Il
burattino
Probabilmente il
proprietario della
Wolkswagen grigia che ci era
accanto stava pensando che fossimo sotto l’influsso di
marijuana o superalcolici.
Effettivamente poteva sembrare così.
Non si vedono tutti i giorni due ragazze cantare a squarciagola Ricominciamo di
Adriano Pappalardo dentro una microscopica Twingo verde.
Il proprietario della Wolkswagen forse avrebbe cambiato idea sul nostro
conto, se Giulia non avesse cominciato a gesticolare fuori dal
finestrino che non era
capace di stare a guardare quegli occhi di brace...
Pazienza, ci stavamo divertendo troppo.
Avevo avuto la geniale idea di fare un giro al mega centro commerciale
appena costruito.
Sabato pomeriggio.
Con trenta gradi all’ombra.
Senza aria condizionata.
“Giù, quel tipo ti sta fissando!”
“...un brivido
dentro e...come? Ah, quello lì? Buon
pomeriggio!’”esclamò radiosa.
“Ma sei scema? Non lo conosci neanche!” esclamai, a
metà tra lo stupito e il divertito.
“Va beh. Come diceva mia nonna, bisogna essere sempre
educati!”
Ebbi la saggia idea di non commentare la sua personale interpretazione
della massima appena esposta e accelerai per non beccare
l’ennesimo semaforo rosso; dopo poco svoltai verso il
parcheggio sotterraneo del centro commerciale e parcheggiai la macchina
vicino all’entrata.
“Se non torno a casa con un paio di scarpe nuove, mia mamma
mi disereda...”
“Si, effettivamente quelle
non possono essere più considerate scarpe” dissi,
fissando quelle cose lacere e consumate che aveva ai piedi.
C’era perfino una toppa.
“Ah-ah-ah, simpatica.” replicò,
assotigliando lo sguardo.
Ci dirigemmo verso uno dei primi negozi, ma purtroppo vendeva cose un
po' troppo...come dire...datate.
Ok. Da vecchia.
“Oh mio Dio, Sere, guarda quella maglia!”
esclamò Giulia, strattonandomi per un braccio.
“Giù...è leopardata. E ha le borchie.
Nemmeno le vecchie delle balere se la metterebbero!”
“Ti prego, la devo provare! È troppo
trash!”
Cercai di protestare, ma la mia indole passiva venne sopraffatta
dall’esuberanza della mia amica.
La conoscevo da circa due anni e, nel corso di questo arco di tempo,
avevo provato l’istinto di sotterrarmi almeno un centinaio di
volte. Come per esempio quella volta che aveva imbroccato un ragazzo
tedesco al mare fingendosi
finlandese: non le era bastato allestire quella messa in
scena da sola, ma aveva coinvolto anche me costringendomi a inventare
di sana pianta il finlandese. Io, che ero già troppo
impegnata a coprirmi il più possibile per non farmi vedere
in costume, farfugliavo cose a caso che Giulia traduceva liberamente in
inglese per far conversazione con Hans.
Sapevo già che quel negozio sarebbe stato teatro di
un’altra scena del genere, quindi mi rassegnai e la seguii
dentro.
Dopo un rapido saluto alla cassiera ultrasessantenne, Giulia si diresse
velocemente verso il reparto più variopinto del negozio:
cominciò a toccare vestiti con farfalle in technicolor,
gonne con spacchi vergognosi e magliette attillate con ogni tipo di
fantasia.
“Eccola! - esclamò - Vado a provarla! Tu prepara
la macchina fotografica!”
“No, Giuly, non posso, dai...”
Era già entrata nel primo camerino.
Dopo pochi secondi tornò fuori, raggiante, con addosso la
cosa più orrida che avesse potuto trovare. Ovviamente non si
accontentò di questo: arraffò un paio di
pantaloni di lamé neri e corse ad infilarsi pure quelli.
Quando uscì era un misto tra Olivia Newton John
nell’ultima scena di Grease
e una drag queen di second’ordine.
