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Note di Inizio Fanfiction:
A cura di una persona che non ha
assolutamente voglia di farle come voi non avete voglia di leggerle, ma
masochisticamente ci tocca a entrambi tanto è roba breve! XD Per i fan di Sailor
Moon sarà facile ricordare che HOTARU (Come “Hotaru Tomoe”, la figlia dello
scienziato folle della terza serie. Sailor Saturn) significa “Lucciola”.
Oppure “Lucciole”, in Giappone si fanno meno pippe e non esistono singolare e
plurale.
Ora avrei potuto anche mettere il nome in italiano, ma un po’ non l’ho voluto
fare perché sono giapponesi e voglio metterci il nome giapponese che fa figo, un
po’ perché ho pensato a quanti si sarebbero messi a pensare alle….
“Peripatetiche” invece che a quegli animaletti tanto romantici e tristi col culo
che s’illumina, con tanti cari saluti a un minimo di catarsi.
BGM:
Grief and Sorrow – Toshiro Masuda
(Per fare atmosfera)
***
HOTARU
”Le religioni sono come le lucciole.
Per splendere hanno bisogno delle tenebre”
A. Schopenhauer
Itachi è un ragazzo straordinario.
Serio, disciplinato e di buon
carattere.
Le sue immense attitudini e
l’indiscutibile maturità ostentate fin da principio gli hanno permesso di
cominciare molto presto gli studi, distinguendovisi con profitto e diplomandosi
col massimo dei voti. Si impegna, e tanto, per riuscire a raggiungere simili
livelli di bravura, ma non pretende che gli altri si sforzino quanto lui. Coi
suoi parenti e i compagni di squadra è sempre tranquillo e gentile: non si
infuria, non disobbedisce, non disdegna mai di dare una mano né si lamenta delle
missioni che gli vengono affidate, per quanto noiose possano essere. E’
l’orgoglio della sua famiglia e la speranza del clan Uchiha.
Per tornare a casa quando è solo
Itachi prende sempre quella viuzza tutta curve che passa per i boschi e
circoscrive esternamente Konoha,
anche se è molto tardi e questo significa allungare di parecchio il tragitto che
lo separa da un bagno caldo e un meritato riposo.
Ha scoperto questo sentiero ai
tempi della scuola.
Gli sembra siano passati secoli.
Ma è sempre bello lì.
Vale la pena di fare il giro
lungo.
Passeggia senza fretta lungo la
strada deserta, la mente sgombra da ogni pensiero. Si gode il buio, la
lontananza dal centro abitato e la solitudine, anche se dubita fortemente che a
quell’ora tarda potrebbe incontrare gente. Ci sono le volte in cui dubita
persino che qualcuno si precipiterebbe alla finestra nel caso in cui venisse
preso dal ridicolo impulso di correre per le strade gridando e piangendo.
Itachi ha l’impressione che
Konoha la notte muoia.
Le poche lampade accese
rantolano tremanti e fioche.
Se tende l’orecchio sembra quasi
di sentire gemiti esanimi.
Strascicati dal vento guizzano
tra vicoli bui e finestre socchiuse.
Lì invece è vivo.
Itachi ne avverte l’intrinseca,
muta potenza.
Così lontana da sembrare eterea,
acqua sfuggente tra le dita, come il bagliore di quella lucciola sconsiderata
che già balena tra le ombre, incurante del freddo notturno. Itachi se ne cura
appena anche quando sfrontata gli sfiora i capelli per poi proseguire
ondeggiando per la sua strada. Il sentiero è pieno di sassetti e polvere chiara
che sollevata dal suo passo strascicato si tinge d’azzurro alla luce di una luna
opaca, le chiome scarne degli alberi che gli giganteggiano sulla testa sono
invischiate del buio delle ombre compenetrate all’argento in una foschia
insolita e fine come tela di ragno.
E’ una notte di primavera
incerta, ingolfata nel gelo di un inverno tenace, e non c’è da scambiar pensieri
neppure con la brezza diaccia che s’infiltra tra i tronchi scuri e sferza
crudele i capelli e le guance brucianti.
Poco distante la superficie di
velluto del fiume si increspa.
