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Disclaimer: Questa storia è
stata scritta per puro diletto
personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui
descritto e i personaggi rappresentati sono copyright
dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la
citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite
permesso scritto.
Requiesco
Di quei mesi che passai con Addakra ricordo ogni singolo momento.
Non perchè sia stato piacevole o leggero, ma perchè ogni giorno era un nuovo ago conficcato nella carne.
Mi ero ulcerata le mani e l'animo nei suoi addestramenti infernali, impugnando armi per cui non avevo la muscolatura adatta.
La prima volta che avevo impugnato una spada, mi ero piegata sotto il suo peso, rovinando al suolo.
Addakra mi aveva fissato con un misto di compatimento e rabbia, strattonandomi per l'avambraccio e rialzandomi bruscamente.
"Primo insegnamento: resistere al dolore e alla sua naturale conseguenza, Dyen: la paura."
Avevo annuito mite, tremando al solo pensiero di essere rispedita in quel nulla che era diventato il mio passato.
Ma Addakra non lo fece mai.
Addakra era roteata su se stessa,
flettendosi sul ginocchio sinistro e tendendo l'altra gamba, privandomi
del piede d'appoggio e facendomi rovinare al suolo.
Con un colpo di reni, mi ero rialzata,
puntellando la suola degli stivali nella rena e gettandole una manciata
di terra negli occhi.
Rapida, la ferae si era scostata, inclinando la lama verso il mio polpaccio.
Il taglio fu brusco e rovente, un scia di sangue che si disegnava nell'aere.
Strinsi i denti, ma abbassai la guardia, permettendole di colpirmi ancora.
"Troppo lenta." mi aveva ammonito quando il colpo era andato a segno.
"Troppo debole." mi aveva berciato all'ennesima stoccata sbagliata.
"Troppo molle!" aveva poi gridato
quando la punta azzimata della sua lama si era fermata a pochi
centimetri dalla mia gola. "Sei morta." era stata la macabra
conclusione, un sorriso che pareva l'incisione di un coltello su quel
viso impassibile e pallido.
Avevo assunto un cipiglio oltraggiato
e, scostandomi dalla traiettoria del gladio, avevo poi battuto il palmo
della mano sul suo gomito, facendola barcollare.
Determinata a non farmi umiliare, per
l'ennesima volta, mi ero poi buttata sull'arma poco lontana, tentando
di recuperarla e fronteggiando quella furia che era diventata Addakra.
Intercettai un colpo, poi un altro
ancora, sempre più rapidamente, fino a quando non mi si
strapparono i muscoli delle braccia.
Addakra non mostrava alcuna fatica,
ruotando il gladio ora in aria, ora all'altezza del suo corpo, fendendo
il mio orgoglio e la mia speranza.
Con un ultimo affondo, la ferae mi
mandò a terra, un piede sul mio petto e la daga immobile,
cristallizzata come un puntolino baluginante in mezzo agli occhi: i
miei.
"Hai perso perché non hai
ancora capito la vera essenza di un combattimento, Dyen."
mormorò scostandosi da me e rinfoderando la spada.
Ansimante, la guardai perplessa, rialzandomi indolenzita e accaldata.
"E sarebbe?" avevo domandato tendendo
una mano verso la borraccia d'acqua "Scansare, colpire, uccidere.
Scansare, colpire, parare, uccidere. Non credo di sbagliarmi di molto."
Un sorriso spento le aveva adornato le labbra, la pupilla ungulata ghermire l'orizzonte e i suoi nembi violacei e purpurei.
"La guerra, quella vera, viene da noi
stessi, Dyen." aveva riportato lo sguardo in tralice su di me " Viene
da quell'ammasso di cavità che chiamiamo cuore. Devi accettare
la sua inutilità. Devi capire come esso sia il nemico peggiore."
"Non credo di... capirti." bisbigliai fissandola
I denti le si erano scoperti nell'eburneo di un ghigno che possedeva lo stessa vacuità dei lupi.
"Distruggilo, Dyen. Distruggilo.
Così che esso non possa ferirti più. " l'iride cremisi si
era illuminata di un bagliore allucinato e cupo " Perché ogni
battaglia è già persa se è l'acciaio più
affilato a consumarti le carni. E non c'è acciaio più
letale di quello dei sentimenti."
Non avevamo nulla in comune io e Addakra, tranne, forse, una rara forma di solitudine.
La mia bellezza pareva incisa nell'imperfezione, nell'asimmetria di un
paio d'occhi troppo grandi e un corpo che mi faceva assomigliare a un
uccellino tanto era piccolo, acerbo.
Avevo i colori tenui del popolo del Sud, pelle rosata e il grano nelle chiome.
In silenzio, avresti detto che ero gradevole, che incarnavo la
quintessenza della madre e della sposa, sorriso timido e animo quieto.
