, il nome di Irene, che invocava tra i denti serrati, con voce insieme disperata e rabbiosa e piena di un qualcosa di molto più profondo cui lei lì per lì non seppe dare nome. Forse, però, era stata crudele, l’aveva giudicato troppo in fretta, era andata via senza lasciarlo spiegare, e ora lui meritava di essere almeno salutato e messo a conoscenza della sua partenza. Certo, avrebbe comunque sofferto, ma Irene si sarebbe liberata dei sensi di colpa.
Così prese la sua decisione e, prima che lui potesse emettere un altro di quei lamenti strazianti, uscì dal suo nascondiglio e fece un passo avanti. Dovette fare un certo rumore, poiché Raphael si immobilizzò di colpo e smise di singhiozzare. Alzò di scatto la testa e la fissò da sotto al drappo. Irene restò ferma nella sua posizione e ricambiò lo sguardo con intensità. Per un attimo restarono tutti e due immobili: lui inginocchiato a terra, stupefatto, lei in piedi seria, senza dire nulla. Poi Raphael, rimettendosi faticosamente in piedi, con nel tono una patetica felicità e una speranza cui non osava abbandonarsi, esclamò: “Irene!”
Aveva chiamato il suo nome come se lei fosse l’angelo venuto a porre fine ai suoi tormenti, come se non riuscisse a credere che fosse tornata, e la ragazza si sentiva morire tanto era piena di rimorso. Allorché lui le venne incontro a braccia aperte, lo bloccò con un solo sguardo, e con la mossa di allontanarsi. Raphael si fermò e si limitò a fissarla trepidante, con le mani che gli tremavano. Ripeté: “Irene…tu…tu sei tornata”.
Lei abbassò gli occhi: “Io so chi sei” gli disse, e si chiese perché avesse esordito in quel modo. Raphael rimase stupito: “Co…cosa?” era spaesato, evidentemente il suo improvviso arrivo l’aveva scosso in profondità. Irene tornò a sollevare lo sguardo su di lui: “Tu sei Raphael Lawrence, e hai ucciso tuo padre e tuo fratello!”
A giudicare dall’immobilità di lui, non s’era aspettato che lei avesse scoperto la sua identità. Dopo diversi istanti che restava in silenzio, le domandò: “Chi te l’ha detto?”
“Io…” bisbigliò la ragazza, evitando la domanda. Aveva gli occhi lucidi, esitava, chiedendosi come annunciarglielo con delicatezza. Si trastullò così tanto circa quel pensiero, che alla fine lo sbottò senza tanti giri di parole: “Io sono tornata…per dirti addio”.
Raphael restò qualche istante lì in piedi, a fissarla in modo vuoto. Come se non avesse capito il senso di quelle parole, come se per lui non avessero alcun significato. Irene andò avanti con voce tremante: “Domani parto per Parigi. Noi non ci vedremo mai più, Raphael. Io amo Stephan. Voglio stare con lui. Sono venuta perché volevo che lo sapessi. Sarebbe stato crudele andarsene e basta”.
Raphael mantenne l’immobilità per un poco, poi scosse la testa: “No” sussurrò, con tono impercettibile: “No, menti. Tu…tu hai giurato di essere la mia sposa! Non puoi sposare quel giovane! Non puoi partire!”
Aveva alzato la voce in maniera minacciosa, e d’istinto Irene fece un passo indietro, presa da spavento. Ma continuò a ostentare una decisione che vacillava: “Invece lo farò. Non posso essere tua moglie, Raphael. Le cose che hai fatto sono troppo orribili per me. Il modo in cui vivi…non posso amare un assassino”.
“No!” gridò lui, fuori di sé: “Lasciami parlare, dannazione! È vero, ho sbagliato, ma posso cambiare! Io ti giuro…se accetterai di essere la mia sposa, non farò più del male a nessuno!”
“Non ti credo” ribatté lei: “Sono certa che invece faresti del male, soprattutto a Stephan. Mi dispiace, Raphael. Non posso darti quello che cerchi. Dissi di amarti, ma più che altro in te vedevo un eroe delle favole…ti idealizzavo, come tu idealizzavi me. Ora che ho visto il tuo animo, ho capito che non potrò mai essere tua”. 