Nemmeno si volta a vedere che
accade. Lo intuisce.
Un pesce ha inghiottito la
lucciola frettolosa.
E’ una notte di primavera
incerta e silenziosa in cui si ha impressione di essere completamente soli al
mondo.
E Itachi ride.
“Sono felice.”, pensa.
Si ficca a fondo le mani nelle
tasche, getta la testa all’indietro volgendo le palpebre serrate a un cielo
gonfio di un viola anomalo e cupo, e ride piano di se stesso, beffardo, in mezzo
a questo niente che lo appaga.
“Sono felice.”, ripete.
Forse lo è davvero.
***
Quando Itachi torna a casa per
un motivo o per l’altro è sempre molto tardi, ma ai suoi non è mai importato.
Sono consapevoli del fatto di
avere un figlio straordinariamente responsabile, ne sono orgogliosi e sono
convinti che mai nella vita potrebbe trascurare i suoi doveri per futili perdite
di tempo. Sanno anche che difficilmente la notte costituirà un pericolo per lui,
anche se ha solo dieci anni e qualcuno direbbe che è ancora un bambino, per cui
vanno a letto tranquilli, lasciando una casa quieta e un pasto ormai freddato
che forse non toccherà neppure ad attendere il suo ritorno.
Non si lamenteranno mai se anche
gli capita di far rumore nell’ingresso o nel bagno: neppure domattina presto
quando saranno solo loro tre al tavolo della colazione gli faranno domande in
proposito, e Itachi lo apprezza molto.
Dovrebbe confidarsi lui.
Mamma e papà se lo aspettano.
Questo lo sa. Per questo chinerà
la testa concentrandosi solo sul suo pasto e fingerà di ignorare la piega severa
della bocca del papà stretta in una linea esangue, come se dietro la barriera
dei denti premessero per uscire parole di rimprovero, o lo sguardo di apprensiva
curiosità della mamma che farà capolino dalla frangia corvina che le dondola
pigramente sulle ciglia. Poi, finito di mangiare, uscirà di casa per uno dei
suoi impegni salutando il papà e dando un bacio sulla guancia alla mamma, farà
il suo dovere e farà di tutto per tornare a tarda sera, quando le luci saranno
spente.
Evitare mamma e papà è facile
come colpire una parete col kunai.
Sasuke invece è davvero
seccante.
A questo pensiero Itachi sbuffa
spazientito, gettando in malo modo in un angolo della sua stanza l’asciugamano
con cui s’è strofinato i capelli bagnati, il quale dopo aver sbattuto contro la
parete precipita sulla scrivania piena di pergamene e libri lasciati alla
rinfusa con un rumore sordo e liquido.
Entro domani diventeranno
illeggibili.
Per quel che gliene importa,
poi…
E’ stanco morto e domattina
dovrà svegliarsi all’alba per allenarsi. Ancora. Se ne sta in piedi contro la
porta socchiusa coi palmi premuti contro l’uscio e le labbra strette a fissare
nel buio il giaciglio che dista pochi passi appena, quando l’unica cosa che
vorrebbe sarebbe ficcarsi sotto le coperte e dormire per quelle poche ore che
gli sono concesse.
Ma il letto gli è precluso.
Suo fratello minore ne ha preso
possesso. Di nuovo.
Itachi si abbandona ad un
sospiro affranto di fronte a quel corpicino immobile e si passa una mano tra i
capelli umidi mentre attraverso la sottile fessura scruta spazientito nel buio
in direzione della camera dei suoi genitori. Passi per suo padre che di queste
cose non si occuperebbe mai neppure se ne dipendesse dell’onore del Clan, ma ci
si aspetterebbe che almeno un Jounin del livello di sua madre sia in grado di
tenere testa a un moccioso di cinque anni e neppure troppo sveglio.
Invece Sasuke riesce sempre ad
averla vinta. Non sarebbe stupito se in realtà fosse stata addirittura lei la
mente diabolica che ha permesso a Sasuke di restare lì ad aspettare il ritorno
del fratello maggiore che ha sempre da fare e non ha mai tempo di star dietro ai
suoi sciocchi capricci come lei.
