*
< Nec diu nec
noctu
licet
Iudices quiescant
>
*
8.
-
Allora,
Giudice, sei pronto a morire?
Un tonfo sordo, poi qualcosa di grosso che si
spingeva nella cella. Un secondo
e l'aria asfittica intorno a lui si riempì di un lezzo
orrendo. Cipolla,
probabilmente mal digerita.
Il Giudice aprì gli occhi, e sulle
prime non vide niente. Poi qualche cosa che
si muoveva. Fu un attimo, poi la massa informe, davanti a lui, gli
allungò un
calcio.
- Allora, impiastro, ti muovi si o no?
Claude
Frollo, coperto di graffi, immerso a metà nel liquame,
strattonò la catena.
Provò
a
muoversi, con l'unico risultato che il ferro pesante gli
penetrò più nelle
carni. Il collo era ormai solo una fascio pulsante e martoriato. Il
tizio lo strattonò.
- Allora, andiamo? - Adesso il fiato doveva
essere a un centimetro, perché
nell'esplosione di lame dei suoi occhi, vedeva nero. Ombra. E sentiva
l'odore
quasi fino a svenire.
Il
Giudice scattò, con i denti. Ma il tizio aprì
semplicemente una mano. Doveva
essere un gigante, perché Frollo sentì due dita -
due dita - una di qua e una
di là dalla testa. Puzzavano orribilmente di qualcosa cui
non voleva neanche
pensare. Sembrava spazzatura marcita, topo di fogna e cavolo putrido.
- Se adesso hai finito di far lo scemo, adesso
vieni con me.
-
Dove mi
porti?
- Questi non
sono affari tuoi, ficcanaso.
E
due mani calarono sopra di lui, scostarono il suo povero corpo,
girarono
intorno alle costole. Il suoi occhi cominciavano un poco ad abituarsi
alla luce.
-
Chi sei? -
biascicò al carceriere, che non riusciva a mettere
a fuoco - Dove sono?
Aveva
la gola in fiamme. Quello intanto era riuscito a spostare le catene
(dovevano pesare almeno una tonnellata), e adesso tentava il difficile
compito
di tirarlo in piedi. Ma il fatto era che Claude Frollo aveva perso la
sensibilità a entrambe gambe. Il colosso dovette alzarlo di
peso e issarselo in
spalla, di traverso.
-
Questo è
troppo! - grido Frollo. Ma l'unica cosa che ottenne fu strappare un
singhiozzo
al carceriere.
-
Ma lo sai
che sei proprio uno spasso? Cosa mi fai se non ti lascio andare? Mi fai
frustare dalle signorine che tieni come guardie del corpo?
-
La mia
Guardia, il Capitano Phoebus …
- E' stato
molto gentile con noi. Non ci saremmo riusciti, altrimenti. Ma meno
male che …
- Lasciami
scendere, animale!
Il tizio, ignorandolo,
prese la porta.
- Attento
alla testa, Signoria.
Passarono in
una sorta di stretto corridoio. Adesso c'era una parvenza di luce, e
Frollo
poteva vedere per bene in che razza di posto lo avevano messo: un lungo
sotterraneo muffito, topi dovunque, pozze di marcio. Niente da
invidiare alle
sue segrete.
- Tenete
altra gente rinchiusa qui? - chiese cercando di registrare le
coordinate, la
posizione, qualcosa.
Il
carceriere fece un saltello, Claude Frollo sobbalzò insieme
a lui.
- Un topo morto - fece il carceriere. E
disgustosamente, Claude Frollo, vide
qualcosa sotto di lui. Un sacco nero, della grandezza di un piccolo
cane,
completamente sventrato. Certe cosette ci si muovevano sopra. Poco
mancò che
vomitasse.
- Andiamo, le vostre carceri non sono peggiori.
- Ah, ci sei stato? - fece Claude. Lui rise. E
prese un corridoio a sinistra.
C'era una fila stretta di scale che si snodava dentro a un muro fetido.
Il
carceriere cominciò a salire. Ad ogni passo prendeva un bel
respiro.
- Ci sono stato, chiedi? No. Ci sono stati che
conosco, però. Midicono che è un
posto piacevole ... quando hai fretta di morire .. da cane.
Il Giudice non poté impedirsi che
un sorrisetto gli alleggiasse sul volto.
- La nostra fama si spande.
- Anche la nostra - fece il carceriere. Poi si
fermò - Lo vedrai tra poco
quanto possiamo essere famosi. Riconoscenti.
Erano
arrivati in cima a una scala.
