I
Che diavolo ci facevo a
Londra nel bel mezzo delle vacanze estive?
Certo, come
dimenticare: niente vacanze per me. Soltanto il lavoro, lavoro e ancora lavoro.
O, almeno, quell’unica cosa che potevo considerare tale, nella speranza che
qualcuno si fosse degnato di accorgersi che una laurea in lingue valeva un po’
più di una giornata passata a controllare l’ingresso di una vecchia biblioteca
di quartiere.
Così, con un sospiro
frustrato, scesi dalla metro per riemergere in superficie e godermi quel timido
sole che splendeva sulla città, ma che non riscaldava praticamente nulla, già
seminascosto dalle nubi. Era quello il motivo per cui, sopra la maglietta,
indossavo un cardigan nemmeno troppo leggero, rubato alla mia coinquilina, che
disseminava per casa tutto lo scibile umano.
Ogni tanto mi chiedevo
come sarebbe stato vivere in Spagna o, perché no, direttamente in California.
La mia pelle aveva bisogno di un po’ di abbronzatura ogni tanto e le docce
solari non erano decisamente una soluzione che ero disposta ad adottare. Ero
nata salutista.
Fu con quei pensieri,
lamentosi come al solito, che mi diressi al piccolo paradiso di tranquillità e
carta in cui lavoravo da qualche anno a quella parte, per pagarmi gli studi. Di
certo non era uno stipendio degno di nota, così ero costretta, nei weekend, a
fare la barista in un locale dietro Piccadilly. La mia vita sociale era
completamente sacrificata, i miei amici me lo dicevano sempre e non facevano
che lamentarsi, rinfacciandomi una latitanza di cui purtroppo non ero nemmeno
la responsabile. Ma avevo sempre sperato che capissero che non ero esattamente
felice di fare la reclusa, così non mi ero mai impegnata a farmi vedere troppo
spesso. Anzi, preferivo fare un turno in più nel mezzo della settimana.
Mi piazzai davanti a un
semaforo, in attesa che diventasse verde, e lasciai vagare il mio sguardo lungo
la strada, alla mia destra. Davanti alla vetrina di un negozio per giocattoli
un bambino, un batuffolo che probabilmente non aveva nemmeno tre anni, stava
litigando furiosamente con quella che immaginai essere la nonna. Forse voleva
un nuovo gioco e lei si stava rifiutando di compraglielo, ipotizzai. Non mi
piacevano i bambini viziati, mi ricordavano il marmocchio a cui facevo
ripetizioni di inglese ai tempi del liceo. Così distolsi lo sguardo, tornando a
puntare gli occhi sul semaforo che sembrava essersi fossilizzato. Avevo fretta,
per l’amor del cielo!
Improvvisamente un
guizzo alla mia destra e un urlo terrorizzato mi distrassero dai miei pensieri
stizziti e vidi il bambino di poco prima lanciarsi in mezzo alla strada,
incurante di un taxi che si stava dirigendo a tutta velocità proprio su quella
corsia.
Mi sentii morire, ma,
senza nemmeno sapere come, trovai la forza di scattare fulminea e portai via il
bambino dalle braccia della morte. Mi lanciai sull’asfalto con quel fagottino
terrorizzato tra le braccia e, per evitare che si ferisse, gli attutii
l’impatto scivolando sulla schiena.
Sentii distintamente la
mia pelle lacerarsi, ma rimasi raggomitolata sulla striscia bianca, dove
nessuna auto avrebbe dovuto passare, stringendo il bambino al petto.
Lo sentivo piangere,
così come sentivo gli schiamazzi della gente attorno a noi, preoccupata e
terrorizzata di dover raccogliere ben due persone con la spugna.
Aprii gli occhi,
cercando poi di capire se mi fossi fatta male da qualche parte. Oltre alla
schiena, ovviamente. Quella bruciava come l’inferno.
«Ti sei fatto male?»
domandai al bambino, cercando di regolarizzare il respiro e di allentare la
presa. Alzò il capo dal mio petto, rilassando al contempo i pugni che aveva
stretto sui lembi del mio cardigan, e scosse il capo, mentre due enormi lacrime
rotolavano giù dai suoi occhi.
«Colin, Colin!» chiamò
la nonna, venendoci incontro tra le auto ferme. Il semaforo finalmente era
scattato, così mi ritrovai immersa in un vortice di ruote ferme e tubi di
scarico che, a voler guardare, non facevano nemmeno tanto bene alla salute.
Salutista anche nelle peggiori situazioni, insomma.
Mi alzai, tirando in
piedi quello che evidentemente si chiamava Colin. Lo presi per mano e, il più
velocemente possibile, mi affrettai a toglierlo dalla strada.
«Signorina, sta bene? –
mi domandò la nonna – Non so nemmeno come esprimerle tutta la mia riconoscenza,
grazie davvero!»
Annuii sovrappensiero,
toccandomi la schiena. Bruciava da impazzire, quella era la vera
riconoscenza per aver salvato il suo pargoletto dal muso nero del black cab.
Nessuna buona azione resta impunita, l’avevo sempre saputo.