Ma la mamma è fatta così.
Non fa mai niente.
Tace e lascia fare con quello
sciocco sorriso dipinto di rosso sul volto di porcellana, negli occhi ridenti la
convinzione che tutto si sistemerà da solo prima o poi e nel migliore dei modi.
Mikoto è inutile.
Itachi aggrotta le ciglia a quel
pensiero scostumato che non ha mai condiviso con nessuno, neppure con Shisui che
è il suo migliore amico: stringe tra i denti il labbro inferiore e lo rimastica
nervosamente tra gli incisivi, cercando di riordinare i pensieri a ritroso nel
tempo, fino al momento in cui nella testa ha smesso di chiamare “madre” quella
donna. Se ne chiede il motivo.
E’ perché non si aspetta più
niente da lei.
Neppure che venga a portare via
il fratello dalla sua stanza.
Itachi stringe i pugni fino a
sentire le unghie conficcargli la carne.
Pare che dovrà occuparsi da solo
di questo piccolo scocciatore notturno.
Fa qualche passo in avanti nella
sua direzione: lento, calcolato. Prima il calcagno, poi la pianta, attento a
produrre solo un flebile rimbombo, una vibrazione appena percettibile, nella
speranza che si svegli da solo e se ne torni ciondolando in camera sua. Gli si
inginocchia accanto e piega appena la nuca di lato a scrutare le lunghe ciglia
ricurve oltre ciocche fini di capelli neri, ma queste restano pateticamente
immote. Itachi storce appena le labbra e accartoccia le sopracciglia in un moto
di severa concentrazione. Ha dello stupefacente l’incapacità di questo
ragazzino. Persino il più incapace degli allievi all’Accademia avrebbe reagito
in qualche modo. Ma Sasuke, si sa, vive nel suo mondo dipinto di bianco: si
sente protetto lì, con l’odore del fratello maggiore che idolatra nelle narici,
al punto da non rispondere ad una minaccia esterna.
Ha fiducia nell’inviolabilità
della sua casa.
Nella forza dei suoi abitanti.
Nel valore degli Uchiha.
Non dovrebbe.
Ha un fratello ingenuo.
Buono solamente ad
acciambellarsi al capezzale di un futon vuoto, con la guancia affondata tra le
pieghe del giaciglio, i capelli sparsi sull’angolo inferiore del basso guanciale
e le gambe nude all’infuori, disarmonicamente piegate sul tatami.
Ha preso questo vizio da quando ha cominciato a muovere i primi passi incerti in
casa, e per quanto questo bramoso attaccamento sia commovente nella sua
ostinazione, Itachi non crede che aiuterà suo fratello a diventare uno Shinobi
di livello superiore come ci si aspetta da un membro del Clan Uchiha.
A nulla sono valsi rimproveri,
paternali o qualche schiaffo occasionale.
L’hanno solo reso più ostinato.
Itachi non lo sopporta.
E’ stancante essere l’oggetto
della folle predilezione affettuosa di un fratello minore testardo che non
ambisce ad altro che a passare ogni momento della giornata con lui che è così
occupato invece che con la mamma, l’unica persona in quella casa che ha tempo di
assecondare tutti i suoi inutili capricci, e anche l’unica verso la quale non ha
dimostrato mai nessun interesse particolare.
Fiaccante e incomprensibile.
Non è come se gli avesse dato
illusioni.
Né lui né tantomeno suo padre,
eppure cerca le loro attenzioni da una vita.
Solo che per il genitore ha
sempre provato anche una certa soggezione di fondo, quindi si è sempre tenuto
alla larga da lui limitandosi ad ammirarlo da lontano. Invece essere ignorato
dal fratello maggiore deve essere sembrato inaccettabile.
Eppure lo adorano tutti, non gli
basta forse?
Perché devo amarlo se non fa
niente per meritarselo?
Itachi sobbalza a quel pensiero
amareggiato che non gli appartiene.
E’ la stanchezza, o forse il
nervosismo, a generare mostri e agghiaccianti meditazioni.
Lui a suo fratello vuole bene.