Il
carceriere prese da una tasca qualcosa che sembrava un altro topo
sventrato. Ma
questa volta era una bisaccia. Ci cacciò dentro le mani.
Estrasse un lungo
mazzo di chiavi. Le chiavi brillavano in modo inquietante nella
penombra.
- E adesso stai fermo.
Prima che Claude avesse il tempo di fiatare,
il carceriere lo depose a terra.
Poi lo tirò su come un bambolotto. Claude Frollo era
abituato a tutto, ma
quando si trovò faccia a faccia con lui, non si sa come non
si mise ad urlare.
La faccia del gigante era una maschera, una poltiglia di carne e
cicatrici che
correvano dovunque, biancastre, come un groviglio di vermi impazziti.
- Questo è per Miguel, questo per
Jago - fece mollandogli, in rapida
successione, due cazzotti dritti alle costole - Questo per Jona e
questo per il
Duca. E stai contento che non te ne do altri. Ce ne sarebbero, ma ho
finito le
scorte. Questo è l'ultimo.
E come un fulmine fece calare sulla sua
guancia almeno dieci chili di mano.
Qualcosa esplose dentro Claude Frollo.
Sentì la testa girargli, il cuore fare
come una specie di rantolo. Sentì i polmoni che gli si
accartocciavano. E poi
più niente. Si accasciò a terra.
- Andiamo - fece il carceriere, e un lungo
sorriso si dipinse sopra il suo
volto - pensavo fossi di una pasta più forte, Giudice.
Frollo provò a dire qualcosa, ma
aveva la bocca piena amaro. Sangue.
- Tu spera
solo che esca morto di qui - sibilò piano, come se ogni
sillaba gli costasse una
fatica impossibile - Tu spera solo che esca morto di qui,
perché se esco vivo
...
Ma il carceriere rise. Gli allungò
un ultimo, ben calcolato calcio. Claude
quasi neanche sentì la punta del grosso stivale contro lo
stomaco. Ormai forse
neanche lo aveva più, uno stomaco. Orma era solo carne e
sangue che veleggiava
allegramente verso l'incoscienza. L'ultima cosa che sentì fu
di nuovo il fiato
di cipolla sopra di lui. E adesso, oltre al fiato terribile, c'era
anche
qualcosa di nuovo. Sembrava la musica di un piffero, e in sottofondo un
batter
di tamburi. Sembrava anche l'argenteo scampanellio delle cavigliere di
Esmeralda. Certo stava morendo, sognava quello che gli piaceva di
più.
- Su, su, andiamo. La festa comincia. Tu sei
l'ospite di eccezione.
Poi le due mani sulla testa, una benda nera.
Cigolio di chiavistello. Poi
la musica esplose, e insieme a quella migliaia di voci.
In tutta la
sua lunga, e per certi versi piuttosto tormentata esistenza, Claude
Frollo
aveva visto molte cose. Alcune terribili, altre orripilanti, certune
addirittura indegne di essere nominate da umano. Ma adesso, sbattendo
le
palpebre alla luce accecante di decine di torce accese, tra il pulsare
del
sangue alla testa e il dolore delle costole rotte, pensò che
nulla di quel che
aveva mai visto poteva essere confrontato con quello. La musica si era
interrotta nell'esatto istante in cui il
Giudice aveva fatto la sua comparsa. Non era esattamente l'ingresso cui
era
abituato, ma forse era meglio così. Comparsa era la parola
adatta.
Davanti a
lui c'era un gigantesco teatro, o meglio, un semicerchio enorme che si
alzava,
come una cavea da terra fino a pareti lontane, perdendosi nel buio e
digradando
in scaloni che parevano enormi. Doveva essere scolpito nella pietra
perché qua
e là si vedevano enormi squarci nel tufo, o in che diavolo
era. Enormi panni,
tendaggi, velami pendevano da ogni parte a mo' di tende, tendoni,
strascichi.
Il retro era tutto un brulichio mormorante di uomini, donne e bambini.
Claude
Frollo chiuse gli occhi, piano, e li riaprì. Dovunque gente,
e ancora. Lo
fissavano. Erano vestiti degli stracci multicolori degli zingari, ed
erano
migliaia. O forse solo centinaia, ma lui in quel momento non voleva
sapere.
Erano tutti silenziosi, come tombe, e tutti fissavano lui. C'erano un
paio di disgraziati,
lì vicino, con ancora i loro pifferi in mano. Una ragazza
con un tamburello che
aveva trecce come la sua Esmeralda ma mani tozze e uno sguardo cattivo.
C'era
una vecchia coperta di stracci che gli sputò, appena lo
vide. Lo sputo atterrò
a pochi centimetri dalla sua gamba.