Mi costrinse con la forza ad immortalare il suo antiestetico completo, mentre
cercavo disperatamente di non farmi notare dalla cassiera.
Quando si sentì soddisfatta si cambiò nuovamente
e mi trascinò fuori dal negozio.
“Giù, ti prego, non farmelo fare mai
più!”
“Ma dai! Cosa vuoi che sia? Devi imparare a fregartene degli
altri, Serena, altrimenti ti perdi le cose più belle delle
vita”.
“E per te le cose belle della vita comprendono mascherarsi in
quel modo in un negozio per signore?” replicai sarcastica.
“Anche. Ad esempio: quanto scommetti che riesco a farmi dare
il numero di quel commesso così carino?”
Il commesso-così-carino lavorava, guarda caso, in un negozio
di scarpe sportive.
Alzai gli occhi al cielo e la seguii, per l’ennesima volta,
verso un’altra imminente figura di merda.
“Ciao - disse rivolgendo uno sguardo da cerbiatto al commesso
- Potresti aiutarmi? Avrei bisogno di un paio di scarpe...”
Con lo stesso riflesso della gazzella che scopre di essere inseguita
dal leone, mi spostai velocemente il più lontano possibile
da Giulia e da quel povero martire.
Perché? Perché riusciva sempre a mettere in
pratica quello che le veniva in mente? Ma soprattutto,
perché io ero sempre presente mentre ciò accadeva?
La storia del finlandese non era che la punta dell’iceberg di
tutti i momenti imbarazzanti che avevo dovuto sopportare; perfino il
nostro primo incontro era stato un momento imbarazzante.
Ero al cinema che aspettavo l’arrivo delle mie amiche: come
al solito loro avevo optato per un horror e, come al solito, io mi ero
dovuta piegare al loro volere. Mentre ero in fila per fare il
biglietto, persa nella agghiacciante lettura della trama del film, mi
accorgo che la tizia davanti a me stava discutendo con il bigliettaio.
“Mi scusi, ma lei è minorenne! Non può
essere entrare se non è accompagnata!” stava
protestando l’uomo.
“Mi scusi lei, ma io non sono mica un cane che deve essere
accompagnato fuori a pisciare! E poi vede - disse tirandomi avanti per
la manica del cappotto - sono con mia sorella!”
Il bigliettaio mi guardò storto e mi intimò di
mostrargli un documento: io, che in quel momento avrei potuto sostenere
di essere la figlia segreta di Maria Callas da quanto ero confusa, gli
porsi la carta d’identità e lanciai uno sguardo
interrogativo a quella sfacciatissima ragazza.
“Signorina, mi prende in giro? Avete due cognomi
completamente diversi!” osservò l’uomo,
sempre più adirato.
“Ovviamente! Siamo figlie di due padri diversi! Il mio,
purtroppo, è deceduto tre anni fa, quindi mia mamma si
è risposata con suo
padre ma abbiamo mantenuto i nostri cognomi originari”
spiegò con naturalezza.
“È tutto vero?” mi interrogò
il bigliettaio con sguardo indagatore.
Io, paralizzata, non riuscivo a spiccicar parola: fu una gomitata di
Giulia a convincermi a parlare.
“S-si, è tutto vero” bisbigliai.
L’uomo, ancora sospettoso, mugugnò qualcosa di
incomprensibile e ci consegnò i nostri biglietti.
Quando fummo davanti alla porta della sala, la ragazza si
girò verso di me e mi disse “Non so davvero come
ringraziarti! Era da tanto tempo che aspettavo l’uscita di
questo film e se non fosse stato per te non l’avrei mai
visto!”
“Sì...prego. Adesso scusami ma devo aspettare le
mie amiche...” replicai, scocciata.
Proprio mentre me la stavo levando di torno, mi arrivò un
messaggio da parte di una delle suddette amiche “Scusa, la macchina non parte.
Perdonaci!”
“Vaffanculo!” sibilai.