Allorché accennò a voltarsi e ad andarsene, come era già accaduto due giorni prima, lui emise un singhiozzo disperato e cadde in ginocchio ai suoi piedi, stringendo lembi della sua maglia tra le mani brancolanti e abbracciandole le ginocchia. Si stava umiliando, stava dicendo addio a tutto il suo ritegno, per implorarla. Irene cercò goffamente di liberarsi di quella presa disperata, insieme a disagio e spaventata. Raphael intanto piangeva e le baciava perdutamente i piedi: “Ti prego, Irene, non andartene ancora…tu non sai, non sai cosa sono stati questi due giorni! Come posso provarti che non farò più del male a nessuno? Sposami e diventerò un altro! Sarò chi vuoi tu! Io ti amo! Ti prego, mio tesoro, mio amore…”
“Lasciami andare” rispose la fanciulla. Ma lui scosse la testa e si strinse di più a lei: “Io ti voglio al mio fianco…non lasciarmi qui solo per sempre, non andartene col bel giovane lontano da me…impazzirò…per tutta la vita sono stato solo…non abbandonarmi come fece mia madre”.
C’era sempre qualcosa in lui che toccava profondamente, qualcosa che suscitava pietà e compatimento. In quel momento, inginocchiato ai suoi piedi, umile e piangente, era davvero una vista penosa, e Irene proprio non aveva cuore di gridargli contro parole crudeli e scappare come già aveva fatto. Raphael le aveva afferrato una mano e la baciava attraverso il drappo: “Se sei tornata significa che un poco di bene me ne vuoi, non è vero? Chiunque al tuo posto sarebbe partito direttamente. Ma tu sei così buona, Irene. Quando ti ho vista, che felicità ho provato…sai, se tu mi volessi, potremmo ancora essere felici! Danzeremo tutto il giorno e vivremo soltanto di leggerezza e di affetto, come due persone normali che sono sposate”.
“Lasciami andare, Raphael” mormorò Irene con tono raddolcito, impietosita. Gli accarezzò la testa coperta con delicatezza: “Se vuoi essere buono, lasciami andare. Io non ti odio…ma non posso stare con te. Davvero”.
Lui pian piano sollevò il viso e la fissò, e ad Irene sembrò, anche se era impossibile, che quelle parole l’avessero toccato. Che stesse davvero per lasciarla andare? Che stesse, per la prima volta in vita sua, anteponendo il bene di un altro al suo?
E mentre Raphael esitava, Irene fece l’errore imperdonabile di rendersi conto che era del tutto privo di difese, e che il drappo nero era lì, alla sua portata, vicinissimo. La curiosità, maligna, la curiosità che uccide perfino il buonsenso, l’assalì di colpo. Tornarono a galla impetuosamente tutte le domande circa il famoso volto di R e non riuscì proprio a resistere. Con un gesto fulmineo allungò la mano e rapida gli strappò di dosso il drappo, ansiosa di conoscere quel segreto mortale.
…………orrore! Orrore! Orrore!
Mentre Raphael, resosi conto d’essere stato smascherato e che la ragazza si era approfittata del suo attimo di debolezza, prorompeva in un orribile ululato di rabbia bestiale e con mossa veloce si faceva scudo al viso col braccio, Irene, pallida come una morta, con la bocca spalancata che non urlava più e gli occhi colmi di quella visione che superava qualsiasi altra avesse mai visto, perfino quella del cadavere di Tommaso, indietreggiava convulsamente, troppo sconvolta e inorridita per dare nome alla cosa che le si era rivelata, al premio per la sua maledetta curiosità. Raphael non aveva fatto in tempo a coprirsi, l’aveva già visto.
Il suo viso…mai, in tutta la sua vita, aveva contemplato qualcosa di più orrendo, di più insopportabile alla vista, di più orribilmente marcio e consumato. Non poteva essere il viso di un uomo, eppure qualcosa d’umano ce l’aveva di certo. I capelli, così fini da risultare quasi sottili fili di spago, di un nero opaco, gli arrivavano alle spalle, sporchi e arruffati, e gli occhi di un azzurro chiarissimo, quasi bianco, che facevano un brusco contrasto col nero lucente della pupilla, la fissavano pieni di rabbia. Ma il viso…i lineamenti erano orrendamente avvizziti e ripugnanti, come se tutti i mali del mondo si fossero concentrati su di essi e l’avessero stravolti, tramutando quella faccia nella maschera di un demone d’inferno. Solchi violacei e cicatrici umide gli deturpavano le guance incavate, la fronte ossuta, il mento appuntito, le labbra sottilissime erano circondate da due pieghe crudeli, e mostravano grossi denti squadrati, il naso era poco più di una fessura nera. La pelle non aveva affatto il colorito roseo di quella di tutti gli altri, ma era d’un orribile viola scuro, lo stesso identico colore che assume un cadavere lasciato mesi a marcire. Era un ripugnante essere, metà umano, metà demone, marcio, schifoso, venefico.