Si china su di lui e quasi gli
sfiora con la mano il gomito gracile che preme al suolo, sotto il peso di
quell’affetto da cui si sente invadere che sulla lingua ha il retrogusto strano,
denso e amaro del senso di colpa: ignora la frangia che gli si intreccia
fastidiosamente alle ciglia e fa scivolare lo sguardo d’ebano solido su quel
viso disteso, pudicamente occultato dalla mano stretta a pugno in cui si
intrecciano e abbracciano con impietosa tenerezza ombre nere e i fiochi lucori
azzurrini della notte.
Le ciglia lunghe e nere
carezzano le guance tonde da bimbo, e al ritmo di un respiro fievole le labbra
piene e rosse si stringono e allentano assieme ai denti aguzzi attorno alla
pelle del pollice, all’altezza della prima falange, con un lieve rumore di
suzione.
A volte si morde talmente forte
da lacerarsi l’epidermide.
Sempre con quell’espressione
beota e soddisfatta.
Proprio non riesce a liberarsi
da questo vizio.
Itachi storce le labbra, nemmeno
troppo sorpreso che i suoi genitori gli permettano di tenere quella sciocca
abitudine infantile. La mamma la trova adorabile e al papà non interessa. Si
limita a distogliere lo sguardo da quel bambino un po’ tardo che non ha ancora
dato prova delle sue doti e ancora non merita il titolo di “figlio”, scuotendo
occasionalmente la testa con rassegnata commiserazione e sperando che decida di
prendere la strada del primogenito. Sasuke ormai ha cinque anni ma nessuno gli
imporrà di crescere.
Nemmeno suo padre.
Perché nessuno si aspetta
davvero qualcosa da lui.
A Fugaku basta Itachi per
ridare lustro a un Clan esanime…
“Che hai fatto alla schiena?”,
mugugna d’improvviso una voce acuta e un po’ impastata di sonno. Itachi
strabuzza gli occhi verso suo fratello che lo guarda dabbasso strizzando con
forza le iridi come se dapprincipio non lo riconoscesse e poi solleva le mani e
si stropiccia le palpebre coi pugni.
Lo fissa mostrando di non
capire.
“Hai un livido sulla schiena.”,
insiste il fratellino indicandosi con un gesto impigrito del braccio un punto
indefinito tra la scapola e la spalla mentre rotola piano sul dorso. “Te l’ho
visto prima mentre ti spogliavi.”
Tra le sopracciglia di Itachi si
formano tante piccole linee verticali. Per qualche motivo prova qualcosa di
sgradevole al pensiero del fratellino insulso che lo osserva dal suo letto in
silenzio senza che lui se ne accorga.
E che noti cose fastidiose.
E’ irritante.
“Avresti potuto anche dire
qualcosa.”, soffia Itachi dopo un istante di silenzio in un moto di divertito,
studiato inasprimento. “Credevo che dormissi.”
Sasuke si stringe torpidamente
nelle spalle.
“Volevo stare un po’ con te.”,
ridacchia.
Getta da parte la stanchezza che
l’ha tenuto inchiodato al suolo finora, come non fosse mai esistita, e balza a
sedere con un colpo di reni deciso, lasciando il letto al suo legittimo
proprietario. Ora che suo fratello è tornato e lui si è svegliato, deve tornare
subito in camera sua.
E’ questa la regola.
Però non riesce ad andare.
Resta seduto lì, con le
ginocchia allargate e le mani strette nervosamente attorno al tessuto di quel
pigiama troppo grande.
Lo fissa immobile, come in
attesa di qualcosa.
L’altro nasconde la bizzarra
agitazione che d’improvviso lo ha invaso senza un motivo tangibile nel riparo di
una carezza ruvida e affettata che rabbuffa i capelli già imbrogliati del
fratellino. Sasuke ride allegro e l’altro gli concede una smorfia intenerita,
mentre la moina si trasforma in una spinta scabra che fa rotolare il bimbo di
lato. Itachi guadagna l’agognato giaciglio quasi svenendoci dentro, e si porta
le coperte fino al petto sotto uno sguardo imbronciato.
Sasuke si è offeso, pare.
Itachi non riesce a trattenere
un riso pacato.