“Con chi ce l’hai?” mi chiese
l’impicciona.
“Con le mie amiche. Mi hanno appena informato che non possono
venire, quindi io ho speso i soldi del biglietto per niente.”
“Ma è fantastico! Ci vengo io con te, tanto ormai
siamo sorelle! A proposito, io sono Giulia.”
“Serena.” bofonchiai di malavoglia .
Entrammo nella sala e occupammo due posti centrali: ero nervosa e
arrabbiata e pensai seriamente di sgusciare via con il favore delle
tenebre appena le luci fossero calate.
Dopo i primi dieci minuti di film arrivò il momento degli
sgozzamenti, ovvero il momento a partire dal quale io mi sigillo gli
occhi e urlo in perfetta sincronia con i protagonisti.
Stavo giusto giusto per dar fiato alle mie corde vocali quando un
acutissimo strillo mi perforò i timpani: fu talmente tanta
la mia meraviglia nello scoprire che era stata Giulia ad emetterlo che
mi dimenticai perfino di coprirmi gli occhi.
“Scusa, ma tu non eri quella che non aspettava altro che
vedere questo film?!” domandai incredula.
“Certo! Gli horror sono una delle poche cose che mi danno una
scarica di adrenalina!” mi spiegò.
Detto ciò emise un altro urlo disperato che fece sobbalzare
dalla paura il nostro vicino di posto, il quale si rovesciò
buona parte dei pop corn sulle gambe.
Io, dopo un momento di stupore, cominciai a ridere incontrollatamente.
Mi sembrava talmente comica l’evoluzione di quella serata,
che ridere mi sembrava l’unica cosa sensata da fare.
Fu il primo film horror in cui risi dall’inizio alla fine,
ovvero in concomitanza con i frequenti urli di Giulia. Alcuni
spettatori cercarono anche di lamentarsi del nostro comportamento, ma
ottennero scarsi risultati.
Da quel momento non ci lasciammo più.
“Ehi, guarda cos’ho qui!” disse Giulia
interrompendo il flusso dei miei ricordi.
“È uno scontrino fiscale” replicai con
ovvietà.
“Guarda dietro, donna di poca fede”
replicò divertita.
“Fabio
3358735468. Non posso crederci, ci sei
riuscita!” esclamai. A dire la verità non avevo
molti dubbi sull’esito della scommessa, ma mi piaceva vedere
quell’espressione soddisfatta sulla sua faccia.
“Ebbene sì, e ora credo di meritarmi un
gelato!”
Uscimmo dal negozio (occhiata ammiccante di Giulia verso il povero
Fabio) e ci avvicinammo al bar del centro commerciale: dopo aver pagato
i nostri gelati ci accomodammo sulle sedie antistanti.
“Fammi vedere le scarpe che hai comprato.” le
chiesi.
“Eccole.”
“...Giù, ma sono esattamente identiche a quelle
che porti adesso!”
“Mia mamma ha detto solo che dovevo prendermele nuove, non ha
specificato che dovevano essere diverse!” sostenne con
semplicità.
“Tua mamma è una santa!” replicai
divertita.
Finimmo, tra una risata e l’altra, di ingoiare i nostri
ipercalorici gelati e poi riprendemmo la nostra peregrinazione nei
meandri del centro commerciale.
La nostra attenzione fu improvvisamente catalizzata da un negozio che
nelle precedenti escursioni non avevo mai notato: avvicinandoci mi
accorsi che era un ibrido tra un negozio di vestiario e una specie di
cartoleria. Sbirciando dentro vidi che era pieno di ragazzini con i
pantaloni raso inguine che sghignazzavano qua e là ,
tastando e provando gli articoli in vendita.
“Ti prego, entriamo! Fa troppo sedicenni!”
mi implorò Giulia.
Te pareva.
Effettivamente era quella l’età media
della clientela, e uno sguardo alle nuove generazioni non poteva poi
farmi così male.