Claude
Frollo fece scorrere gli occhi sulla folla. Poi qualcosa
attirò al sua
attenzione. Un uomo enorme, ben più enorme del carceriere,
lo stava fissando da
molto lontano, e i suoi occhi, in mezzo a tutti quegli occhi, erano
neri.
Claude
Frollo di istinto abbassò la testa, e sa Dio se questo non
gli costò, perché
dalle spalle alle costole, dalla fronte alle scapole era tutto un unico
grumo
di dolore.
Non aveva
più un colletto, e neanche quasi più i polsi
della camicia. Quello destro
sembrava essere stato rosicchiato. Lo guardò, con vago
disgusto. Cercò di
muovere la mano sotto. Il polso ruotava ancora, anche se indolenzito.
Alzò una
mano, se la portò alla guancia. La parte destra era in
fiamme. La ritrasse.
- Da quanto
tempo sono qui? - mormorò. Ancora si sentiva quegli occhi
addosso. Occhi neri e
maligni come carboni.
Poi d'improvviso
la folla si zittì.
- Hai fatto
un buon soggiorno, caro Giudice? - fece una voce, che sovrastava le
altre come
la nave da guerra si scaglia contro le onde, e le soverchia.
Claude
Frollo seguì quella voce fino in alto, dove il grande
anfiteatro (naturale?
Scavato dalla mano dell'uomo?) si apriva in un circolo che si perdeva
nel buio.
Se fosse stato un teatro, lassù sarebbero stati i palchi
più ambiti.
- Guardami,
Giudice.
Era enorme. Lo stesso uomo dagli occhi neri di
brace.
- Mi vedi,
adesso?
Sembrava tutto ruotasse intorno a lui. Nella
nebbia del dolore e del
sangue, Claude Frollo vide migliaia di occhi puntati tutti su quel
capo. Occhi
cattivi, occhi che aspettavano in silenzio.
- Mi
riconosci, Giudice?
Aveva
indosso vesti ricchissime e un gran cappello con la piuma. Un lungo
squarcio
gli attraversava il petto nudo. Ma sotto portava una fascia coperta di
gemme e
attraversata da molti pugnali. In mano aveva una brocca d'argento.
Claude
Frollo strinse gli occhi, provò a raggranellare quel minimo
di voce che ancora
da qualche parte gli restava. Fece appello a tutta la sua
autorità.
- Sembri la
parodia di un Écorcheur.
Come
potrei non riconoscerti, Duca d'Egitto?
Quello rise.
Alzò la brocca e bevve.
- Brindo alla tua
salute, Signore. E alla
buona memoria che dimostri.
Posò la
brocca, e una bella gitana che era
al suo fianco gli sorrise.
- Sai
perché sei qui?
- Me lo immagino.
- Non hai paura?
- Neanche un po'.
Non era vero. Ma
avrebbe lasciato che lo
squartassero, prima di mostrarne anche un'oncia.
- Bene. Sono
contento che tu la prenda così.
Ci rende tutto più facile. Il tuo avvocato dice che
…
- Il mio avvocato?
Il Duca si
fermò, la folla rise. Il Duca
sollevò una mano. La folla si zittì all'istante.
-
Perché tra poco qui ci
sarà un processo.
Nonostante tutto,
a Claude Frollo venne
voglia di ridere.
- E da chi dovrei
essere giudicato, e per
cosa?
- Da un'Alta Corte
di cui sono il Capo, il
Giurato e il Giudice.
- Oh, molto bene.
Peccato che mi paia di
essere ancora l'unico e solo Ministro di Giustizia.
- Forse
lassù - e così dicendo il Duca puntò
un dito per aria - Peccato che qui siamo da tutt'altra parte. Qui ci
sono delle
Regole che forse tu non hai neanche mai sentito. O forse durante la
notte hai
studiato le Pandette Gitane?
Dagli spalti si
levò, come un mare, una
fragorosa risata. Erano tutti, e stavano ridendo, quella ciurmaglia di
zingari.
Claude Frollo sentì una fitta molto più atroce
del dolore fisico, ma si costrinse
a non abbassare gli occhi. Serrò le labbra, le
stirò in una pallida imitazione sorriso.
Ricordati
che adesso ne va della tua vita.
- Cosa
c'è scritto in queste Pandette?
Il Duca, piano,
alzò una mano in aria. Ora i
suoi occhi erano neri come i pozzi di paura che stagnano in fondo al
cuore di
ogni male.
- Ora vedrai - poi fece un gesto -
Entri la
corte. Ho proprio voglia di vederti morire.
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