A volte anche a Itachi piace
passare il tempo con Sasuke.
Se lo porta dietro quando si
allena, anche se suo padre non approva perché è convinto che gli dia disturbo, e
contravvenire a questa precisa disposizione significherà subire in silenzio, per
quieto vivere, prediche infinite.
Lo lascia a guardare per ore,
o a gironzolare da solo nei dintorni se preferisce, benché sia perfettamente
conscio del fatto che se gli accadesse qualcosa di anche infinitesimale come un
ginocchio sbucciato sua madre gli renderebbe la vita un inferno. Tutto per quei
pochi istanti prima di tornare a casa in cui siedono su una roccia oppure
sull’erba a guardare il cielo in silenzio.
Lui guarda in alto l’aria
rosso cupo e arancio screziata di viola e non parla, il fratello guarda lui e
non parla.
E’ bello.
Si tengono compagnia.
Ma lui deve sempre rovinare
tutto.
“Sei quasi migliore di
papà!”, sospira estasiato gonfiando il petto smilzo in un moto d’orgoglio,
nemmeno fosse lui a fregiarsi di tale titolo, e Itachi è costretto a nascondere
il fastidio che prova dietro una mutila, finta modestia, mordendosi l’interno
delle guance fino a sentirsi il sapore del sangue sulla lingua.
Ma il peggio accade quando
Sasuke attacca con le domande.
“A che stai pensando?”,
chiede, e Itachi non sa che rispondere, perché non pensa mai veramente a niente.
Non mentre si allena. Poi è il fratello minore a dirgli a cosa sta pensando,
ovviamente.
“Oggi sembri triste.”,
osserva.
Oppure: “Oggi sembri in ansia
per qualcosa”.
A quel punto Itachi decide
che è ora di tornare a casa.
Prenderà la strada breve,
quella che passa per il villaggio.
C’è qualcosa di insoffribile
in un bimbo piccolo con manie di psicanalisi.
***
Itachi è un ragazzo davvero
straordinario.
Un figlio a modo e un fratello
maggiore gentile e serio.
Non ha mai reagito in malo modo,
risposto sgarbatamente né ha mai fatto i capricci, e benché oberato da mille
impegni non ha mai disdegnato di offrire una mano in casa alla mamma, anche se
non gli è mai stata richiesta. Con Sasuke e coi suoi piccoli ghiribizzi di bimbo
ha sempre dimostrato una pazienza infinita e affettuosa. Solo da piccolo gli
abbracci lo imbarazzavano e quando l’esuberante fratellino cercava di stringerlo
a sé lo spingeva a terra con forza per poi assistere impotente al pianto
disperato che ne seguiva: si torceva forte le mani per il dispiacere, con
l’espressione contrita sul volto. Non aveva mai il coraggio di prenderlo in
braccio e coccolarlo.
In casa è un po’ chiuso, timido
e dolce.
Gli piace avere la sua intimità.
A volte però consente a Sasuke
di restare a dormire assieme a lui, e allora vede gli occhi del fratellino che
lo adora brillare di contentezza di fronte all’eccezionalità di quell’evento
meraviglioso.
Itachi non parla.
Non ha bisogno di chiedergli
nulla.
Le parole lo renderebbero un
momento imbarazzante.
Sono due uomini e non dovrebbero
avere di queste debolezze.
Gli basta osservarlo per un po’
e poi fargli spazio nel letto sollevando un lembo della coltre per farlo
accorrere tra le sue braccia come un cucciolo docile ed obbediente.
Sasuke ha cinque anni. Non è
molto alto per la sua età, ed è gracilino. Ha preso il viso un po’ tondo e dolce
della mamma che copre quanto più possibile coi capelli, nei grandi occhi neri
un’espressione perennemente sbalordita che gli conferisce un’aria stupida. Ha
membra sottili e flessibili, e l’abitudine di raggomitolarsi su se stesso come
una palla rincantucciandosi dappertutto quando qualcosa non va come vorrebbe,
solo per far impazzire tutti: in un armadio, nella vasca da bagno, in qualche
nascondiglio isolato e povero di luce.
O nel letto del fratello.