Lei no.
Si muoveva con la grazia e la ferocia di un predatore, la sua
femminilità evidente, marcata, fasciata nel cuoio dell'armatura.
Addakra possedeva i capelli di un corvo e gli occhi maledetti delle ferae.
Quando le avevo chiesto di quelle pupille ungulate, mi aveva sorriso,
motteggiando gli scritti dei libri della capitale caduta, Albir.
"I ferae sono creature maledette. Maledetto è il seme e
maledetto è l'utero indegno che gli ha dato i natali. Camminano
su questa terra solo per dispensare morte e sciagura. Guardatevi, o
cittadini, dai ferae. Solo un altro ferae può ucciderli, sia
esso di carne o di spirito. "
"Sono solo sciocchezze." avevo replicato alzando una mano al cielo "nessun accademico vi crederebbe mai."
Il suo sorriso si era ampliato, diventando una smorfia.
"Eppure, Dyen, a salvarmi dal rogo certo fu solo il denaro e il potere
dei miei genitori. Il popolo incolpava me per ogni cosa: dalla cattiva
annata alla mancanza di pioggia. Nei miei occhi, vedevano l'ombra di un
male che li ha annientati solo quattro lustri dopo. E io non ho pianto."
"Neppure per tua madre e tuo padre?"
"Per loro sì. Solo per loro. Gli altri potevano bellamente crepare."
Non era mai stata brava come le sue coetanee nelle questioni amorose
Addakra e forse fu proprio per questo che le sue voglie vennero
catturate da un lupo.
Le altre cercavano un insieme di muscoli e ossa che, alla fine, erano
solo ragazzini troppo cresciuti, a cui l'adolescenza aveva giocato il
brutto tiro di fargli crescere la barba sul bel visetto glabro,
regalandogli l'onere di essere definiti uomini.
Mentre desideravano il principe dai biondi crini e l'occhio azzurro un
po' vacuo, simile a un cielo annacquato, Addakra cercava una belva che
le facesse la guerra e la mordesse fino a ricordarle che sì, il
suo sangue era uguale a quello degli altri.
A dirla tutta, la verità, nemmeno le serviva un cavaliere, spada in pugno e sorriso da ebete.
Le bastava imbracciare l'arco di suo padre e guerreggiare a un cielo
plumbeo, grigio e sporco come i suoi sogni, per assomigliare più
a una fiera incisa nella notte che a quella cretina della sua balia.
"Le brave nobildonne non vengono istruite alle armi e neppure indossano le brache come un contadino qualunque!" l'ammoniva Taidare puntandole il dito grassoccio contro "E
soprattutto, tengono a freno la lingua! Non si permettono di rispondere
con tanta maleducazione al figlio del Signore di Herstain! Bambina mia,
poteva essere la tua occasione."
"La mia occasione, certo. Per essere
sgozzata come un maiale e poi bruciare sul più grande rogo a cui
tutta Umenarn avesse mai avuto il privilegio di assistere ." mi confessò di aver pensato Addakra, sul fondo della sua orbita un livore mai attenuato veramente.
Non la volevano, lo sapeva bene.
In quella pupilla ungulata con cui ghermiva il mondo vi era il riflesso
di un mostro da denigrare e uccidere, cancellando l'onta d'esser figli
dello stessa città.
Vi era il bagliore del sangue sporco che l'aveva generata, lo stigma della punizione degli angeli.
Poco importava che sua madre fosse la donna più colta
dell'intera regione e che suo padre avesse difeso le loro mura
più volte di quante avesse mai abbracciato sua figlia.
Nulla interessava che gli angeli fossero solo dei bastardi egoisti, le
cui piume bianche parevano quasi nere dal sangue di cui erano intrise.
Era una bestia, un demonio.
Era una donna, una ferae.
Sterile per antonomasia, nel corpo come nell'anima, pareva quasi un cancro.
E andava estirpata.
Era una femmina che gridava il suo rancore al mondo, intossicandosi
poco a poco, infettandosi e mostrando, orgogliosa, il risultato di
tutto quell'odio.
Non temeva nulla, Addakra, perché le avevano già tolto tutto.
Faceva bandiera del suo veleno, si vantava della sua ferocia.
La verità è che non poteva lasciar andare nessuno di quei
sentimenti: senza di essi, non avrebbe più saputo chi essere.
Non poteva tornare indietro e non voleva andare avanti, Addakra, e quindi si aggrappava al presente, senza mai mutare.
Come i morti.
Uno degli ultimi mesi del mio addestramento lo passammo a Shunal, una cittadina rurale a sud di Rathos.
Per i primi sette, c'eravamo avventurate nei posti più disparati
di Matarisvan, sfiorandone quasi la catena montuosa, Kandris.