Acconsentii (come se fosse servito il mio permesso!) ad entrare: non
c’è bisogno di specificare che Giulia
attivò il suo speciale radar trova-cazzate, e ogni due per
tre si esaltava per ciò che aveva scovato.
Nell’ordine: una cintura con delle nuvolette che sorridevano,
un accendino raffigurante la testa di Homer Simpson, una collana con un
teschio, una lampada con un liquido fosforescente dentro che fluttuava,
un paio di pantaloni con l’innocente scritta Fuck me sul
posteriore e via dicendo.
Decisamente le nuove generazioni non mi entusiasmavano, anche se,
dovevo ammettere, molte delle cose presenti nel negozio mi ricordavano
la mia adolescenza.
Mentre, per la seconda volta nella giornata, mi stavo per perdere nei
miei ricordi, Giulia si avvicinò a me con una mise che non
poté far altro che scatenarmi una ridarella acuta: aveva un
cerchietto con due orecchie da Topolino e una gonna rosa a pois
bianchi.
Si era decisamente conciata da Minnie.
La cosa preoccupante era che stava benissimo! O meglio, sicuramente era
preferibile alla precedente combinazione da vecchia battona.
Era più forte di me, con lei non riuscivo a non divertirmi,
nonostante le figure che mi faceva fare.
Probabilmente non sarei più riuscita a farne a meno, in un
certo senso. Mi riempivano la vita, letteralmente.
Incurante degli sguardi schifati dei ragazzini, mi trascinò
verso il fondo del negozio dove, evidentemente, c’era
un’installazione permanente di vestiti da carnevale.
Effettivamente c’era un’ampia scelta di completi
tra cui poter spaziare, come per esempio vestiti da Dracula,
pagliaccio, Pippo, infermiera sexy e...
“OH.MIO.DIO. Ti prego, vieni a vedere!” mi
intimò Giulia.
Davanti ai miei occhi si stagliavano, in tutto il loro setoso
splendore, tutti i vestiti delle Sailor
Moon.
Se c’era una cosa che potevamo dire di condividere realmente,
era la più completa e totale adorazione per quel telefilm.
Ormai non avevamo più l’età per quel
genere di cose, e ce ne rendevamo pienamente conto, ma vedere quegli
adorabili vestitini ci riportava alla nostra felice infanzia in cui
credevamo ancora che il potere
della luna avesse potuto risolvere tutti i problemi del
mondo.
Senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovai in un camerino con la
divisa di Sailor Mars in mano: me la infilai senza poter reprimere un
indescrivibile entusiasmo e mi guardai allo specchio.
Che cosa stupida. Estremamente idiota.
Inspiegabilmente esaltante.
Uscii dal camerino e vidi davanti a me Sailor Moon in carne,ossa e
scettro.
Le nostre risate probabilmente si sentivano fino alla statale che
costeggiava il centro commerciale, ma in quel momento era
l’ultima cosa a cui stavo pensando.
Ci mettemmo schiena contro schiena e, rivolgendoci ed un incredulo
specchio, assumemmo le pose tipiche delle nostre eroine.
“Ti prego, devi fare una cosa per me...” mi chiese
Giulia con lo sguardo di una maniaca.
“Cosa?” chiesi preoccupata.
“Sailor Moon...”
intonò.
“Oh no, non mi puoi chiedere questo! Non qui davanti a tutti!
È la volta che ci sbattono fuori! E poi mi
vergogno...abbiamo vent’anni a testa...” cercai di
protestare.
“Ti supplico, fallo per me!”
Perché mi era così difficile dirle di no?
Perché non potevo fare a meno di vederla felice?
“So già che me ne pentirò...”
sospirai.
“Sailor Moon...”
intonò nuovamente.
“...amica
Sailor Moon...”
La canzone uscì senza intoppi dalla nostra ugola, e santa
Cristina D’Avena ci protesse dalle possibili amnesie.
