7.
I ricordi degli dèi
Nel corso dell’adolescenza, le differenze fisiche tra Thor e Loki si
erano accentuate oltre ogni previsione.
Il primogenito di Odino, destinato al dominio dei cieli e alla
protezione della pace universale, si era irrobustito: il suo torace,
rimodellato dai lunghi allenamenti, aveva assunto la consistenza
compatta che si addiceva ad un guerriero, le spalle più ampie avevano
preso un colorito bronzeo, simile a quello delle statue che
circondavano il palazzo del sovrano. Thor aveva ereditato la forza del
padre e la bellezza della madre: le sue ciglia folte ombreggiavano uno
sguardo cristallino, capace di suscitare dolcissimi tormenti nell’animo
delle fanciulle arsgardiane; le labbra piene strappavano baci al miele
e sospiri innamorati.
Loki, al contrario, aveva assunto un’aura quasi lunare.
La sua figura era rimasta esile, sottile al confronto coi fisici
possenti degli dèi asgardiani; il secondogenito di Odino aveva scelto
di dedicare il proprio tempo allo studio della magia, di trascorrere le
giornate in biblioteca piuttosto che nell’arena riscaldata dal sole.
Il colorito della sua pelle ne aveva risentito: candido al limite dello
spettrale, era accentuato dal nero dei capelli, dal blu cangiante degli
occhi, affilati e curiosi come quelli di un gatto.
Alcuni sostenevano che la bellezza del principe fanciullo derivasse
dalle discendenze celesti della madre, altri riconoscevano nel volto di
Loki, nella sua espressione attenta e intelligente, l’espressione del
giovane Odino, impegnato nel consultare i testi di magia. I meglio
informati preferivano non esprimersi in merito ad eventuali somiglianze.
Rimaneva un fatto, noto ad ogni membro della corte reale: Loki e Thor
erano opposti, come il ghiaccio e il fuoco ardente, e, come il ghiaccio e il fuoco ardente,
non avrebbero mai potuto incontrarsi.
“Loki, mostrati.”
Il dio dell’Inganno soppresse il sorriso timido che gl’illuminava il
volto e si girò con un unico movimento lezioso.
Thor scoppiò a ridere.
Era disteso assieme al fratello, tra le coltri di seta che ricoprivano
l’enorme baldacchino nella sua camera da letto, e fissava Loki intendo
ad agitare le gambe, giocherellando con una corona di rubini che
scivolava dalle sue caviglie alle cosce.
“Dovresti indossarla sul capo, come si conviene.” Mormorò Thor, la voce
arrochita dal desiderio.
“A che pro?” replicò lui, agitando la corona rossa sul polpaccio. “Non
ti pare che io la stia già indossando?”
Con uno scatto Thor gli afferrò i piedi, bloccandoli.
Indugiò un istante, attratto dalla prospettiva di aprire le gambe di
Loki e terminare il gioco che avevano cominciato. Poggiò il mento sulle
ginocchia ossute, invece.
“Ti amo.” Disse, e vide Loki
trattenere il fiato per una dichiarazione che non era ancora pronto ad
accettare. “Il colore di queste pietre starebbe così bene coi tuoi
capelli scuri.”
“Avrei un aspetto ancora meno rassicurante, ancora più diverso.”
“Non m’importa! Io ti amo per quello che sei.”
Loki si lasciò baciare con dolcezza, sospirando.
Dimenticata la preziosa corona, il sovrano e il principe perduto
goderono della vicinanza dei corpi, studiandosi in silenzio.
Le mani di Thor premevano contro il ventre del fratello.
“È vero quello che dicono … ho sentito che – Puoi veramente generare un figlio?”
Loki aggrottò le sopracciglia, dubbioso.
“Riesco a controllarmi, non hai nulla di cui preoccuparti.” Disse poi,
facendo un gesto vago.
“No! Non … non mi preoccupo affatto! Vorrei solo sapere se è possibile,
se le leggende dicono il vero. Sarebbe una benedizione di cui non sono
sicuro se sentirmi degno.”
“Una benedizione!?”
