We ’re just two
lost souls
swimming
in a fish bowl.
“And
did they get you trade your heroes for ghosts?
Hot
ashes for trees? Hot
air for a cool breeze?
Cold
comfort for change? And
did you exchange
a
walk on part in the war for a lead role in a cage?”
Pink
Floyd
Le sensazioni sono
soggettive.
Dipendono, come ben
si sa, da dove siamo stati cresciuti e da come siamo stati educati.
Per lui il vento che
tirava leggero dalla costa, l’odore del pane salato e
l’afa e l’umido che si legavano ai capelli
rendendoli crespi, sapevano di casa e di pace.
Il sole che gli
riscaldava la pelle abbronzata, gli sguardi intensi e pieni di tutta la
forza del mare in burrasca della sua gente, e quel modo di camminare
lento e strascicato degli abitanti del Distretto 4 lo facevano sentire
tranquillo come non lo era da molto tempo.
Erano sensazioni
buone, di quelle che ti scaldano il cuore e la pelle, di quelle che
speri non ti scivolino via dalla dita, di quelle che vuoi che si
esauriscano con te.
Ma le sensazioni
buone, si sa, sono sempre accompagnate da quelle negative.
Si sentiva sporco, si
sentiva marchiato come un manzo pronto per il macello.
Ogni notte passata
tra lenzuola, volti e profumi diversi, ma che gli sembravano tutti
uguali, a Capitol City ripensava a casa sua prima degli Hunger Games,
alla loro staccionata marcia, alla porta che non si apriva, alle
imposte scure sempre chiuse, alla camera dove dormiva sotto quelle
lenzuola grezze, ma soprattutto quanto lo rendevano felice le piccole
cose, come il sorriso di sua madre, un bacio sulla testa prima di
addormentarsi.
Pensava a sua madre
che lo aspettava ogni volta, e che quando sarebbe tornato a casa lo
avrebbe costretto a mangiare doppia razione di tutto per fargli mettere
su qualche chiletto, pensava a suo padre che una notte era partito per
pescare e non era più ritornato, pensava alla barca che era
l’unica cosa che era stata trovata dagli altri pescatori e
pensava a se stesso, che ormai era solo un involucro vuoto, una
marionetta nelle mani di chi era più potente di lui, un
giocattolo per chi lo desiderava ardentemente.
Aveva bisogno di
riempirsi di tutte le sensazioni positive che riusciva ad immagazzinare
per sopravvivere a Capitol City; ecco perché era tornato nel
suo Distretto 4, per questo e perché si stava avvicinando il
suo diciannovesimo compleanno.
Il Presidente Snow
aveva organizzato, per lui e per gli altri abitanti del Distretto,
un’enorme festa: per quel giorno i pescatori avrebbero
abbandonato le reti e avrebbero dedicato la loro attenzione a Finnick
Odair, il bel vincitore sei Sessantacinquesimi Hunger Games.
“Che la fortuna possa essere a
mio favore” pensava mentre raggiungeva il
Villaggio dei Vincitori dalla stazione adiacente il Palazzo di
Giustizia “ancora una volta.a”
Non aveva infatti
voglia di sentire la gente che lo idolatrava e che lo toccava come per
rubare un po’ di lui, perché ormai non aveva
niente ne per se ne per gli altri.
Non aveva sorrisi
finti da dispensare o frasi poco intelligenti da dire, voleva solo
raccogliere i brandelli di quello che era per poi farsi distruggere e
ricominciare da capo.
Così era
la sua vita, un domino infinito, un pezzo faceva cadere tutti gli altri
inesorabilmente, mentre lui tentava di tirarli di nuovo su qualcuno li
faceva crollare di nuovo.
Di nuovo e ancora.
Arrivò a
casa e fece per salire le scale per andare in camera sua.
-Finnick.-
-Mamma sono stanco.-
le rispose mentre lei si avvicinava per sistemargli i capelli sulla
fronte.
La sua bella mamma,
con i capelli del color del bronzo come i suoi, con i suoi occhi scuri
dai quali sembrava che ogni singola gioia fosse stata strappata via con
la forza, sua mamma che lo vedeva esattamente come era, non come
volevano gli altri, non come lo vedevano gli altri.
-Dopodomani è il tuo
compleanno.-
-È anche la festa del
mare- disse -ma
nessuno sembra ricordarsene.-
-Forse perché il tuo
compleanno è importante.-
-Sembra che importi
più agli altri che a me.-
-Vuoi qualcosa di speciale per la
tua festa?-
-Portami via da qua.-
rispose appoggiando la testa sulla spalla della madre che
iniziò ad accarezzargli i capelli.
Inspirò il
profumo dalla pelle del collo della madre: sapeva di mare, sapeva di
sale, sapeva di tutti quegli odori che lui aveva perso, sapeva di tutto
quello che lui sarebbe voluto essere.
-Lo sai che non posso, ma ti
prometto che ti divertirai.-
Un fenomeno da
baraccone ecco cos’era, vestito come se gli importasse
qualcosa del pensiero di quelli che lo fissavano nei suoi vestiti
costosi, con gli occhi truccati come la più infima tra le
prostitute di basso borgo e un sorriso finto stampato su quelle labbra
false e perfette allo stesso tempo, un tripudio di
volgarità, ecco come lo avevano trasformato due ore e mezzo
con i suoi “collaboratori”, che poi quelli di
collaborare non ne avevano proprio l’intenzione.
