L'incidente

di LawrenceTwosomeTime
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André non credeva nel destino.
Le cose succedono perché devono succedere, diceva sempre. Il fato non fa distinzione tra giusto e sbagliato, buono e cattivo: non c’è un orientamento morale, non ci sono appigli a cui aggrapparsi.
Non c’è un senso.
E, proprio come afferma il Koeleth: “Tutto è vanità”. Tutto è vano.

André camminava in quella fredda sera di ottobre tenendo in mano il sacchetto dei kebab.
La cena per lui e mamma.
“Vengo in pace, porto il kebab”
Tanta carne, tanta salsa piccante, come piaceva a lui.

Era elegante, vestito di varie sfumature di nero, per il semplice gusto di esserlo, e si fondeva con il cielo come un serpente si mimetizza nella sua alcova.

Aggiungendo due dita, togliendo due dita, giocherellando con i bordi di plastica, canticchiando un madrigale, si accorse con un leggero ritardo che una BMW argentata sconfinava con prepotenza sul marciapiede dietro di lui.
Quando udì il rombo dei pneumatici ebbe un sobbalzo, si girò e vide che alla guida c’era una ragazzina di non più di sedici anni; la madre sedeva sul sedile del passeggero, terrorizzata, e la sua testa si riempì di domande.
“Perché quella ragazzina sta guidando? Perché mi vengono dietro? Dove stanno andando?”
Poi notò l’insegna verde di una farmacia e tirò un sospiro di sollievo. Ancora due passi e l’auto si fermò.

Chissà come mai pensava sempre al peggio. Che qualcuno volesse rapirlo, per esempio. Si, riteneva di essere interessante a tal punto.

“Stavolta c’è mancato poco”, disse all’indirizzo della signora mentre la figlia spalancava la portiera.
“Ci scusi, sono mortificata. Mia madre aveva finito le pastiglie e…”
Lui alzò le mani in segno di intesa e riprese il cammino. Era sensibile ai problemi delle mamme.

Pochi metri più avanti stava già pensando a come trasformare l’episodio in letteratura.
Per quel giorno aveva avuto la sua dose di imprevisti, si sentiva al sicuro. Come se il fato tenesse il conto.

Attraversò sulle strisce pedonali e una macchina schizzò fuori dalla curva e lui scattò in avanti d’istinto.
Si sorprese della prontezza della sua reazione; aveva immaginato tante volte un incidente automobilistico, e in tutte le sue simulazioni non riusciva mai a trovare la forza di sottrarvisi.
Poi avvertì lo spettro completo del dolore irradiarsi dalla base del femore sinistro, vide molte luci e il mondo roteò per un attimo e la testa era sempre più vicina al suolo, scorse per un attimo la minuscola topografia della pavimentazione stradale, e infine…



Un bagliore bianco. Un rumore costante, meccanico.
Una sofferenza vuota, nascosta poco al di sopra degli occhi.
André non credeva in Dio. Credeva, invece, all’esistenza di una cosa chiamata casualità.
Per quello che gli importava, potevano darle il nome che volevano: Caso, Seth, Jawhe…
Dio e casualità sono la stessa cosa. Dio non gioca a dadi con le vite degli uomini. Dio è il dado.
Come la natura stessa: non gliene frega niente di noi, ci mette al mondo e basta. Leopardi aveva trascorso tutta la vita a prendersela con il vento.

Riusciva a girare il collo.
Questo gli permise di accorgersi della presenza di sua madre, seduta con un libro in mano, che lo fissava.
Provò a parlare. Ne uscì uno scampolo di frase che assomigliava a una preghiera.
“André… Riesci a sentirmi?”
André annuì debolmente.
“Ome…no…esso?”
“Cosa?”
“Come sono messo?”
Lei esitò.
“È meglio… è meglio se ne parliamo più avanti. Ti sei appena svegliato”
“Uanto…o…Quanto ho dormito?”
“Tre giorni, più o meno”
Una pausa angosciata.
“Le mie mani… ho ancora le mani?”
Lei sorrise.
“Si, le hai ancora”
“Funzionano? Posso ancora disegnare?”
“Il dottore dice che non hanno riportato nessuna lesione”
“Bene… non so proprio che cosa avrei fatto… Senza la possibilità di menarmelo, per iscritto”
Sua madre tossicchiò e chiuse il libro.
“Devi riposare. Adesso dormi”

Lui non ebbe bisogno di sforzarsi.



Un altro colpo di tosse.
Sempre meglio che essere svegliati da quell’odioso bip, si disse André.
Aprì gli occhi. Si sentiva più forte, solo di poco.

