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Piccolo avvertimento: il
rating giallo è dovuto al gesto compiuto da un personaggio della storia verso
un altro.
Un gesto di violenza,
comunque velato, grazie al genere della storia stessa. Ma che comunque mi sembra
opportuno segnalare!
A chiunque si avventuri,
auguro di cuore buona lettura!
Filo
Spinato
[... I wanna hurt you just to hear you screaming
my name
Don't wanna touch you but you're under my skin
I wanna taste you but your lips are venomous poison...
Alice Cooper, Poison]
Uno
sparviero mi sorrise, indicandomi la strada.
Pensavo fosse un astore. Poi emise un urlo straziato e capii che mi ero
sbagliata.
Non si trasformò in uomo neanche quando lo invocai. Rimpiansi di non essere in
una torre!
Fui
immensamente grata alla premura di quell’animale silenzioso, poiché ero
sfiancata: mi dolevano le ossa e la pancia, i miei vestiti si erano sciupati al
sole, perdendo i propri colori. I capelli, poi, strepitavano stretti in
una coda non voluta, incitandomi a fermarmi.
Non avevo ancora capito cosa andassi a fare lì: perché il mio corpo camminasse
e le mie gambe mi dirigessero all’ennesima umiliazione.
Ero talmente provata, quel giorno, da non capire cosa stessi facendo.
Una lucida ubriachezza la mia, affannata e stanca.
Il
viottolo di ghiaia grigiastra mi avvisò della meta raggiunta.
Rabbrividii, era freddo ed avevo paura. Un cane m’abbaiò contro, latrando e
guaendo. Era così triste che provai una tenerezza infinita. Dopo essermi
asciugata lacrime di commozione, bussai. Quattro volte.
“Con
che coraggio ti presenti qui.” Mi disse. Superficiale e mellifluo.
“È facile ferirmi. Cerca almeno di essere originale.”
Non
so da dove presi tutto quel coraggio. Me ne stupii tanto e mi venne voglia di
mordermi la lingua e di ritinteggiare le pareti della mia camera.
Il
Fossile era sempre stato così con me. Bastardo, sottilmente feroce, subdolo.
Eppure tutti ci consideravano amici: buffo ma vero. Tutti!
Uscivamo insieme, litigando e odiandoci di cuore. Lui con la sua voglia di
trafiggermi ed io con la codardia del non sapermi difendere. Subivo, a parte
rari scatti di orgoglio e dignità di plastica e sorridevo continuamente
ai passanti in cerca di aiuto.
Eppure i passanti non vedevano proprio nulla, nonostante i miei occhi grandi
ululassero disperati.
“Clizia,
a che pensi? Sei venuta solo a disturbarmi o vuoi qualcosa?”
“Scusami.” Il Fossile sapeva sempre come mettermi in riga, malizioso e
crudele. “Spietato come sempre, noto.” Sorrisi. “Se solo mi facessi
entrare…”
“Entra.”
Svogliato, aprì bene la porta e mi fece accomodare a terra, su un tappeto
colorato.
Notai che era soffice, delicato. Mi venne voglia di sdraiarmi e probabilmente lo
feci, perché il Fossile mi guardò male.
“Sei
passata qui per…”
“…Per chiudere questo rapporto stucchevolmente insensato.”
“Ah.”
Forse
il Fossile si stupì per la prima volta in vita sua di me. Mi si sedette
accanto, sul tappeto. Mi accarezzò il viso, mi baciò le guance, più volte. E
mi strinse. Mi accorsi che piangevo perché lui mi pregò di non farlo.
“Non
puoi vivere senza me.”
“Fino
ad ora, credevo anche io tutto questo.” Sorrisi di nuovo. “Eppure il solo
pensare di liberarmi della tua presenza insulsa mi ha fatto sentire meglio.”
Sciolse
l’abbraccio e tremava. Fece per dire qualcosa ma fummo interrotti.
Bussarono.
Il
Fossile zoppicava di delusione e raggiunse con difficoltà la porta.
“Sei
tu.” Il suo volto era contratto in una smorfia di disgusto.
“Sempre allegro, eh, Fossile? Levati dai piedi, idiota.”
Subito
Saturno venne verso me, stringendomi. “Clizia, bellezza, mi sei mancata da
morire…”
Un abbraccio breve, il suo, ma vero e amichevole –non ci giurerei, però.
Il Fossile avrebbe riso della mia debolezza, ma in quel momento fortunatamente
non poteva vedermi. Per tutta risposta, cadde a terra. Malamente si alzò,
massaggiandosi le chiappe.
“Deficiente,
ti sei accorto d’avermi spinto?”
