Il Bagno

di LawrenceTwosomeTime
(/viewuser.php?uid=25959)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


“Quei pantaloncini mi piacciono. Mi piacciono perché sono corti. Lasciano scoperte le tue meravigliose gambe”

È l’ultima cosa che ricorda. L’ultima di una corposa serie di avances indirizzate alla bella del gruppo, sospetta. Ma quello che conta è il qui e ora, il momento presente.
Un solo, bruciante imperativo gli martella nel cranio fino a fargli dolere le tempie: “Devo andare in bagno”.
Proprio così, gli serve un bagno. Gli scappa da morire, anche quella grossa, e teme che se non raggiungerà il gabinetto in tempo gli intestini andranno incontro a una necrosi – e magari chissà, gli verrà una bella emorragia interna e vomiterà merda dalla bocca.
Avanza a tentoni, quasi barcollando per il peso del suo scomodo fardello, la vescica un secondo cuore pulsante di fiele arroventato.

Gli sembra di camminare praticamente da sempre, in quel contorto dedalo di cunicoli male illuminati, scale pericolanti, corridoi della disperazione. Il fatto che non ricordi cosa ci sia stato prima lo metterebbe in agitazione, se solo non fosse così concentrato a frenare le proprie eiezioni.
Ancora una volta, un cartello con su scritto “WC” e una freccia sembrano prenderlo in giro, indirizzandolo, forse, nella giusta direzione – o facendogli perdere del tutto la bussola. Si aspetta di incontrare qualcuno da un momento all’altro, qualcuno che magari conosca la strada e sia disposto ad aiutarlo.
E intanto l’angoscia cresce, un sudore malato scorre copioso tra le pieghe della camicia. Non crede che resisterà ancora per molto, e in cuor suo se lo augura, perché ha come la sensazione che la tortura potrebbe durare in eterno.

Ed eccolo, un gemito. Giunge da dietro quell’angolo parzialmente rischiarato da una lampada a nafta. Uno sporco gorgoglio che sa di fango e annegamenti, seguito da un piede strascicato, completamente coperto di quella che sembra… pelliccia?
No, non di pelliccia. Quando l’ “uomo” esce allo scoperto, la puzza lo precede come un’ombra. Gli sembra di respirare miasmi di zolfo e decomposizione e petrolio e pesce marcio, fatti friggere e poi lasciati a decantare.
L’uomo è fatto di escrementi. Dubita che ci sia ancora della carne sotto quella massa ingobbita e schiumante, in cui le bolle si gonfiano e scoppiano come pasta di lievito in un forno. E quando parla, lo fa con la voce di chi conserva una miserabile stilla di speranza.
“Anche lei… sta cercando… il bagno?”
Si sorprende nel rispondere con sollecitudine: “Io… s-si, infatti”
L’uomo di feci fa quella che sembra una faccia scettica.
“Si deve… sbrigare. Io lo cerco… da molto… forse sono anni. Deve fare… in fretta… o si ridurrà… come me”

Lo lascia passare, lui e la scia di mosche e il vischioso impiastro che semina alle proprie spalle.
È più agitato di prima, e non tanto per l’impellenza del suo bisogno, ma per il terrore atavico di trasfigurarsi in quella cosa.
La via si biforca ed entrambe le direzioni sono contrassegnate da cartelli raffiguranti un WC stilizzato. Non importa quale verso, l’importante è avanzare. Volta a sinistra.

Lamenti acuti riecheggiano per la galleria di mattoni. Il pianto di un neonato.
Quasi come fosse apparsa dal nulla, una donna sdraiata contro la parete si profila nel passaggio. Ha le gambe divaricate e trema, è preda di spasmi convulsi.
Nella penombra è difficile scorgere la poltiglia che le scaturisce tra le cosce, ma il feto agonizzante spicca come una lanterna scarlatta nel buio.
Si accovaccia accanto alla donna, il suo striminzito: “Signora, tenga duro! Vi aiuterò, lei e il bambino!” suona più inutile del vagito del neonato. Poi, accade.
Come risucchiato da una forza invisibile, il bambino si riavvolge nella placenta, il pianto che risuona al contrario fino a spegnersi, e l’involto riassorbe i suoi umori, preme contro la vagina, rientra nella pancia.
Facendo mostra di una forza inaspettata, la donna lo afferra per il colletto della camicia. Il volto è una maschera di follia. Con voce strozzata declama: “Volevo scaricarlo nel bagno, ma non riuscivo a trovarlo… Così ho pensato che non avrebbe fatto nessuna differenza se l’avessi depositato… qui. Ed ecco… la mia punizione”
Il vagito del neonato riaffiora come se fosse la prima volta, e la donna si prepara a partorire di nuovo.

Si allontana dalla scena più velocemente che può, i muscoli del retto tesi fino al punto di rottura e un dolore sordo nel bassoventre.
Non è solo un posto immenso in maniera inquietante: è anche una discarica di relitti umani. Buffo come, nonostante gli orrori che abbia visto, il suo principale desiderio sia ancora di farsi una bella cagata (e, perché no, una pisciata).
L’egoismo è la trappola più insidiosa per un essere umano.
Per poco non ci va a sbattere contro. Deve indietreggiare per vederlo meglio. Lui indietreggia a sua volta.
Rimane ammutolito dalla paura. Proprio lì davanti c’è un’esatta copia di sé stesso.
Per un momento crede di trovarsi di fronte a uno specchio. Agita una mano. L’altro rimane fermo.
“Chi sei?”
“Sono il tuo doppelgänger”, risponde l’altro con voce sorprendentemente sicura.
“Tu saresti… il mio doppio?”
“Si, e sono ore che cerco di uscire da questo posto”
La domanda suona buffa in un contesto così assurdo.
“Sei già andato in bagno?”
Lui ci riflette per un po’.
“Si, anche se non ricordo bene i particolari. So solo che mi sento libero e soddisfatto. Ora devo solo trovare il modo di andarmene da qui”
E poi: “Buona fortuna!”
Si sta già defilando, che l’altro lo richiama.
“Aspetta! Non hai qualche suggerimento per me?”
La voce del doppelgänger risuona debolmente.
“Il sangue ti indicherà la via. Io sono un guscio vuoto e non posso usarlo, ma tu si”

Silenzio.

Si addenta con ferocia il polso nudo, morde come se volesse strapparsi la carne dalle ossa. Il dolore è sordo, quasi celato dai più impellenti spasmi alla bocca dello stomaco.
Il sapore ferroso sulle labbra, il rumore secco del sangue che scorre sul pavimento.
Una pozza si allarga sotto i suoi piedi, riflettendo la luce delle lampade e i muri di pietra. Il colore vermiglio muta lentamente in una tonalità più scura mente cerchi concentrici si dipartono dalle sue scarpe.
Ora il plasma è nero come la notte, come il buio del cosmo, sembra perdere consistenza.
Nel momento in cui si sente mancare il terreno sotto i piedi, realizza che si trova sopra un buco profondo chissà quante centinaia di metri.
Precipita e precipita in linea retta, gli abiti svolazzanti, la pelle schiaffeggiata da folate gelide. Precipita nel cuore dell’oscurità.
E poi, come per magia, il senso di pesantezza, la gravità che gli schiaccia le budella, si dissolvono.

È seduto al tavolo con gli amici, una mora gli sta facendo l’occhiolino.
“Scusate, vado un momento in bagno”

Non ha la minima idea di cosa lo aspetta.




Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1192516