Finita l’esibizione canora, Giulia si avvinghiò al
mio collo e, saltellando, espresse tutta la sua riconoscenza nei miei
confronti.
“Lo sapevo che lo facevi! È stato...fantastico!”
e, detto ciò, mi stampò un improvviso bacio sulla
bocca.
Pensai che qualcuno mi avesse staccato la spina
dell’alimentazione elettrica: sparirono gli scaffali, i
vestiti, le maschere attorno a noi.
In quel momento ero migrata verso un altro universo. Probabilmente
erano stelle quei due bagliori davanti a me.
Giulia mi guardò: non aveva più il suo solito
sorriso sicuro e strafottente sulle labbra. Un’espressione
indecifrabile le attraversava gli occhi.
Come se fosse la cosa che tutti si aspettavano, che io mi aspettavo,
mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Sul serio, questa
volta.
Ero una marionetta tra le sue mani, tra le sue labbra, tra la sua pelle.
Tutto mi diceva che dovevo staccarmi da lei, ristabilire i confini tra
l’io
e il tu,
riprendermi quel che ero stata fino a quel momento.
Ma non potevo.
Non potevo perché stavo bene, perché non sapevo
se era quello che volevo ma, al diavolo, era quello di cui avevo
bisogno.
Nell’esatto momento in cui l’ultimo millimetro di
pelle smise di essere territorio comune, mi ritrovai in un negozio di
maschere. No, c’erano anche altri vestiti.
E c’era lei.
Mi guardò con sguardo preoccupato, come un cane che sa di
aver combinato un guaio, come se si stesse sentendo in colpa.
Io volevo dire qualcosa di vero, di intelligente, di adatto alla
situazione, ma eravamo pur sempre vestite da Sailor Moon e la
cosa più sensata che riuscii ad articolare
assomigliò a:
“Sai di nocciola. Mi fa schifo la nocciola.”
Per un secondo mi guardò confusa, poi si
impossessò nuovamente del suo sorriso sincero, spiazzante, e
mi rispose : “Tu invece sai di fragola. Mi fa schifo la
fragola.”
Scoppiammo a ridere entrambe, ma non ero più io che ridevo.
Dov’ero, io?
Uscite dal negozio ebbi una strana sensazione: era come se io fossi
rimasta sulle piastrelle di quel camerino, assieme a quello stupido
vestito.
I serpenti fanno la muta, io faccio il vestito.
Vagammo ancora qualche istante tra i colori psichedelici delle vetrine,
parlando a vanvera.
Ascoltando a vanvera.
Probabilmente fu il nostro bisogno di respirare nuovamente, veramente,
che ci sospinse verso un’uscita laterale, seminascosta da una
pianta di plastica.
Ma quando fummo passate attraverso la porta, ci accorgemmo che era solo
una porta di servizio che sbucava in un piccolo corridoio: intravedemmo
la seconda porta, ovvero l’uscita vera e propria, a qualche
metro da noi, ma la prima si chiuse talmente in fretta che non facemmo
in tempo a raggiungerla.
In un attimo fummo avvolte dal buio.
Istintivamente alzai le braccia per andare a tentoni: odiavo il buio,
mi faceva sempre sentire come se non fossi mai sola.
“Giù...dove sei?” chiesi con un velo di
preoccupazione nella voce.
“Sono qui, dove vuoi che sia?” rispose una voce
davanti a me.
Feci un passo in avanti e venni a contatto con il cappuccio della felpa
di Giulia e così, come se fosse l’unica cosa da
fare, le strinsi forte le spalle, affondando la faccia
nell’incavo le suo collo, per aggrapparmi a qualcosa di noto
e sicuro.
Lei inizialmente rimase immobile, poi si sciolse dalla mia presa e si
girò.
Sentii i suoi polpastrelli sfiorarmi la fronte, le tempie, gli occhi,
il naso, la bocca per poi finire sul collo, appena sotto il mento.
Io alzai una mano verso il punto in cui credevo che si trovasse il suo
viso e incontrai la sua guancia: era morbida e probabilmente in quel
momento anche rossa, visto il calore che sprigionava.