E dal nulla mi venne in
mente quando, da piccola, cadevo sulle ginocchia e, inspiegabilmente, riuscivo
a sbucciarmi la pelle senza però rovinare i pantaloni. Avevo sempre creduto che
qualche amico immaginario li ricucisse a tempo di record, per evitare così di
far arrabbiare mia madre, e forse avrei potuto pensarlo anche in quel momento,
poiché la stoffa sulla mia schiena era integra. Probabilmente l’amico
immaginario aveva deciso di pararmi le spalle dalle urla di Amber, a cui avevo silenziosamente
preso in prestito il cardigan.
«Scusami, signorina –
borbottò il bambino, la voce ancora tremula per il pianto che ancora
sconquassava il suo piccolo petto – Ma ero ‘rabbiato con la nonna.»
«Non fa niente –
sorrisi, accovacciandomi per non guardarlo dall’alto in basso. Non volevo
metterlo a disagio più di quanto già non fosse – Come ti chiami?»
«Colin, picere» si
presentò subito, raddrizzando la schiena e porgendomi la destra.
«Io sono Phoebe –
sorrisi, stringendogli la mano – Ma dimmi, Colin, perché eri arrabbiato con la
nonna? Non ti sei comportato molto bene.»
«Nelly è malata –
riprese mettendo il broncio – Volevo penderle un bimbo.»
Immaginai si stesse
riferendo ad un bambolotto e sorrisi, incrociando lo sguardo di sua nonna.
«Chi è Nelly?» chiesi,
carezzandogli il capo riccioluto. I suoi occhi castani si illuminarono,
lasciandosi alle spalle ogni traccia di pianto. Non sembrava più così viziato
come quando l’avevo visto di fronte alla vetrina.
«Mia soella. Ha
la frebbe.»
«E tu volevi prenderle
un regalo per farla guarire più in fretta?»
Annuì, riportando
ancora il volto verso il basso. Non alzò lo sguardo, nemmeno quando la nonna si
giustificò, cercando di fargli capire che non aveva portato denaro a
sufficienza, soprattutto per un negozio così costoso come quello a cui era
interessato Colin. Avrei voluto comprarlo io quel bambolotto, ma non credevo di
essere economicamente disposta meglio di loro.
«Te lo compro io» disse
improvvisamente una voce alle mie spalle. Mi voltai, vedendo una giovane uomo
sorridere al piccolo Colin e alla nonna, e una consapevolezza piovve dal nulla:
quel ragazzo era l’attore che, alcuni anni prima, aveva recitato in Hex.
Amber adorava tutte quelle serie inutili e, a meno che mi stessi clamorosamente
sbagliando, recitava anche in quella serie americana sui vampiri che tanto
spopolava tra le ragazzine arrapate. D’accordo, la mia coinquilina aveva un
ragazzo con cui sfogare gli ormoni e non era nemmeno più una ragazzina, ma
evidentemente non le bastava.
«Chi scei? Suo
amico?» chiese il bambino, mentre indicava me con un dito. Quasi mi accecò e mi
sbilanciai all’indietro nel tentativo di evitare il suo indice paffuto, ma il
nuovo arrivato si spostò rapidamente dietro di me e finii con la schiena contro
la sua gamba. Trattenni un gemito di dolore e alzai lo sguardo, incrociando i
suoi occhi azzurri che mi fissavano con quello che sembrava rimprovero. Che
diavolo voleva?
Lasciò che
riacquistassi il mio equilibrio e poi si accovacciò al mio fianco. Apprezzai
quel gesto, nonostante l’avessi già bollato come essere antipatico e indegno di
considerazione per quell’entrata fenomenale e da supereroe. Grazie al cielo
Colin non sembrava essere così affascinato dalla sua voce profonda e continuava
a preferire me.
«Ehm, sì. Sono Joseph,
un amico di…» mi lanciò uno sguardo allarmato, rendendosi conto che si era
messo nei casini da solo. Avrei anche dovuto tirarcelo fuori, vero? Solo per
comprare quel maledetto bambolotto alla sorellina di Colin.
«Phoebe» mormorai, per
poi fingere un colpo di tosse. Mi sforzai di fingere collaborazione, sebbene
non mi piacesse affatto fare squadra con un damerino. Non andavo pazza per i
tipici gentiluomini britannici, infatti quella zecca che mi aveva rovinato
l’ultima volta veniva dal continente. Dopo di lui, avevo smesso di apprezzare
anche i mezzi tedeschi.
«Stai bene, Phoebe?
– mi chiese quel Joseph dei miei stivali, facendo per darmi una pacca sulla
schiena. Sembrò ripensarci fortunatamente, perché mi carezzò soltanto un
braccio – Comunque, dicevo, sono un suo amico. Vuoi quel bambolotto?»
«Per Nelly» precisò
orgoglioso, come a rimarcare il fatto che lui non giocasse con quisquilie del
genere. Dio, quel maledetto orgoglio maschile era già presente anche alla sua
età. Incrociai lo sguardo con sua nonna, che sospirò spazientita, sorridendomi
poi con comprensione. Ci eravamo perfettamente intese a riguardo. Dopotutto era
una donna anche lei.