Le mie braccia si erano rafforzate e così pure le mie gambe.
Che fosse sotto la pioggia oppure nella foschia più compatta, ad Addakra non interessava: mi faceva allenare comunque.
Avevo imparato a caricare e a colpire con una balestra, a lanciare i pugnali e a costruire una granata.
Avevo imparato a cacciare, a combattere, a piegare il lucido metallo
che era la mia mente alla volontà assassina della guerra.
Nel buio, avevamo massacrato più di qualche decina di demoni, il suo secondo insegnamento forse il più importante.
"Siamo soli, Dyen. Non contare su di me o su nessun altro in battaglia.
Io sono solo un fenomeno passeggero. I cacciatori sono animali solitari
e così devono rimanere. Non possono avere il fardello di una
compagnia, oppure preoccuparsi per la schiena di un altro. Se crepano,
vuol dire che non erano poi così bravi."
All'epoca, non potevo sapere quanto rimorso ci fosse in quelle parole.
Non potevo immaginare quanto incisa nella pelle fosse quell'esperienza.
Non potevo sapere la colpa che portava nel cuore, che la stava smembrando un pezzetto alla volta, giorno per giorno.
A ripensarci adesso, sembrava quasi inevitabile.
Addakra era la Morte, senza corona e senza scettro, e io non potevo essere altro che il suo opposto.
Me lo ricordava in ogni momento, in ogni mia debolezza, in ogni mio errore: che, però, significavano che vivevo ancora.
Chi appartiene ormai al mondo dei morti non ha più questo lusso.
Vaga sulla terra senza veramente sentirla, asciuga le proprie lacrime senza veramente piangerle.
E' già polvere e alla polvere brama di tornare.
"Sembra un buon posto dove rimanere per un po'." avevo mormorato speranzosa.
Addakra aveva annuito, individuando l'unica locanda di Shunal ed entrandoci con passo felpato.
Guardò gli astanti con la solita espressione di elegante
noncuranza, rivolgendosi a un ragazzo che correva da un tavolo
all'altro, i capelli rossi spettinati e il viso accaldato.
"Ehi!" berciò al suo indirizzo "Tu." disse alzando un dito e indicandoci "Ci serve una camera, per almeno un mese."
Il ragazzo si era fermato sorpreso, grattandosi la nuca.
Stava per replicare quando una voce femminile, un po' grossa, lo sovrastò:
"Lui è Joric, il cuoco e anche mio figlio." Addakra si
voltò verso una donna corpulenta che si puliva le mani con uno
strofinaccio "Io gestisco la locanda. Ditemi, brennin."
"Ci serve una camera, doppia, letti separati. Vitto e alloggio pagati
in anticipo..." sciorinò lanciando dieci monete d'oro sul
bancone "E nessun disturbo."
La donna scrutò il suo abbigliamento, le armi che portava appese
alla schiena, il cappuccio ancora alzato e la posa militare.
"Non abbiamo mai avuto demoni, qui."
"Fortuna." scandì tetra Addakra "Mi serve solo una camera."
" È tua figlia?" domandò la donna indicando con il mento verso di me.
Un suono raggelante ghermì la stanza, schietto e durissimo: una risata.
"No." replicò gelida "Sono un cacciatore di demoni. Far nascere
un figlio è un puro atto di crudeltà in un mondo come
questo."
Sembrava stesse emettendo una condanna.
La donna si mosse inquieta, porgendole poi una chiave e presentandosi:
"Mi chiamo Asuli e sono al vostro servizio. Per qualsiasi problema, non esitate a chiamare me oppure Joric."
"Sarò fatto." esalò a denti stretti Addakra prima di svoltare l'angolo e iniziare a salire le scale.
Mi guardò in tralice.
"Hai deciso di rimanere ferma lì, Dyen?"
"Uh... no, no!" risposi scuotendo le mani "arrivo!"
Gettai un'ultima occhiata a Joric, scoprendo, imbarazzata, che mi stava fissando a sua volta.
Battei in una veloce ritirata, lasciandomi dietro il sorriso di un ragazzo dai colori dell'autunno, arrossendo.
Patetica, entrai in camera e mi lascia scivolare sulla sedia,
allungando le braccia sul tavolo e guardando Addakra sistemare le
sacche.
"Addakra?"
Ricevetti solo un grugnito scocciato come risposta.
"Credo di essermi innamorata."
Nota dell'autrice.
Ferae: in latino significa "bestia,
animale." E' stato usato al nominativo plurale, per indicare una genia
intere di creature caratterizzate dalla pupilla ungulata da rettile.
Nella credenza popolare di Matarisvan sono ritenute creature malefiche
e portatrici di sventura, dato che possiedono una caratteristica
demoniaca.
Bronnen (brennin al plurale): significa "sopravvissuto"
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