Feci scivolare la mano verso la sua nuca, tagliai i fili che mi
legavano al burattinaio e la attirai a me.
Ero io, finalmente.
Io che la assaporavo.
Io che la cercavo.
Io che esistevo.
Le sua labbra erano la cosa più morbida che avessi mai
sentito: probabilmente erano fatte di seta.
Con una mano seguii il profilo del collo e scesi fino al seno, non per
toccarlo, ma per fermarmi sul torace: sentivo il suo cuore battere
all’impazzata, come il mio, del resto.
Le mani, le sue, lasciarono scoperte le scapole e scesero fino ai
fianchi. Si infilarono sotto la mia maglietta e ripercorsero al
contrario il tragitto appena fatto: ogni centimetro di pelle che
guadagnavano era un pezzetto di me che si staccava e si fondeva con lei.
Dove cominciavo io? Dove finiva lei?
Non ero più in un universo parallelo, ero qui e ora, mi sentivo
respirare, mi sentivo tremare.
Anche lei tremava, e continuò a tremare anche quando
interrompemmo la connessione che ci legava.
Appoggiai il mio viso alla sua guancia incandescente e le dissi
all’orecchio: “È...sbagliato?”
“No, - mi sussurrò, dopo qualche istante di
indecisione - ma se anche lo fosse...mi piace troppo per
riuscire a smettere.”
Spezzò il mio respiro con un nuovo bacio e i nostri corpi
non furono più in grado di contenere con
l’immobilità quello che stavamo diventando.
Ci muovevamo nello spazio nero, e solo i muri, ogni tanto, ci facevano
da sostegno.
Mentre ero ancora persa in lei, sentii una rigida pressione sulla mia
spina dorsale e, improvvisamente, la luce ci inondò.
Avevamo trovato l’uscita, e la maniglia antincendio aveva
fatto il resto.
Ci guardammo con gli occhi strizzati e infastiditi e, senza dare il
tempo alle cose di rovinare tutto, ci abbracciamo spasmodicamente.
Restammo così finché il nostro respiro non ebbe
riacquistato un ritmo equilibrato.
Come appena uscite da un buco nero, ci guardammo attorno e, appena ci
fummo rese conto di dove potevamo essere, seguimmo le indicazioni per
il parcheggio sotterraneo.
Appena arrivate in macchina ci accomodammo sui sedili freschi e ci
guardammo negli occhi, imbarazzate.
“Io non...” cominciò lei.
“Nemmeno io so cosa sia successo là
dentro” replicai, dando voce anche ai suoi pensieri.
“Cambierà tutto”
“Lo so” risposi, pensierosa.
“Si complicherà tutto”
“So anche questo”
“Ma se poi...”
“Giù, basta ora. Non eri tu che cercavi le
scariche di adrenalina? Ne abbiamo prodotta abbastanza per due
eserciti, oggi pomeriggio, e se tutto questo può servire a
non farmi trascinare da te a vedere un altro dei tuoi film
squarta-budella, direi che sono pronta ad affrontare tutte le
conseguenze che si presenteranno” risposi velocemente, con
voce decisa.
Ma dentro di me tremavo dalla paura.
Avevo paura di averla.
Avevo paura di perderla.
Ma la sua bocca, che fino a poco prima era sulle mie labbra, dipinse un
sorriso, il suo
sorriso.
E mi resi conto che a me bastava quello per andare avanti.
Angolo autrice:
Bene. Non so esattamente come si sia prodotta questa storia,
perchè l'avevo scritta un paio di anni fa, quando Lizzie_Siddal
ci aveva preso gusto a farmi scrivere zozzerie:) E oggi MedOrMad
mi ha convinto a pubblicare, dopo una necessaria spolveratina. Quindi
il merito (o il biasimo, se vi fa orrore) è tutto loro, non
mio! Grazie ad entrambe, comunque.
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