«Certo – sogghignò il
damerino, alzandosi e porgendo la mano a Colin – Andiamo a prendere il regalo a
Nelly, allora.»
Il bambino agguantò le
sue dita lunghe, stringendole tra le sue. Rimasi imbambolata a fissare quella
mano, così elegante e sicura di sé. Il classico genere di mano che ogni donna
avrebbe voluto avere addosso.
«Non vieni con noi,
Phoebe?» mi disse Joseph, sfoderando di nuovo la sua voce profonda. Il mio nome
sembrava quasi esotico se pronunciato da lui, non mi sarebbe affatto
dispiaciuto sentirglielo ripetere. Scossi il capo per scacciare quei pensieri
molesti. Alla fine era sempre così che andava: gli uomini più affascinanti
erano quelli che avrei più voluto prendere a pugni.
Gli comprò davvero la
bambolina, pagandola fior di sterline, così la gratitudine andò tutta a lui e
non a me. Che importava se avevo la schiena a brandelli, ma il portafogli
vuoto? Ah, il consumismo! Era inutile che me la prendessi a quel modo, davanti
ad una mazzetta anch’io mi sarei dimenticata della mia schiena. Insomma,
sarebbe guarita o presto o tardi.
«Grazie Phibe»
mi disse Colin. Mi stupii quasi che si ricordasse di me, con in mano quel
giocattolo. Gli sorrisi, scompigliandogli la zazzera di ricci castani, e lo
guardai redarguire la nonna su come dovesse tenere la borsa per non sgualcire
il fiocco.
«Lei lavora alla
biblioteca della signora Flynn, non è vero? Quella che c’è là all’angolo» mi
domandò improvvisamente la nonna, aggrottando le sopracciglia con fare
pensieroso.
Incrociai lo sguardo di
Joseph, illuminato da uno scintillio di interesse, e annuii, i denti serrati
per il fastidio di far sapere al maledetto damerino anche dove lavorassi.
Che poi, perché lo
chiamavo damerino? Indossava una semplice tuta blu, una maglietta bianca e
delle auricolari erano abbandonate sulle sue spalle. Non era poi così elegante.
Ah, al diavolo. Lo odiavo comunque, ecco la verità. Aveva quell’aria supponente
e fintamente caritatevole che mi dava il voltastomaco.
«Non guardarmi a quel
modo» mi disse quando rimanemmo soli in mezzo al marciapiede.
«Veramente non ti sto guardando
affatto» precisai stizzita, tenendo d’occhio l’orologio.
«Ma hai
quell’espressione di disgusto stampata in viso – ribatté, trascinandomi per un
braccio fino alle scale che portavano alla stazione della metropolitana – Dimmi
dove abiti.»
«Cosa? – sbottai,
puntando i piedi a terra – Non devo andare a casa e non ho bisogno
dell’animaletto da compagnia per andare dove devo. Non mi interessa se sei
quasi famoso, la balia falla a qualcun altro.»
«Senti, ragazzina –
sibilò, alzando un sopracciglio con freddezza – Ti ho vista cadere sull’asfalto
e quella schiena sarà tutta graffiata. Ti aiuto a disinfettarti.»
«Il mio ragazzo ti
prenderà a pugni» sorrisi melliflua, sbattendo gli occhi rapidamente.
«Non ce l’hai un
ragazzo – sbuffò, guardandomi come se fossi stata una povera malcapitata – O
altrimenti non saresti così caustica. Non credi?»
«No.»
«D’accordo – sospirò,
scendendo le scale senza accennare a lasciarmi il braccio. Così fui obbligata a
seguirlo, senza ovviamente smettere di divincolarmi. Le occhiate dei passanti
erano tutto dire, ma non avrei certo smesso di comportarmi a quel modo per
tranquillizzarli – Dove abiti?»
«Al 10 di Downing
Street» replicai, e sembrò stizzirsi.
Mi lasciò il braccio
proprio in quel momento e rischiai di cadere all’indietro, data la forza con
cui cercavo di opporre resistenza, ma lesto passò le braccia attorno ai miei
fianchi e finii spalmata contro il suo corpo. Ad una distanza così breve dal
suo viso potei rendermi effettivamente conto di quanto azzurri fossero i
suoi occhi e di quanto le sue labbra fossero invitanti. Ah, maledizione.
Forse aveva ragione lui, mi serviva un ragazzo.
«Credo che il
Presidente sia un tantino meno recalcitrante di te e, se fossi sua figlia,
sarebbe terribilmente a disagio nel saperti così odiosa.»
«Sei tu quello che…»
m’interruppi, sentendo le sue dita premere contro la mia schiena, e
boccheggiai, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo per evitare che
vedesse quanto stravolta dal dolore fosse realmente la mia faccia.
Dio, che buon profumo.
«Dimmi dove abiti»
sospirò di nuovo, allentando la presa senza però lasciarmi andare. Così
cedetti, lasciando che mi accompagnasse a casa.
*
Ringrazio Ili_sere_nere per
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