“Certo.” Rispose Saturno, placido. “Vorrei un buon tè caldo.”
Non avevo visto lo spintone.
Nel
frattempo, andai ad armeggiare con una padella sporca. Graffiata, era madida
d’olio. Cercai di lavarla con una spugnetta nuova e gialla e i movimenti
circolari su di essa mi alienarono. La lentezza dei miei gesti era esacerbante.
Restai ipnotizzata dal movimento delle mie mani, provando una tristezza
profondissima.
Vicino casa mia, c’era un negozio di casalinghi a buon mercato. Più tardi
sarei dovuta tornare a casa: avrei comprato una nuova padella. Fucsia.
Sentii in me una sottilissima falda di acquifera gioia.
Una salvezza inutile serpeggiava gelida nella mia schiena.
Senza
che mi fosse chiesto, riempii un bollitore con dell’acqua e prontamente lo
misi sul fuoco.
Aprendo la dispensa bianca, ravanai fra le spezie e le buste, estraendo a fatica
una scatola di latta.
Preparai il limone e lo zucchero e le tazze.
Il Fossile mi abbracciò da dietro, soffiando sul mio collo. Bevi questo tè
con noi e poi sarai libera.
Mi venne da vomitare.
Mi
faceva schifo il suo tocco. Mi furono palesi le angherie subite, per anni.
Ero
arrivata alla famosa goccia che fa traboccare il vaso. Credevo fosse una
leggenda metropolitana, tipo gli uomini capaci di gesti di bontà.
Invece la goccia esisteva. Esisteva veramente.
Mentre
pensavo alla goccia, il Fossile sciolse l’abbraccio, ma soffiava ancora.
Teneva fra le dita i filamenti del mio collo.
L’acqua bollì presto, perché nel pentolino ve n’era poca. Saturno stava
cantando e suonava la chitarra che sempre avevo visto appesa al muro. Strideva,
urlava e gorgheggiava, mentre il Fossile gli intimava di fermarsi.
“Canto
perché ti amo! Ed è la vita a ricordarmi delle gerbere dimenticate nel
lavello…”
Cantava
queste parole, mentre io invece ridevo e versavo nelle tazze il tè.
Il
Fossile si avvicinò e mi scottò con l’acqua calda: agguantò il bollitore e
mi versò addosso tutto il contenuto. Iniziai a piangere con tutte le mie forze
e il cane che stava fuori guaì disperato.
Non vedevo più nulla: sentivo solo Saturno.
L'acqua
bollente venne assorbita dalla pelle. Un dolore tremendo percorse ogni singola
parte di me.
“Cosa
cazzo hai fatto, bastardo! Vuoi ucciderla? L’hai fatto per tutti questi anni,
non ti basta?”
Alle
mie orecchie giunsero suoni di botte, calci e schiaffi, mentre il Fossile si
scusava con lui e non con me.
“Maledetto!
Maledetto schifoso! Devo chiamare un’ambulanza! Aiuto, aiuto! Cazzo, ti
ammazzo stavolta! Sei una carcassa di letame, ecco cosa sei!”
Saturno
compose un numero misterioso e il Fossile mi si fece vicino. Mi accarezzava la
testa.
Avevo gli occhi chiusi, con forza: li strizzavo. Le mie spalle erano tesissime e
avevo voglia di nascondermi in una stanza buia per gridare fino a lacerarmi le
corde vocali.
Di
colpo, aprii gli occhi. Non sentivo più le bruciature sul corpo.
Il Fossile non c’era più, ma solo Saturno che mi cantava una canzone dolce
dolce.
“Sei
una creatura piccola da proteggere…” Arpeggiò con le dita. “Togli questo
filo spinato che ti stringe il seno e andiamo a ballare.”
Il
filo spinato attorno al mio corpo mi avvinghiava, lasciando numerosissimi
graffi.
Qualche goccia di sangue giunse a terra formando lacrime e fiori.
Sapevo
di non poter togliere del tutto il filo, ma iniziai pian piano a sfilare gli
aculei conficcati nella carne.
Lo
guardai stanca e mi chiesi se dovesse evaporare da un momento all’altro.
Gli presi entrambe le mani e ballai mollemente, poggiando la guancia sulla sua
spalla.
Saturno cantava ancora. Era meraviglioso nell'intonare arie leggiadre, anche se
ignote.
Provai un senso di squisita pace. Il pizzicore degli spuntoni sul corpo, però,
mi ricordò d’improvviso che lungo sarebbe stato il cammino.
La
chitarra ci squadrò. Poi sorrise, con un accordo raffinato.
***
A
chiunque sia arrivato sin qui, il mio grazie sincero!
Buona
vita e buona strada...
Kuroi
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