Gli si preme contro con
un’affettuosità ostile, istintiva, e il modo con cui si spinge verso di lui
strofinando la fronte contro l’incavo del collo e calcando le mani strette a
pugno contro il petto dell’altro, dà l’aria di volerlo allontanare con uno
spintone più che di trarlo a sé. Ma Sasuke ha solo cinque anni, e un modo
innocente e un po’ tenero di dar voce al proprio risentimento.
Itachi stringe gli occhi:
solleva piano il braccio che non è intrappolato tra il materasso e il collo
dell’altro e gli accarezza i capelli. Le dita ruvide percorrono l’intrico delle
ciocche nere, per poi scivolare sulle guance e la fronte. Il fratello si
abbandona ad un sospiro estatico.
Adesso è contento.
Itachi vorrebbe che fosse sempre
così semplice.
D’improvviso Sasuke lo abbraccia
stretto in un ultimo impeto di forza prima di lasciarsi vincere dal sonno, quasi
a temere di vederselo sfuggire dalle dita come un sogno irreale. Conficca le
unghie piccole e aguzze come spilli sul livido bluastro che nasconde sotto il
pigiama facendogli reprimere tra i denti serrati un sibilo di dolore.
Quello era il punto in cui quel
pomeriggio suo padre l’aveva colpito con un pugno alla fine di uno scontro
d’allenamento, in vista della terza prova per l’esame di selezione dei Chuunin.
Benché fosse già sicuro di
essere il migliore e avesse fiducia nei propri mezzi al punto di avere la ferma
convinzione che avrebbe potuto anche battere il genitore, l’altro aveva
insistito per vederlo in azione.
Era stato uno scontro piuttosto
blando. Itachi aveva tenuto il ritmo dell’altro senza impegnarsi al pieno delle
sue forze per non intaccarne la dignità di uomo orgoglioso, e alla fine aveva
perso.
Fugaku aveva atteso che il
figlio abbassasse la guardia e gli voltasse le spalle per picchiarlo con tutta
la propria forza: un pugno solo, ma più che sufficiente a sbatterlo a terra e
sollevare una nuvola di polvere giallastra che aveva raschiato polmoni e gola
del ragazzino strappandogli un ascesso di tosse rauca.
Distratto e intontito, non era
riuscito a reagire per tempo e si era ritrovato un piede premuto con forza tra
il collo e la schiena, nel punto in cui era stato appena percosso, e spingere
con forza verso il basso, finché non si era ritrovato la guancia premuta contro
la pozza poltigliosa di terra, sangue e saliva che gli si era formata sotto la
faccia. Poi l’aveva fissato senza capire.
E di fronte allo sguardo deluso
e amareggiato del padre, e alla piega amara e fredda della bocca naturalmente
piegata all’ingiù, gli era stato insegnato che mostrare riguardi verso il
proprio nemico, chiunque esso fosse, era un segno di debolezza. E un figlio
debole non era meritevole di portare lustro al clan Uchiha.
Itachi si era sentito morire per
la cocente mortificazione che gli aveva colorato le gote di vermiglio acceso più
che per la fitta acuta che gli aveva mozzato il respiro in seguito ad un'altra
spinta col tallone.
Aveva tentato di gonfiare il
petto.
Prima che potesse trattenersi,
aveva gridato.
“Allora lasciami combattere al
pieno delle mie forze, padre!”, era stata la replica ansante e rauca con cui
aveva celato appena in tempo quel gemito acuto di dolore. “Ti prego…”, aveva
aggiunto di fronte al silenzio del genitore.
Aveva stretto i pugni con forza
fino a sentire il terriccio conficcarglisi nella carne, e le lacrime che gli
premevano contro le ciglia erano state ricacciate indietro da un luccichio
selvaggio degli occhi che ora avevano assunto un cupo bagliore scarlatto: dalle
labbra impolverate e sporche squarciate in un ghigno ferale facevano capolino
denti bianchi chiazzati di sangue e sulla pelle erano appiccicati ciocche di
capelli sudate.
Fugaku l’aveva fissato con
distacco.
