Questa probabilmente sarà una di
quelle storie che vengono
ignorate perché le prime righe vengono considerate tanto noiose da
mettere
addosso un’imparagonabile angoscia. Un tempo si usava dire che la
copertina non
fa il libro..o forse era un detto riguardante monaci e tuniche, questo
non ha
importanza, non per me per lo meno. So solo che sono sulla carrozza di
un
treno, almeno credo, con un’agenda in mano, una rosa vicino, che
osservo con la
coda dell’occhio di tanto in tanto e mi rammarico nel vedere come
questa sia
capace d’appassire così velocemente. Dannazione, se solo riuscissi a
tirare giù
il finestrino sarebbe tutta un’altra storia, magari un pizzico d’aria
fresca.
La penna scorre sulle righe appena
accennate di quell’agenda
vecchia di anni, sono molte le pagine rovinate, scritte, strappate, in
una
posso anche leggere i compiti di tedesco da fare per un presunto 12
dicembre.
Pagina 244, Übersetze,
es. 15-16-17 (a, b). Sbuffo nel vederli, Dio solo sa quanto potevo
odiarli, non
sapevo farli, era questa la motivazione, e come la volpe da dell’acerba
all’uva
quando non riesce a coglierla io ero capace di dare dell’incompetente
alla
professoressa.
L’inchiostro della penna scorre su
quel foglio macchiandolo
di un nero limpido e lucido, penna a gel, sicuramente non potrò
scrivere
dietro, maledirò per sempre quell’infermiera, proprio una penna a gel
doveva
avere nel taschino del camice?
Sollevo lo sguardo verso il
finestrino, posso vedere il
panorama scorrere veloce dietro quel vetro trasparente, sino ad un
certo punto,
dopotutto gocce d’acqua, granuli di polvere, macchie di pennarelli e
tracce di
fumo oscurano la vista su quello che c’è fuori, ma è sommariamente
visibile. E’
notte, stiamo passando adesso sopra un ponte, la valle sotto di noi non
sembra
nemmeno così tanto lontana, provo anche a scorgerla per quanto mi è
possibile,
ma non vi riesco eccessivamente bene. Vedo solo una macchia scura ed
indecifrabile, nemmeno la luce chiara di quei tre quarti di luna mi
aiuta,
sembra la selva oscura nella quale si disperse a suo tempo Dante,
limitante,
non ci piove.
Qualche nuvola si fa avanti
coraggiosa in quel cielo scuro
e, paradossalmente, lo rischiara: quelle nubi colte dai raggi lunari
divengono
simpatiche e soffici nuvole di zucchero filato al sapore di..puffo!
Esiste un
gelato con quel sapore ed ho paura di sentirmi cannibale nel provarlo,
francamente. Per essere al sapore di puffo cosa potrebbero metterci
dentro?
Un sorriso affilato e vagamente
malizioso mi screzia le
labbra, sì, l’ho pensata brutta e per un momento sembra anche che il
tipo
grassoccio e che trasuda in maniera orripilante liquidi da tutti i
pori, mi
abbia letto nel pensiero, sembrava fosse così da come il suo sguardo
indagatore
scrutava le mie forme, quelle non troppo marcate del seno, ma appena ho
spostato lo sguardo sul suo volto s’è voltato dalla parte opposta,
imbarazzato
anche, a quanto pare. E non mi basta mai mettere in imbarazzo le
persone,
perché porto le mani dietro la nuca, raccogliendo con le dita i lunghi
e morbidi
capelli castani, tirandoli su e legandoli in una coda alta,
perfettamente
liscia, con tanto di frangetta che sfiora le ciglia feline, il volto
pulito dal
trucco. Faccio scivolare la mano di lato, disegnando la curva che
prendono i
crini scuri, fingendo che il braccialetto che porto al polso si sia
impigliato
sulla camicetta ed in uno strattone di troppo lascio che i primi due
bottoni
escano in modo brusco dalle asole, fingendo anche di non essermene
accorta. Ma
lui lo sa, che lo sto facendo perché mi diverto, e mi diverto da morire
nel
vedere come soffre nel suo angolino, conscio di non poter far nulla.
Lascio scivolare lo sguardo di nuovo
fuori dal finestrino,
controllo le fermate, richiudo l’agenda, rendendomi conto che oramai
manca
poco, sono quasi arrivata, la prossima dovrebbe essere la mia, massimo
cinque
minuti. Mi permetto quindi di tornare con lo sguardo sul volto
dell’uomo, che
pare più teso così come anche attento ad ogni mio singolo spostamento.
