The Nightwalker - Il Camminatore

di LawrenceTwosomeTime
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Io e lei camminavamo per le vie di questa grande città di cemento.

Asfalto e catrame impilati dappertutto a formare falsi monoliti; vasche circolari, anelli di muschio. La spiaggia occhieggiava tra gli spazi bianchi come un desiderio languido e mai soddisfatto.
Non vedevamo il cielo, eppure c’era tanta luce, e respiravamo il mare. Avanti e indietro, come un valzer. Come…

“Sei più pieno dall’ultima volta che ci siamo visti”
“’Pieno’?”
“Si, più cicciottello. Non stai male”
“Tu invece sei bella da star male, niente di nuovo. Dovrei essermi abituato, eppure…”
“Ma smettila. Sei circondato di belle donne, solo che porti il paraocchi”
“E quel paraocchi porta il tuo nome. Non sto cercando di ottenere qualcosa, ti adoro e basta. Almeno questo mi è concesso?”
“Can’t buy me love”
“Ah ah”

Le vie si fagocitano a vicenda, le discese convergono e finiscono in buchi di schegge, come ossa rotte; resti di persone spezzate arrancano simili a ombre di porfido.

“E tua figlia come sta?”
“Non fingere che t’importi qualcosa”
“È sangue del tuo sangue. Ovvio che m’importa di lei”
“Sta bene. Gioca, mangia e ride. Dorme poco. E noi anche”
“Lui ha sempre il suo lavoro?”
“Si, non si lamenta”
“E tu? Sei un’insegnante, ormai”
“Oh, dai! ‘Insegnante’ suona così freddo. Non si può spiegare a parole. Sono solo gesti e movimenti, in fondo. Per preparare una coreografia di dieci minuti occorrono mesi. Ma quando finalmente la porti a termine, è…”
“È come la stop motion!”
“Che cos’è?”
“Quando fotografi i pupazzetti una posa per volta e poi trasformi la sequenza in un’animazione”
“Ah, si! Ora ricordo. Mi piaceva tanto quel film di Tim Burton”
“A dire il vero lo girò Henry Selick, anche se molti ne attribuiscono la paternità a Burton, che ha scritto la storia originale e si è occupato del character design…”
“Davvero? Che forte! Ogni volta che ci vediamo mi racconti un sacco di cose interessanti!”
“Dici sul serio?”
“Certo!”
“Ah, se solo fosse vero…”
“Cosa?”
“Questo. Tutto… questo”

Il vapore che sale dai tombini si tinge di nero, le strade sono acciambellate come strisce di liquirizia. Grigio setoso, cielo di zolfo. Una goccia per volta, le pozzanghere s’incollano alle nuvole.

“La nostra conversazione…”
Lei mi poggia una mano sulla spalla e mi bacia poco sopra l’occhio destro.

“Il fatto che ci siamo incontrati e abbiamo parlato, anche se per poco. Abbiamo approfondito, ma pur sempre di poco, la reciproca conoscenza. E io sono stato bene nel vederti. Se solo fosse vero”
“Io sono qui. Cosa c’è di falso?”
“Non ci siamo mai visti. Sono più di tre anni che non ci vediamo. Questo è solo un sogno. E sta per finire. Non ci siamo mai visti”
“Beh, ma… anche se si tratta solo di un sogno… è un po’ come se ci fossimo visti”
“No, non è la stessa cosa. Tu non sei lei. Sei una parte di me. Sto parlando da solo”
“Non dire così. L’importante non è chi crediamo di essere, ma ciò che riceviamo dagli altri. Chiunque essi siano”
“La versione reale non avrebbe fatto della filosofia. Questo sono io”
“Non voglio che mi lasci…”

Sta sbiadendo. Le lacrime la sciolgono un po’ per volta, come se fosse un dipinto. Il cemento affoga nella sabbia. Il cielo cade.



Mi sveglio.
Il mutamento è impercettibile. Il velo sottile che separa la realtà dalla fantasia non è mai immobile. Sconfina in entrambi i territori, portando un po’ dell’uno nell’altro, e viceversa. Almeno per me.



