La donna invisibile

di margheritanikolaevna
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EPILOGO
 
Elizabethaveva sempre avuto simpatia per Reese Hughes, eppure quel pomeriggio se avesse potuto farlo sparire d’un colpo con uno schioccar di dita l’avrebbe certamente fatto, senza rimorsi.
Infatti, dopo averle spiegato che Peter e Neal erano dovuti intervenire per aiutare la polizia a sventare una rapina in banca, l’aveva parcheggiata su una poltroncina nel proprio ufficio senza darle altre notizie, tutta sola a chiedersi cosa mai potessero avere a che fare suo marito e Neal con un rapinatore di banche.
Nella bella stanza luminosa tutto era in perfetto ordine e la segretaria di prima si era già affacciata almeno due volte per chiederle se poteva portarle un caffè, ma nonostante ciò Elizabeth si sentiva inquieta e smaniosa. 
Non avrebbe saputo dirlo con esattezza, ma avvertiva intorno a sé una calma insolita: era appena una sfumatura, eppure sentiva che quella era una calma anormale, che conteneva un sentore di morte. L’aria si era fatta immobile e stagnante, come se stesse per accadere qualcosa, ed era un’impressione così chiara da averne paura.
Come se non bastasse, il dolore al fianco anziché placarsi le pareva persino più intenso, tanto che stava cominciando seriamente a preoccuparsi che qualcosa nella gravidanza non andasse come doveva.
Perciò, quando la porta si spalancò con un rumore che riecheggiò come una fucilata nelle sue orecchie, balzò in piedi e non riuscì a trattenere un grido strozzato.
Ma prima che Hughes, precipitatosi nella stanza come una furia, riuscisse a spiegarle il motivo di tutta quell’agitazione, fu percorsa da un brivido che l’attraversò tutta come una spada gelata, davanti agli occhi le calò d’improvviso un velo oscuro, le gambe le si piegarono e scivolò sul pavimento priva di sensi.
 
***
 
Un istante. Un solo istante. La sessantacinquesima parte di uno schiocco di dita.
Una piccola, microscopica briciola di tempo, solo un’infinitesimale goccia nell’oceano delle nostre esistenze.
Per qualcuno tutti i fenomeni esistono in ciascuno degli istanti di una vita individuale, e perciò ogni istante contiene in sé un illimitato potenziale: in un singolo, infinitesimale, momento è contenuto ogni possibile sviluppo dell’esistenza di un uomo e tutti questi attimi ridottissimi fluiscono ininterrottamente dal passato, al presente, al futuro attraverso un tempo che non ha né inizio, né fine.
 
Per tutti gli altri, in fondo, cosa può mai significare un istante? Niente.
Le nostre giornate sono composte da un numero incalcolabile di queste minuscole particelle, alle quali di solito nessuno attribuisce un particolare valore: in alcune occasioni, invece, la distanza tra la vita e la morte può essere percorsa in un istante.
Un istante fu tutto ciò che Pamela Smith impiegò per capire cos’era accaduto e, accecata dalla rabbia, voltarsi verso il federale stringendo saldamente la pistola.
Nel medesimo istante Peter Burke le si scagliò contro, riuscendo a strapparle il telecomando e a farlo rotolare lontano sul pavimento ma perdendo, nel far questo, la propria arma che scivolò tra i piedi di Neal.
Un istante durò lo sguardo che il federale - da dietro l’arma che la donna gli puntava contro - rivolse al truffatore, il quale aveva recuperato la pistola levandola poi verso Pamela.
Uno sguardo che silenziosamente voleva significare: “Sparale. Sparale adesso!”.
Ma Neal esitò, immobile e come eternato dalla paura.
Esitò solo un istante prima di premere a sua volta il grilletto, ma fu un istante di troppo.
 
***
“È ancora in fibrillazione”.
La dottoressa Conrad solleva le piastre dal torace del paziente e volgendo il capo verso il collega dice: “Quanto tempo è passato?”.
L’altro leva lo sguardo per un attimo sul grande orologio che occupa la parete di fronte e risponde con voce spenta, già consapevole delle conseguenze di ciò che sta per dire: “Ventidue minuti…”.
La donna scuote il capo e sospira rumorosamente.
“Asistolia” conferma l’infermiera, china sul monitor.
“È inutile” esclama la dottoressa “Basta”.
A un tratto, abbandonata dalla speranza che l’aveva animata fino ad allora, pare tremendamente stanca.  
Si morde appena le labbra e, sfilandosi con un gesto che ormai è divenuto abitudine i guanti di lattice intrisi di sangue, guarda a sua volta il quadrante sul muro bianco e appone la sua personale lapide sull’esistenza di un uomo: “Ora del decesso: “19.06”.
 
***
 
Ce la farà. Ce la deve fare.
I pensieri di Elizabeth sono confusi - quando si è ripresa e ha saputo, di nuovo la vista le si è annebbiata e con essa il cervello - ma l’unico che conserva lucidità è questo: ce la farà, ce la deve fare.
Non sa con esattezza quanto tempo prezioso ha perduto rimanendo svenuta: persino guardare l’orologio richiede una calma che lei in quei momenti non possiede.
Eppure sa che ce la farà, perché lei sta andando in ospedale e corre anche se non dovrebbe, anche se le fitte sono diventate insopportabili, anche se il respiro le si spezza in gola e il cuore le schizza fuori dal petto.
Ce la farà perché lei arriverà in tempo per dirglielo, perché una volta che l’avrà saputo lui lotterà con ancora più forza.
Ce la deve fare perché dovrà essere accanto a lei quando il bambino nascerà.
L’atrio dell’ospedale è l’ultima tortura: è quasi arrivata.
E non importa se fa male, se la vista le si appanna, se il dolore ormai la piega in due e quasi le impedisce di camminare.
Non importa nemmeno se sente che adesso sta sanguinando.
Lui è più importante di tutto, anche della vita che è cresciuta dentro di lei e che forse le sta sfuggendo.
Nella nebbia confusa delle sua angoscia distingue appena le porte della sala operatoria.
Ma non importa, null’altro importa.
È arrivata.
 
FINE





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