“E’ tardi.” Aveva indicato con
un gesto rapido della nuca il cielo vermiglio screziato di nuvole nere che si
ergeva sulle loro teste. L’aveva lasciato andare e gli aveva voltato le spalle,
incamminandosi verso il villaggio senza attendere che il figlio si rialzasse in
piedi e senza girarsi indietro.
“Torniamo a casa.”, aveva
ordinato
Ma Itachi pareva non aver udito
le sue parole.
Era rimasto immobile nella
polvere chiara con gli occhi fissi al cielo, a guardare il rosso lasciare il
posto all’indaco e poi al blu cupo. In un cielo chiazzato delle prime rade
stelle della sera aveva visto il mondo attorno a lui tingersi piano d’inchiostro
al punto di smarrircisi dentro le forme, finché la luna piena non aveva colorato
tutto d’argento.
Solo allora si era ridestato da
quella dolorosa indolenza.
Si era alzato in piedi.
Si era spolverato la terra dalle
ginocchia e dai vestiti, com’è sempre stata sua abitudine fare alla fine di ogni
allenamento, e dopo essersi strofinato via in malo modo il sangue ormai rappreso
che gli era colato sullo zigomo coi polpastrelli, si era avviato con tutta calma
verso casa.
Aveva preso il solito tragitto.
Oltre la radura dei Tre Tronchi,
lungo il fiume.
La natura si è mostrata in tutta
la sua fiera potenza.
Eppure gli è sembrato diverso.
Vacuo.
Prima, con la faccia premuta nel
fango asciutto, Itachi si è riempito il cuore di qualcosa di più forte e
soddisfacente: un odio puro e cieco.
Una sensazione nuova.
Itachi scuote la testa nel buio
e preme il mento contro la testa del fratellino che mugugna seccato nel sonno.
No.
Quel sentimento c’era già da
tempo, sopito tra le pieghe di un’apatica esistenza esemplare, ma non era mai
riuscito a definire. Appena aveva acquisito un nome, quel senso di vaga
insoddisfazione che da sempre lo opprimeva era stato scacciato via come una nube
sospinta dal vento, lasciando il posto a qualcosa di più vivo e potente di
quanto non avesse mosso i suoi passi fino a quel momento. Qualcosa di prezioso
da tenere stretto e da nascondere
Che fa battere forte il cuore.
Che fa piegare le labbra in un
sorriso nascosto.
Come il corpicino caldo e
morbido che gli respira tra le braccia: dal lieve rumore che gli giunge
all’orecchio non c’è bisogno di chinare lo sguardo per rendersi conto che Sasuke
si è portato ancora il dito alla bocca, e morde.
Itachi chiude gli occhi e
sospira.
Suo fratello sembra felice.
Ma anche lui è felice.
Così felice che domani salterà
gli allenamenti e porterà suo fratello ad allenarsi con gli Shuriken. Sasuke lo
sta supplicando da settimane, ma Itachi ha sempre accampato scuse reputandola
una fatica inutile.
Itachi chiude gli occhi e si
addormenta, con la certezza che i primi raggi di sole del nuovo mattino
porteranno qualcosa di nuovo.
Sentimenti nuovi e sconosciuti
gli si agitano nel petto.
La premonizione di qualcosa che
comincia a cambiare lo tiene sulle spine.
Kunai: antichi attrezzi giapponesi risalenti all'epoca Tensho. In
origine semplicemente usati come attrezzi da giardinaggio, furono in
seguito modificati in coltelli nell'armamentario dei ninja, che potevano
così tenerli nella propria dimora senza suscitare il sospetto che si
trattasse di un'arma. I breve: sono i coltellini.
Il tatami è una tradizionale pavimentazione giapponese
composta da pannelli rettangolari affiancati fatti con paglia di riso
intrecciata e pressata. Può anche avere diversi spessori che mediamente
raggiungono i 6 cm. Le dimensioni non sono fisse variando da zona a
zona. Orientativamente il tatami è lo spazio occupato da una persona
sdraiata. Il tatami è utilizzato come unità di misura degli ambienti,
così se si dice che una stanza è di dieci tatami, o di quattro,
l'interlocutore ha ben chiara la dimensione.
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