Mi
permetto di scivolare un poco in avanti, accavallando le gambe sottili
ed
ambrate in un gesto evidente, con il piede calzato dalla ballerina
rossa che
sfiora “inavvertitamente” la gamba di lui, che siritira nel suo modo
impacciato
di fare. Quel gesto affatto discreto deve aver suscitato qualche
reazione in
lui, visto che lo vedo deglutire a vuoto e fissarmi sempre di più.
Mi fa…ribrezzo, solo ribrezzo al
momento, ma mi diverto lo
stesso. La leggera gonna bianca che è scivolata un poco in su,
mostrando meglio
la coscia, la mano con l’agenda s’infila nella borsa firmata che tengo
vicino a
me, assieme anche alla rosa. Alla fine si decide, sorride, si china un
poco in
avanti e mi chiede come mi chiamo. Lo scruto, dall’alto in basso, con
fare da
superiore, sì, mi sento profondamente migliore di lui, tanto da
permettermi una
smorfia che io stessa avrei odiato. Quel tirato sorriso di circostanza.
-Jamelie- il tono che è un
cinguettio. Ogni tanto lo faccio,
ogni tanto mi comporto da perfetta oca giuliva solo per il gusto di
farlo,
magari lo sono anche, ma in certi casi do il meglio di me. Allo stesso
modo,
nel rivolgermi all’altro, mi sono limitata ad una risposta senza
interesse nei
suoi confronti. Così fa chi vuol apparire stronzo, no? Bene, inizio ad
imparare
allora, è quello il mio obiettivo e, anche se non vi piace l’idea,
unicamente
per il mio personale divertimento.
-Davvero un bel nome, sei straniera?
Mi domanda, avevo appositamente
spostato lo sguardo verso il
finestrino, di nuovo, lo osservo con la coda dell’occhio, sorrido
appena a quel
modo classico di una tipa come me. Scuoto il capo, non mi degno nemmeno
di
aprire bocca in merito, nemmeno non meritasse davvero un solo fiato
sprecato.
-Dove scendi?
Fa giusto in tempo a chiedere, che il
treno prende a
rallentare, le rotaie sibilano e cigolano nel fermarsi in un fischio
ferroso
che fa quasi male alle orecchie da sentire. Sono le 23 e 17, sì, è la
mia
questa. Mi alzo, non rispondo al tizio, non so nemmeno come si chiama,
semplicemente recupero la borsa, riallaccio sfacciatamente la camicetta
a scacchetti
bianchi e rossi ed altrettanto semplicemente mi avvio verso la porta.
Sento il
telefono vibrare in tasca e lo recupero mentre scendo quei due scalini
per
poter scendere definitivamente dal treno. Guardando lo schermo del
telefono per
leggere il messaggio di Roberto non ho nemmeno fatto particolarmente
caso alla
stazione completamente vuota. Solo quando sento il treno ripartire e
posso
premere su “Invia” alzo lo sguardo scuro e mi guardo intorno spaesata.
Perché
spaesata? Perché ho sbagliato fermata, e questa pare abbastanza deserta
da
parti pensare che non ci siano persone di lì a qualche chilometro di
distanza.
Vuota, completamente vuota, mi trovo
sul quarto binario, il
che significa che per prima cosa devo cercare il sottopassaggio per
poter
andare a controllare gli orari di eventuali treni successivi, visto che
su
quello non ci sono i tabelloni, ma almeno all’interno della stazione
dovrebbero
starci.
Mi avvio, il rumore ovattato della
base delle ballerine pare
rimbombare in quel silenzio di tomba che è quel luogo, e pensare che
non è
nemmeno eccessivamente tardi, solo le undici, poco più. Porto la rosa
sotto il
naso per poterne sentire di nuovo l’odore ed un sorriso tenue mi
compare sulle
labbra. Davvero un buon profumo, davvero belli i ricordi ad essa
collegati. Sul
volto si potrebbe anche notare quel velo d’angoscia per qualcosa di non
meglio
specificato, se solo ci fosse qualcuno per poterlo vedere.
E invece non c’è nessuno, in compenso
però sono riuscita a
trovare la scala che porta al sottopassaggio per poter arrivare alla
stazione
in sé, l’unica cosa che non mi piace del posto è che le luci sono
spente,
eppure quelle sul binario funzionavano. Recupero il telefono dalla
tasca,
accendendo la luce che si trova sul retro del telefono, in modo da non
capitombolare di sotto, nell’inciampare da qualche parte e
semplicemente prendo
a scendere, per forza di cose.
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