Con uno scatto repentino, il dio dell’Inganno interruppe ogni contatto
fisico con l'amante. Lontano dal letto, prese a vestirsi, ad acconciare
i lunghi capelli che gli cadevano sulla schiena.
“Cosa ti aspettavi che dicessi?!” urlò Thor, che serrava pugni per la
rabbia.
“Mi aspettavo che tacessi!”
Un rombo sordo, come quello di un tuono, seguì l’affermazione di Loki.
Thor aveva sfondato la parete con un sinistro.
“È impossibile riuscire a cancellare l’odio che provi, eh?! La pazzia
che la prigione ha reso solo amplificata! Nonostante i miei sforzi, non
potrò mai riuscirci!”
“Non forzarti troppo, fratello!” esalò Loki, che nascondeva il volto
inumidito dalle lacrime.
Thor lo afferrò e lo premette contro il suo torace, immobilizzandolo
senza troppe cerimonie.
“Non piangere adesso!” intimò, furioso e dispiaciuto. Per quanto la
rabbia avesse preso il sopravvento, ancora non riusciva a sopportare la
vista delle lacrime di Loki. Sospettava che non ne sarebbe mai stato
capace. “Non piangere …” mormorò, più tenero.
E Loki si arrese, singhiozzando.
“Non dire mai più una cosa del genere! Non dirla, Thor!” pregò,
avvolgendo le dita affusolate nei capelli del re. “Non capisci che
disgrazia sarebbe, se succedesse veramente?! Non capisci quanto
soffrirei al pensiero di dovermene disfare?!”
“Perché disfare … perché?”
“Perché io sono il bastardo Jotun!”
sputò lui, tagliente. “Sono ancora la progenie sciagurata di Laufey! Il
cane di ghiaccio che Odino ha ospitato nella casa degli dèi, le Norne
gliel’avessero impedito quando era possibile!”
“Non dire così …”
“Io sono uno straniero.” Sussurrò Loki, piangendo. “Non confondere
pazienza con amore, mio re. Gli asgardiani tollerano la nostra
relazione perché sei un buon sovrano, perché non ostentiamo il legame
che ci unisce, ma non credere, neanche per un istante, che
accetterebbero il figlio di un traditore.”
Thor premette le labbra contro la fronte gelida del fratello,
accogliendo le ultime lacrime come fossero un dono prezioso. Seppellì
il volto nella spalla di Loki che, esile, sembrava avvolgerlo.
Non c’era unione più sacra, questo lo sapeva.
Nei primi giorni di prigionia, Loki aveva combattuto il silenzio a
colpi di urla e calci; esaltato, si aveva urlato bestemmie contro
Odino, traditore universale, mentitore senza vergogna. Poi la rabbia
aveva lasciato il posto allo sconforto, alla tristezza. Poi, alla colpa.
Chino nell’angolo più ombroso della cella, il dio aveva provato a
togliersi la vita più volte, utilizzando la poca magia che gli era
rimasta e che apparteneva alla discendenza Jotun, incontrollabile
persino per il Padre Universale.
Al terzo tentativo, più efficace e potenzialmente letale dei precedenti, Thor aveva
scostato la guardia con un ringhio e si era introdotto nella cella
spoglia, ignorando ogni divieto regale.
Disperato, si era inginocchiato sul pavimento freddo, stringendo tra le
braccia il corpo ancora più freddo del fratello, premendo le dita sulla
ferita perfettamente verticale che gli squarciava il polso
sinistro. Loki mormorava parole incomprensibili, ridendo senza
controllo.
Taci, aveva urlato il
primogenito di Odino, taci.
E Loki aveva tremato tra le sue braccia.
Timidamente l’aveva baciato e si era scusato – per la guerra scatenata
contro i terrestri, per le vittime innocenti che l’avevano maledetto
prima di morire, per non aver
tagliato il polso più a fondo, prima il destro e poi il sinistro …
Thor aveva pianto come un bambino. Pianissimo, gli aveva sussurrato
all’orecchio le promesse d’infanzia, i ricordi di un tempo lontanissimo.
L’aveva salvato, questo lo sapeva.
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