O Captain, my Captain!
O Captain, my Captain!
Un rumore raschiante riempì le orecchie di Dean, come aria risucchiata in un tubo.
Strano paragone, davvero.
Non che potesse pretendere più di tanto, le sue poche sinapsi
rimaste intatte erano tutte occupate a processare l’idea
“oh, un uomo sconosciuto ti ha appena baciato alla francese e tu
hai le gambe che sembrano gelatina”.
Era una cosa da raccontare.
Tralasciando il fatto che, ehi, lui era Dean Winchester e non andava in
giro a baciare sconosciuti nei weekend, e tantomeno ne parlava.
Ed era di nuovo nella cabina blu. Davvero perfetto. Era stato rapito da un pazzo in una cabina blu che baciava alla francese.
No, non era la cabina che baciava alla francese, era il matto. Che oggettivamente non baciava nemmeno male.
Nel tempo che impiegò a formulare tutti questi pensieri
–deliri?- uno scossone fece tremare la cabina, facendo
incontrare il suo coccige con il pavimento.
Oggetti non meglio identificati iniziarono a rotolare per la stanza e
Dean fece appena in tempo ad aggrapparsi alla sottile balaustra
metallica.
Il Dottore girava intorno alla consolle tirando leve e premendo bottoni
colorati, si girò verso di lui e con un sorriso urlò
sopra il frastuono:«Scusa la turbolenza!»
Turbolenza, sempre meglio.
Turbolenza.
Stava volando?
Il sangue defluì istantaneamente dalla sua faccia, le ginocchia
già instabili lo fecero crollare a terra mentre solo le braccia
mantenevano la presa sul metallo, le scapole che premevano
dolorosamente conto il tubo.
L’uomo, sempre che di umano si trattasse, accorse accanto a lui e si sedette sui talloni.
«Dean? Dean Winchester!»
Lo scrollò violentemente per le spalle, i muscoli erano rigidi
come la pietra e le nocche erano sbiancate per la forza con cui le mani
erano attaccate alla balaustra.
Gli assestò uno schiaffo a mano aperta su una guancia, al quale Dean rispose istintivamente con un pugno.
«Ma sei fatto?! Ma che cazzo schiaffeggi così la gente?!»
«Chiedo venia, credevo avessi contratto la paralisi uraniana. Non
è che tenga particolarmente a vederti trasformato in granito
sbriciolato. L’unica soluzione era risvegliare le cellule
cerebrali prima che mutassero.»
Un taglio verticale gli attraversava le labbra dove il suo pugno le aveva lacerate.
Doveva far male.
Lui, infastidito dal sangue che gli era colato fino al mento ci passò il dorso della mano che si tinse di rosso.
Saggiò la ferita con la lingua, strizzando gli occhi come un bambino che assaggia un limone.
Forse avrebbe potuto sentirsi perfino un po’ in colpa. Solo un po’.
Bravo Dean. Coltiva la tua Sindrome di Stoccolma. Avanti così che vai bene.
Tanto per appesantirgli la coscienza, la sua voce interiore somigliava in maniera inquietante a quella di suo fratello.
Sammy sarebbe uscito di testa.
Già si immaginava la paternale “ecco cosa succede quando
cacciamo separati, quando imparerai a tenerti fuori da affari
più grossi di te” e via fino allo sfinimento, e lui
avrebbe urlato in risposta che tutta la loro vita era un circolo
infinito di impicciarsi in affari più grandi di loro.
Avrebbero tenuto il muso per un po’, e fatto pace con una birra e
una fetta di torta, come quando da bambini intrecciavano i mignoli
promettendo di non raccontare i misfatti dell’altro a papà.
Doveva tornare da lui, e in fretta anche.
L’altro era ancora seduto davanti a lui, con quella dannata testa di capelli da letto inclinata di lato.
Si tirò in piedi con un grugnito, rifiutando la mano che l’altro gli porgeva.
«Sto bene. Starei anche meglio se sapessi che diavolo sta succedendo.»
«Esci e giudica tu stesso» rispose quello con una faccia da schiaffi da primo premio.
Lo prendeva per il culo? L’aveva appena rapito e ora voleva farlo uscire?
E non dimentichiamo che aveva appena volato.
Era in una cabina volante più grande all’interno.
Si avvicinò cautamente alla porta, attendendo il manifestarsi di una qualche trappola.
Dean Winchester era avventato, non stupido.
Allungò un braccio verso la maniglia d’ottone…
Poi qualcuno bussò alla porta.
Tirò rapidamente indietro il
braccio come se il suono l’avesse scottato e si voltò
verso l’altro uomo che guardava l’entrata con espressione
sorpresa.
« Nessuno sa che sono qui, non è fisicamente e
temporalmente possibile che qualcuno in quest’anno sappia chi
sono. Non è possibile.»
Due colpi sordi si infransero di nuovo sulla superficie di legno, seguiti dalla voce di un uomo.
«Sono il lupo cattivo, aprimi cappuccetto in trench!»
Il Dottore si lanciò verso la porta, la spalancò e rimase
con le braccia spalancate come la grottesca imitazione di un crocifisso.
«Non mi inviti a entrare? Rischio di congelarmi le
estremità qui fuori, e mi servono. Se capisci cosa
intendo».
