Penultimo capitolo
Penultimo capitolo. La mia testa sta per esplodere
sapete...
XI.
[Copenaghen; Ventuno Novembre 2006, 17.58]
Il tempo è sempre lo stesso in
ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna
di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento
proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un
unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era un pomeriggio
di fine Novembre che l’autunno dipingeva di un’oscurità prematura, avvolgendolo
del rosso, del rosa, del giallo e dell’ocra di una tramonto infuocato sul Mare
del Nord.
Sedendosi sulla panchina e
lasciandosi andare alla vista aperta sul canale di Nyhavn, Eike guardò
distrattamente l’orologio. Erano le cinque e cinquantotto minuti appena, e
quelli erano gli ultimi secondi di luce di una giornata come tante altre.
Decise di rimanere su quella
panchina, davanti a quel panorama, anche se non si sentiva più stanca, e di
attendere nel suo posto ventoso e freddo un crepuscolo che sarebbe presto
arrivato. Non lo voleva davvero. Desiderava il giorno perpetuo. Per
quanto si sentisse romantica e per quanto, in certi versi, amasse il tramonto e
la notte più di altri momenti della giornata, non poteva non constatare che
Nyhavn raggiungesse la sua bellezza più grande nello splendore fulgido del sole,
specialmente durante quei giorni rannuvolati, quando la luce filtrava lievemente
scurita da una patina di grigiore evanescente – non del blu straordinario che si
può ammirare nei cieli del sud, sopra i mari caldi, ma del blu cangiante,
sfumato di malinconia che dipingeva i cieli sopra gli Oceani. - Questo colore
mesto, opaco, - Pensava lei. – E’ più vivo sulla mia terra che un cielo turchino
sul Mediterraneo. È come se lì fosse tutto secco, tutto prosciugato da un nitore
abbacinante, mentre il nostro cielo Scandinavo, sfumato dalla pioggia, pulisce
ogni cosa che tocca e regala al suo mondo uno splendore ed una riverberanza
sconosciuti alle coste calde. –
In un certo senso era vero.
Della sua Copenaghen, Friederike amava soprattutto i colori vivissimi. Era come
se il cielo coperto e burrascoso e le piogge frequenti spazzassero via la
polvere e la patina di offuscamento che a volte si depositava sulle cose. Non
solo il cielo era più vivido. Le case erano più vivide, i parchi erano più
vividi, le persone erano più vivide con quei capelli biondi e quegli occhi
azzurrissimi, e una pelle tanto rosea e fresca.
Tutto ciò impressionava molto
la sua fantasia sfrenata. Quelle stesse tinte penetravano nella sua mente e vi
rimanevano, diventando ricettacolo dei momenti della memoria. Eike collegava
molte sensazioni e molti ricordi alle percezioni esterne, specialmente i colori
così forti e luminosi della sua Danimarca. Non poteva non pensare all’azzurro
sfocato senza essere colta da brividi di freddo, o al bianco totale senza
sentire dentro di sé una sorta di perdita ed una vacuità misteriosa.
Per questo Nyhavn era così
bella, splendida, scintillante nella sua testa – perché era magnificamente
colorata. Ognuna delle facciate di quelle case di legno particolari e storiche,
coi loro gialli, coi loro rossi, coi loro blu, coi loro verdi, le risvegliava
una sensazione speciale, un senso caratteristico dentro il quale lei poteva
perdersi con una facilità estrema.
Certe volte si fermava sola per
quella strada affollata. Mille persone le scivolavano accanto senza curarsi
della sua figura fragile immersa in contemplazioni profondissime. Le
transitavano vicino e se ne andavano via senza disturbarla. Li amava per questo.
Per la loro discrezione. Per la loro svogliatezza. Per il modo indifferente in
cui si allontanavano e la lasciavano sola coi colori del mondo. Perché
nonostante tutto Eike pensava fosse indispensabile, almeno una volta al giorno,
ritagliarsi un momento di assoluta solitudine, di inesprimibile autarchia, e con
questo vago distacco osservare al di fuori per riscoprirsi un po’ dentro.
Allora poteva fermarsi lì, su
quella panchina, su quella strada, e credere di essere sola in un universo
alternativo dominato da giochi di luce. Poteva guardarsi intorno e ricordarsi di
quando era bambina, o immaginare del suo futuro, o semplicemente riflettere sul
presente, nell’astrazione dolcissima dei sogni e delle aspettative ancora piene
di fiducia.
Tutto questo, effettivamente,
andava compiuto alla luce del sole. Nyhavn di notte era molto bella, era
splendida, ma perdeva la veemenza magica insita nella sua luce fantasmagorica.
Quando i lampioni si accendevano, si spegneva l’immaginazione di Eike. Allora
lei prendeva le sue cose e si alzava distrattamente per tornare nella sua
casetta tutta variopinta.
Per il momento rimaneva lì, sul
limitare del giorno, intenta a godersi ogni attimo di quel fulgore in declino.
Lasciava correre i suoi pensieri senza nessun freno e senza nessuna imposizione.
Voleva solo respirare l’aria fredda.
Eike si sentiva decisamente
bene. Quel minuto che si concedeva di tanto in tanto era come una zona
immacolata della sua vita che, nonostante tutti i dolori, tutte le frustrazioni,
tutta la felicità, preservava intatta la sua straordinaria, quieta serenità. Ed
era così anche quella volta, in quell’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di
Novembre, che con la sua solitaria luminosità rischiarava, ancora per poco, il
canale macchiato di mille colori indelebili.
[Contemplazione]
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Non so se avete
presente Nyhaven. E' la via centrale di Copenhagen attraversata da un canale, e
tutta colorata. Mi ha sempre affascinata...
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