La povera Irene, atterrita e terrorizzata, era convinta che neanche nei suoi peggiori incubi fosse riuscita a partorire un volto simile. Solo il Diavolo poteva avergli dato vita. E lei aveva permesso che la baciasse! Il solo pensiero la riempì di raccapriccio. Era un mostro, era un demonio quello che la amava e voleva farne la sua sposa. Distolse subito lo sguardo, la sola vista la spaventava terribilmente.
Da parte sua Raphael aveva smesso di supplicare e di piangere e ora incombeva su di lei come un vero demone, con quell’orrendo viso marcio stravolto dal furore e negli occhi pallidi una luce assassina. Tra i denti zannuti sibilava odiosamente maledizioni e minacce contro di lei che l'aveva smascherato e gesticolava furiosamente: “Maledetta! Dannata! Perché l’hai fatto?! Perché hai voluto vedere come ero fatto? Ti avrei lasciata andare, maledetta, l’avrei fatto, anche a costo di spezzarmi il cuore, perché sapevo che ti saresti ricordata di me con nostalgia e avresti continuato a volermi bene! Ah! Ma ora che hai visto la mia mostruosità, ora che sai qual è il volto di R, se te ne vai non tornerai davvero più e penserai a me solo con orrore. Vedi, adesso, il motivo della mia solitudine, il motivo della mia disperazione, il motivo per cui sono stato costretto a coprirmi?”
La poverina continuava a gridare e a coprirsi il viso con le mani per non guardare l’orribile faccia di demone, ma Raphael, furioso, l’afferrò per i capelli e la costrinse a guardarlo. La sensazione di quelle dita adunche tra i capelli e la vicinanza con quel volto deforme la riempirono d’un tale terrore che temette di svenire. Cadde in ginocchio implorandolo di risparmiarla, ma lui non la lasciò andare: “Ora, Irene, non uscirai mai più di qui! Sarai mia per sempre! Sarai la sposa del mostro!” proruppe nella sua risata agghiacciante e tutto il viso gli si contrasse in un ghigno: “Ti avrei lasciata andare, ma tu ti sei condannata con le tue mani. Non vedrai mai più il tuo bel giovane, e se verrà qui a seccarci, gliela darò io! Sì, resterai per sempre qui con me, e non te ne andrai più”.
“No! No! Lasciami! Non mi toccare!” singhiozzò la sventurata del tutto dominata dall’orrore. Come era stata sciocca! Seguendo il puerile desiderio di scoprire quale fosse il volto di Raphael, si era imprigionata da sola. Tuttavia non poteva accettare di essere prigioniera di quell’essere ripugnante, di cui solo la vista bastava a terrorizzarla oltre ogni dire. In un impeto di forza disperata si liberò delle sue mani raccapriccianti e corse verso l’uscita urlando e agitando le braccia, mentre dietro di sé udiva le sue risate terrificanti. Una volta giunta al pianterreno si gettò sul portone, ma allorché provò ad aprirlo s’accorse con orrore che era chiuso a chiave. Fece forza, lo scosse, gridò imprecazioni, ma niente, quello resisteva e la teneva chiusa dentro.
Si voltò nuovamente verso l’antro buio, ansante, disperata, cogli occhi spalancati pieni di paura. Raphael uscì dall’oscurità e rivide quella sua orrenda faccia tesa in un sorriso diabolico che la rendeva ancora più ributtante. Negli occhi opachi aveva un luccichio sinistro. Irene, appiattita al portone sbarrato, si raggomitolò a terra e premette la faccia sulle ginocchia raccolte, come se avesse di fronte la più tremenda delle visioni: “Ti prego” disse con un fil di voce: “Ti prego, lasciami andare”.
“Ma come?” fece lui con tono falsamente sorpreso: “Forse non ti piaccio? Oh che strano. Sono così bello, io! Come me non c’è nessuno. Ti è piaciuto vedere il mio volto, vero? Lasciarti andare? Oh, no, la tua compagnia mi è troppo gradita perché possa privarmene. Rimarrai qui per sempre. Presto sentirai suonare le campane a nozze, mia cara! E noi saremo uniti fino alla morte!”
Era tutto un incubo, solo un orribile incubo, e ora avrebbe aperto gli occhi e si sarebbe destata tra le braccia rassicuranti di Stephan. Ma rimase lì, accucciata a terra, terrorizzata, con il mostro davanti che la contemplava trionfante, prigioniera e destinata ad un destino peggiore della morte. Non poteva neanche chiedergli di farle la grazia di coprirsi di nuovo col drappo per risparmiarle il dispiacere di vederlo, poiché se l’era cercata da sola. Maledetta lei! Maledetta lei! Cosa avrebbe dato per non averlo mai visto!
Irene gettò indietro la testa e lanciò un grido lancinante.

 




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