L’uomo non abbandonò la sua posa rigida rifiutando di far
scorgere a Dean, ancora accasciato sul pavimento, il proprietario di
quella voce ancora incorporea.
«Vuoi un abbraccio? Credevo di aver raggiunto la seconda base da un pezzo!»
C’era un ghigno implicito nel suono di quella voce che mandò un brivido giù per la schiena di Dean.
Ma dove cazzo mi sono andato a cacciare?
Il Dottore si spostò dall’uscio volgendo la schiena alla
corrente d’aria fredda che ancora entrava dalla porta spalancata
passandosi le mani tra i capelli
scuri, con l’espressione di un uomo che ha trovato un orso a
sonnecchiare sul parabrezza dell’auto. Dean si lasciò
sfuggire un sorriso leggero al paragone quantomeno bizzarro.
L’uomo apparve gradualmente come l’immagine di uno stivale
che colpiva il gradino di legno per far cadere a terra la poltiglia
attaccata sotto la suola, un ginocchio coperto da un pantalone di
taglio classico di stoffa blu navy e le falde di un cappotto del
medesimo colore.
Sulla soglia stava un uomo alto, con i capelli scuri. Sembrava uscito
da uno di quei film assolutamente angoscianti sulla seconda guerra
mondiale, le spalle larghe accentuate dall’imbottitura della
giacca e i piedi solidamente ancorati al terreno.
Un sorriso si aprì sul suo volto come un filo di perle che
spunti dall’orlo di un vestito, si avvicinò al Dottore con
tre rapide falcate.
«Mi sei mancato, Castiel»
Gli incorniciò il viso con le mani e le sue labbra avvolsero quelle dell’altro in un bacio lento.
Dean diede un colpo di tosse. La situazione aveva
dell’incredibile. E “incredibile” non era una parola
che usciva spesso dalla sua bocca.
Il tizio si voltò rapidamente e guardò a terra,
accorgendosi solo in quel momento del terzo incomodo nella stanza.
Navicella. Quel che diavolo era.
«Non mi avevi detto di avere già compagnia. Poco male, mi piace condividere.»
La figura del Dottore si parò di fronte a quella del cacciatore.
«Non è come pensi. È Dean Winchester, il cacciatore. Lui può aiutarci.»
Il viso dell’uomo si aprì in un altro sorriso.
«Piacere Dean Winchester. Sono il Capitano Jack Harkness, al tuo
servizio. E la mia era una proposta seria, anche se hai l’aria
del tipo possessivo.»
Dean si lasciò sfuggire un sospiro a metà tra lo stanco e il frustrato.
«Ancora non so in cosa devo aiutarvi. Ho capito che vi serve un
cacciatore ma sarebbe anche il cazzo di momento giusto per dirmi che
cazzo devo
fare, magari.»
L’espressone del capitano si indurì, la mascella
contratta gettava ombre sul suo viso, facendolo sembrare molto
più vecchio.
«Esci e giudica tu stesso.»
Il maggiore dei Winchester camminò spedito verso la porta ancora
aperta della cabina, deciso a mettere la parola “fine” a
tutta quella situazione assurda.
Il freddo e il vento tagliente gli morsero le guance.
Un sole rosso incendiava il cielo, tingendolo di colori che mai in vita
sua aveva visto in un tramonto. Le nuvole andavano dal porpora al color
ruggine, passando per un giallo acceso e quasi malato che feriva gli
occhi.
Il Dottore –o Castiel?- lo affiancò, uno sguardo grave ad
intristirgli gli occhi blu che avevano preso riflessi innaturali sotto
la luce di quel sole che non dava il minimo calore, che non portava
conforto alle membra già intirizzite dal gelo.
«Come mai nevica, se c’è il sole?» chiese Dean con sincero stupore.
L’altro si voltò lentamente verso di lui.
«Questa non è neve, Dean Winchester. È cenere.»
NdA:
Zan zan.
Vi devo delle scuse. Sono quasi tre
mesi che non aggiorno assolutamente nulla. E non è “colpa
dell’estate”, perché non ho combinato assolutamente
un cavolo, se escludiamo le due settimane di borsa di studio che mi
hanno dato a Dublino per studiare giornalismo, ma vabbè.
Detta proprio terra terra
m’è presa malissimo, sono andata in depressione, delusione
generale rispetto alla ma vita miseranda, scarsa fiducia nelle mie
capacità di “scrittrice” e via dicendo.
Il mio problema principale, dal
quale mi riservo di mettervi in guardia per il futuro, è che io
non reputo di saper scrivere. Saper scrivere immagino che preveda una
qualche sorta di pianificazione di quel che finirà sul foglio,
sia esso elettronico o di cara vecchia cellulosa. Scrivo perché
mi piace, scrivo per sbrogliare quel gomitolo di lana mohair che sono
le mie idee bislacche riguardo a qualunque cosa mi piaccia.
Che poi a voi piaccia quello che
scrivo è un’altra cosa che non smette di stupirmi e
sconvolgermi, e per cui non smetterò mai di ringraziarvi. Ognuno
di voi per me ha un’importanza che nemmeno immaginate.
Quindi grazie, scusa e ti amo, chiunque tu sia.
Caso mai vi venisse voglia di
scrivere qualcosa, una recensione, un consiglio, un ma và a
morì ammazzata io sono qui che aspetto fiduciosa.
Un bacio,
Lycoris.
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