Davanti a lui sostava una ragazza simile a un angelo, stando alla sua personale visione degli angeli.
“Oh, allora sei sveglio. Ciao”
“Ci… ciao”
“Mi chiamo Tina”
André non seppe cosa dire.
“Sono quella… sono quella che ti ha investito”
Passarono alcuni secondi.
Poi André scoppiò a ridere, ma dovette smettere subito perché gli doleva il fianco sinistro.
La ragazza parve sollevata.
“Non… non sei arrabbiato?”
“Hah, è buffo”, disse lui, “tutte le volte che mi sono immaginato di finire sotto a una macchina, ho sempre pensato che l’episodio si sarebbe concluso con me che rompevo le ossa al responsabile”
“Ma ora mi rendo conto che non ho mai provato rabbia… Quando ho visto i fari della tua automobile, ho avuto paura; poi ho provato un forte dolore; poi era tutto annebbiato, e molto confuso; poi c’è stato il sollievo di essere ancora vivo; e poi ancora, la curiosità di sapere come sarebbe andata a finire; ah, e adesso c’è anche la sorpresa…”
André deglutì. Tina si affrettò a prendere il bicchiere dal mobiletto e vi versò dell’acqua. Gli diede da bere, lentamente, con cautela.
“La sorpresa, dicevo… Di scoprire che non sono la vittima di un fenomeno naturale accidentale. Insomma, sarebbe tremendo finire travolti da una valanga e non avere nessuno con cui prendersela. Almeno, adesso so che la colpa è di qualcuno, e che quel qualcuno se ne vergogna, se ne vergogna un sacco, a giudicare dalla tua faccia”
Tina tirò su col naso.
“Parli un bel po’, per essere sotto l’effetto della morfina”
“Al momento mi sento fuori dal mio corpo. Sto ritardando il giorno in cui dovrò rientrarci, perché so che non sarà piacevole”

E infine, per una sorta di tacito accordo cementato da un indispensabile desiderio di raccoglimento, Tina e André condivisero il silenzio, come si condivide un buon pasto.

“Ehi”
“Mh?”
“André. Ti chiami André, giusto? Ti eri appisolato”
Lui tentò di stropicciarsi gli occhi, poi si ricordò che era semiparalizzato.
Pensò di chiedere a Tina se poteva stropicciarglieli al posto suo, poi cambiò idea.
“C’era qualcun altro… in macchina, con te?”
“No”
“Bene. Io, sai, non sono un misogino… ma a volte le donne, quando guidano, sanno essere davvero pericolose, parola mia”
“Lascio correre solo perché sei ridotto in questo stato”
“E com’è… che sarei ridotto?”
Tina si morse le labbra.

“Stavo andando dal mio fidanzato”
“Ah, ecco perché correvi in quel modo”
“Si, beh, ero in ritardo. Lui… lui doveva presentarmi ai suoi, ci tenevo a fare bella figura ma avevo staccato tardi al lavoro, e così…”
André sospirò.
“Alla fine, siamo tutti vittime del caos. Non c’è un intelligenza pensante, non c’è una motivazione per il male”
“È colpa della morfina, vero?”
“E piantala con questa morfina, Cristo!”
“Vedila pure così, se ti va, ma ricordati che sei stato fortunato. La paura ti ha spinto ad agire, hai evitato il peggio”
“Io non la chiamo fortuna. Credo che non conoscere la morte ci libererebbe dalla tirannia della vita”
“Certo, e la gente morirebbe tutti i giorni nei modi più stupidi”
“Che importa? Tanto succede lo stesso, e il mondo è già abbastanza affollato… di auto e di automobilisti, tanto per cominciare”
“Senti, non devi dare la colpa alle auto, alla morte o a qualunque altra cosa. La colpa è mia”
André la guardò divertito.
“Hai mai visto un animale che va in crisi di panico perché ha paura della morte?”
“Che vuoi che ne sappia? Potrebbe succedere, non si può mai dire”
“Oh no, mia cara. Non conoscere la morte è un po’ come essere immortali. Scampare alla morte significa solo rafforzare l’idea della sua potestà”

Tina aveva gli occhi lucidi, e non sapeva nemmeno lei il perché. Per i discorsi di André, per il modo in cui l’aveva ridotto… Per egoismo, magari.

Si sporse verso di lui e gli prese la testa tra le mani. Lo baciò in fronte.
“Scusa, scusa, scusa…”

Lui ridacchiò.
“In questo sono d’accordo con te. Una manciata d’ipocrisia… ti scalda il cuore più di quanto non facciano mille verità”
Tina piangeva senza singhiozzare.
“Adesso vattene. Voglio dormire”



E dormì, dormì, dormì per un lunghissimo tempo.
Continuò a vedere Tina, e sua madre, e qualche amico, e piano piano ricominciò a mangiare, iniziò il percorso di riabilitazione, e i mesi passarono, e le idee non se ne andavano, ma andava bene così; non era triste.



E poi, un giorno, era lì.

Zoppicava a ridosso del fiume, chiacchierando con Tina, e il suo fidanzato, che era ancora il suo fidanzato, ironizzando sulle dimensioni del pene di lui, e ipotizzando che potesse essere stata la causa della distrazione di Tina, e non c’erano tensioni, ma nemmeno una vera amicizia, e André si sentiva più che bene.
E allora smise di parlare. Il rumore di un autobus che si avvicinava cominciò a crescere in lontananza.
Smise di sorridere. In quel momento si sentiva come la natura che l’aveva creato, come il caso: capace di qualunque cosa, assolutamente imprevedibile, in pace con sé stesso. Indifferente.

Attraversò la strada senza udire i richiami di lei, o le grida di lui.
Con la coda dell’occhio, vedeva il muso dell’autobus che tentava di frenare a pochi centimetri dalla sua faccia.

Quali che fossero state le conseguenze, andava bene. Andava bene in ogni caso.




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