MOSCHE
“C'è stato
un ragazzo così, qualche anno fa. Veniva dal Distretto 6 e
si chiamava Titus.
Diventò un selvaggio in tutto e per tutto e gli Strateghi
dovettero farlo stordire con le pistole elettriche per raccogliere i
corpi dei
giocatori che aveva
ucciso prima che se li mangiasse.”
(“Hunger
Games”, capitolo 10)
Titus
esultò quando vide un filo di fumo comparire in lontananza.
Qualcuno aveva acceso un fuoco, il che significava che là
c’era almeno un tributo e che lui sarebbe potuto andare
lì e ucciderlo a colpo sicuro. Esultò meno quando
si rese conto che il filo di fumo era lontano, di certo oltre la
vallata.
Decise che non
aveva importanza. Si impiastricciò viso e capelli di fango,
ci appiccicò delle foglie e si mise in marcia. Il machete
che aveva trovato gli apriva la strada nel sottobosco, e a Titus
piaceva far saltare via rami e piante. Sperava di beccarlo, quel povero
stronzo che aveva acceso il fuoco. Sperava che ce ne fossero due,
magari alleati. Sperava che il suo machete potesse spaccare ossa,
invece di stupidi rametti.
Dicevano che
uccidere fosse orribile. Dicevano che gli Hunger Games fossero orribili.
Titus aveva
ucciso per la prima volta alla Cornucopia, per impossessarsi del
machete, e non l’avrebbe definito orribile. Esaltante. Oppure
orribile, in un certo qual modo, ma un orribile bellissimo.
Quando fu a
metà della vallata si alzò il vento. Il filo di
fumo si inclinò verso di lui, qualche foglia gli si
appiccicò alla pelle sudata. Titus si passò una
mano sulla fronte. La marcia sarebbe stata più difficile, ma
il vento non avrebbe portato il suo odore e i suoi rumori a quelli che
erano attorno al fuoco, e questo tornava a suo vantaggio.
Ricominciò a camminare.
Dopo un
po’capì che aveva valutato male le distanze; in
linea d’aria doveva essere vicino, ma si trovò di
fronte a un crepaccio che gli tagliava la strada, proprio tra lui e il
fuoco; una raffica di vento gli portò le voci di varie
persone che ridevano forte e cantavano. Dovevano essere parecchi,
probabilmente era il gruppo dei favoriti. Forse uno dei motivi per cui
avevano acceso il fuoco era proprio farsi trovare, pensò
Titus; in tal caso, sarebbero stati soddisfatti. Il suo machete voleva
del sangue.
Valutò
l’ipotesi di scalare il burrone per risalire
dall’altra parte, ma la cosa si rivelò subito
infattibile. Allora si mise a costeggiarlo, cercando un punto facile da
scalare. Camminò per almeno un paio d’ore,
finché lo spacco nella roccia si ridusse a una fenditura
sottile, che Titus saltò senza problemi. Solo che aveva
perso troppo tempo.
Quando
raggiunse il punto in cui si trovava prima, dalla parte opposta del
crepaccio, il fumo non si vedeva più. Decise di proseguire
lo stesso, in caso i favoriti avessero deciso di accamparsi e dormire.
Strisciò
per terra per evitare di farsi scoprire da un’eventuale
sentinella. Il vento non gli portava più né voci
né sospiri, solo un incessante ronzio. Qualche mosca gli
volò addosso, ma lui non ci badò.
Continuò a strisciare.
Poi lo vide.
Nella radura, dove si raffreddavano le braci di un fuoco spento,
c’erano i resti di un maiale selvatico che era stato ucciso e
cucinato. Le ossa spolpate attorno al fuoco, le costole completamente
ripulite, le interiora su cui banchettavano nugoli di mosche e,
infilzata su un bastone, la testa sgocciolante, con le zanne snudate in
una specie di ghigno.
Titus
fissò la scena, come ipnotizzato. Era bellissimo. Orribile e
bellissimo.
I favoriti
erano andati a caccia e avevano trovato un maiale, e adesso lui sarebbe
andato a caccia e avrebbe trovato loro. Le mosche ronzavano, avanti e
indietro, posandosi senza sosta sulle interiora per terra, dentro gli
occhi e la bocca del maiale, sulla sua pelle sudata. Adesso lui sarebbe
andato a caccia e avrebbe ucciso loro, tutti loro, li avrebbe mangiati
e avrebbe piantato le loro teste su un palo, per vedere i nugoli di
mosche banchettare e deporre le larve nei loro occhi e nella loro
bocca, per vedere il sangue che sgocciolava per terra e faceva una
pozzanghera scura. E dopo avere ucciso tutti… cosa
c’era dopo? Titus non si ricordava. Altra gente da uccidere,
forse. Altre teste da piantare su un palo, altre mosche. Rise forte.
Si
avvicinò alla testa, scalciando via con un piede il mucchio
di interiora. Fecero un rumore viscido, soffocato dal ronzio di
centinaia di mosche che si alzarono in volo, ed esalarono un tanfo
soffocante. Il puzzo della morte.
Titus si
inginocchiò e intinse le dita nella pozza di sangue e umori
che si era formata sotto la testa del maiale. Era densa e scura.
Si
passò le dita sul volto e ghignò in risposta alla
testa. Le mosche tornarono a posarsi sulle interiora, sulla testa, su
di lui. Titus aveva fame. Era ora di andare a caccia.
Note: storiellina veloce scritta
per il contest indetto da Nefene “Classicamente
ficcy”.
Si trattava di scrivere una flash fiction in cui doveva essere citato
un classico della letteratura, nel modo che preferivamo. Penso che la
mia citazione sia abbastanza smaccata; chi non l’avesse colta
vada a leggersi “Il signore delle mosche” di
William Golding, un libro che personalmente adoro.
Titus, come spiegato
in “Hunger Games” nella frase dopo quella citata da
me, è stato ucciso da una frana, pare causata dagli
strateghi per evitare che vincesse un pazzo furioso; da qui
l’ambientazione collinare.
Grazie a Nefene che ha indetto il contest e
mi ha permesso di avventurarmi di nuovo in un’arena, alle mie
insostituibili beta, e a tutti coloro che sono passati di qui e si sono
divertiti!
Bzzzzzzzzzzzz a tutti,
e chiudete la bocca, che sennò ci vanno le mosche!
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