Gli aveva chiesto
qualcosa di semplice e loro non lo erano stati a sentire:
-Dobbiamo seguire gli ordini del
Presidente Snow- gli aveva detto una donna grassottella
dalla pelle dalla tinta verdognola che gli ricordava tanto i ragazzi
con il mal di mare dopo la loro prima volta su un peschereccio con gli
adulti, che gli saltellava attorno con matite e ombretti –vedrà che il lavoro
quando sarà finito le piacerà un sacco.-
Di questo era certo,
un sacco se lo sarebbe messo in testa molto, ma molto volentieri, ma lo
sapeva, il Presidente voleva fargli solo capire quale era e quale
sarebbe stato il suo posto, quello della prostituta, dello schiavo dei
piaceri di Capitol City, bello, certo, dannatamente bello e
affascinante, ma sempre uno schiavo, uno stupido uccellino chiuso in
una gabbia dorata per sempre, tra il becchime migliore, i vestiti
più alla moda, a volare in eterno sotto una cupola
invalicabile come quella dell’Arena.
“I Giochi per me non avranno mai
fine” pensava amaro mentre stringeva la mano a
tutti quelli che gli si paravano davanti spinto da dietro da sua madre
che tentava di fargli conoscere più persone possibili, gli
prendeva la manica della giacca e lo tirava dall’altra parte
della Piazza gremita di tutti quelli che erano venuti per festeggiare
il suo compleanno.
“Benvenuti alla celebrazione di
questo essere imperfetto!” avrebbe voluto
gridare, ma si astenette.
Tutti lo credevano un
eroe, era uno dei più giovani Vincitori dei Giochi della
Fame, un mito, una leggenda, ma lui sapeva di non esserlo.
Ad un tratto nessuno
sembrava avere più occhi per lui: in mezzo alla Piazza
quattro Pacificatori stavano trasportando una grossa torta, quel dolce
era stato preparato appositamente per lui dai quattro migliori
pasticceri di tutta Panem, e dalle dimensioni si intuiva che doveva
esserci voluto parecchio tempo per prepararla e decorarla.
Naturalmente nessuno,
o quasi, aveva mai visto una cosa del genere, e tutti erano rimasti
veramente colpiti, prelibatezze del genere non erano facilmente
reperibili se non in circostanze veramente speciali.
Finnick
approfittò dell’occasione per lasciarsi alle
spalle la Piazza.
Le onde basse si
rifrangevano sugli scogli modellati da anni e anni di erosione, nella
spiaggia adiacente al molo dove erano attraccati i pescherecci dei
pescatori non c’era nessuno, era vuota.
Solo una ragazza
stava seduta rigidamente sulla sabbia calda, mentre lasciava che le
onde le lambissero i piedi piccoli e scalzi, e si rigirava tra le mani
un piccola ghirlanda di fiori bianchi e gialli.
La conosceva di vista.
Aveva due anni in
meno di lui e avevano frequentato la stessa scuola.
Non gli era mai
piaciuto studiare, ma sua madre aveva insistito tanto perché
finisse gli studi anche dopo aver vinto gli Hunger Games.
Infondo non era
così male, tutti i ragazzi lo volevano come vicino di banco
e tutte le ragazze volevano un suo bacio e lui raramente rifiutava.
Il problema erano i
professori che gli chiedevano spesso di raccontare la sua vita
nell’Arena, e lui non voleva ricordare tutto quel sangue che
lui stesso aveva contribuito a far scorrere, tutti quegli occhi che lo
guardavano impotenti e supplicanti mentre lui gli piantava il tridente
nella viscere, perché i Giochi della Fame sono
così, o uccidi o vieni ucciso, o sei predatore o per forza
sei preda, ne sopravvive solo uno, e per essere quello non bisogna
risparmiarsi nulla.
Un giorno era seduto
sul muretto del cortile e osservava una strana ragazzina
scalza, che indossava un leggero vestitino a scacchi blu e verde scuro,
che frugava con le mani sotto i sassi, tra l’erba
più alta, sui rami degli alberi, poi lo vide e gli si
avvicinò saltellando.
-Ciao, hai preso tu le mie scarpe?-
chiese sorridendo.
Non era poi quella
gran bellezza vista da vicino, con quei capelli crespi tenuti
giù da un semplice cerchietto, magrolina e piuttosto bassa e
le labbra fini screpolate, ma gli occhi erano i più belli
che lui avesse mai visto, blu come il mare, ma non di quel colore reso
terroso dalla sabbia smossa dai piedi vicino alla riva, ma di quel
colore del mare dove scommetti con gli amici su chi toccherà
per primo il fondo dopo un tuffo, dove si gettano le reti e si porta
sul peschereccio il pesce abbondante.
-Vuoi un bacio?- le
chiese mentre tentava di non affogare nel suo sguardo.
-In verità io volevo
solo le mie scarpe.-
-Non le ho io le tue scarpe!-
rispose un po’ infastidito.
-Peccato.- e se ne
andò salutando con la mano e tornando a cercare.
“Peccato veramente”
si ritrovò a pensare.
-Nda-
La
mia prima storia per il fandom di Huger
Games,
è una Finnick/Annie
ambientata prima e durante i Giochi
della Fame
della ragazza, e forse –dico forse- anche dopo.
Non
supererà i dieci capitoli al massimo, anzi prevedo che
saranno molti di meno.
Spero
che il primo capitolo vi sia piaciuto.
Il titolo “We’re
just two lost souls swimming in a fish bowl” è
preso dalla canzone “Wish
you were here” dei Pink
Floyd
come la citazione iniziale e significa “Siamo
solo due anime perse che nuotano in una boccia di pesci”.
Un
bacio
cranium
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