Esco di casa e non ho pensieri. È una bella giornata.
Il sole scalda parecchio per essere ottobre, così decido di fare una passeggiata fuori porta.

Vedo gli alberi, le case, le strade e le persone risucchiate in un continuum che contempla sé stesso. Gli esseri umani sono come le cose, in fondo.
La gente è così prevedibile che se non sapessi di essere sveglio direi che sto ancora sognando. Voglio dire, guardateli: atteggiamenti, pattern comportamentali e semplici reazioni si ripetono in un’estenuante ciclicità, senza mai deviare dalla loro scontata reiterazione.
Le vecchie in bicicletta ti guardano quasi sempre con quell’espressione crucciata, i bambini hanno l’aria incuriosita, le ragazze sorridono e s’incupiscono a ritmi alterni, gli yuppie sono pensierosi, e chi va a spasso senza motivo si guarda intorno come se non sapesse dove andare; i corridori corrono; i cani starnutiscono, abbaiano e pisciano.
Oh, e poi ci sono gli immigrati e i barboni sull’orlo della disperazione più nera che siedono in pose sgraziate sulle panchine, e quando gli passi accanto erompono in furiosi insulti nella loro lingua. Li odio.
Il fatto che odi alcuni di loro non significa che odi l’intero Paese da cui provengono; mentre per alcuni di quei disgraziati vale proprio la regola opposta: ci odiano, noi ricchi, noi benestanti, tutti noi, anche chi non gli ha fatto niente. E ci idolatrano.
L’intolleranza non prescinde dal ragionamento, è una questione d’istinto. E chi non cede al richiamo di un impulso, di tanto in tanto?

Un paio di seminaristi incravattati mi sfilano accanto, colgo brandelli di conversazione.
“… certo che è un lavoro stressante, ma almeno ci sono le pause… guarda che vista, molto meglio di quell’ufficio del cazzo…”

C’è una nuova specie di tacchini sull’isola artificiale. Fanno il verso tipico dei tacchini, ma più acuto.
Direi che è arrivato il momento di rincasare, ho visto abbastanza; sono sazio.

Sedici minuti dopo

Infilo la mano in tasca e trovo… niente.
Cerco nell’altra. Cellulare, solo il cellulare.
Cazzo, ho dimenticato le chiavi. Non posso entrare in casa mia.

Ok, d’accordo, niente panico. Ci sono un paio di persone che hanno una copia. Ora chiamo quella più vicina.
Ora la…

Momento.

No, cavolo, perché la devo chiamare proprio adesso? Chi se ne frega. C’è un bel clima, ho con me dieci euro, me la caverò.

È incredibile come ti si acuiscano le percezioni quando esci dai canoni prestabiliti. Anche solo per fare due passi.
Innanzitutto, ti rendi conto di essere una creatura schematica e prevedibile, alla maniera di chiunque.
Poi, ti prendi il tuo tempo per respirare e smetti di comportarti come se fosse tutto scontato. Una città, per esempio, è qualcosa di fenomenale. Non esiste in natura, è stata costruita. Banale quanto volete, ma pensate a tutte le trasformazioni a cui sono andate incontro queste pietre, prima di diventare ciò che sono ora. Pensate a cosa diventeranno. Chi le ricorderà? Torneranno alla ribalta, un giorno?

Una musica che non sentivi da tanto tempo fa capolino nella tua testa, e non è una metafora, è proprio musica. Non ne ricordi il titolo, non la troverai mai su YouTube, non la inserirai nel tuo Ipod; forse ti accompagnerà per tutta la vita, senza che tu possa attribuirle un nome.
E di colpo svanisce quando passi davanti al negozio di caramelle, che riporta alla mente un vissuto di quella che per te è un’eternità, ma in realtà è solo un attimo, lo stesso attimo immobile.

Dopo un po’ realizzi che questa forma di animismo urbano in cui ti crogioli è solo l’euforia sottovuoto tipica del borghese agiato.
E poi ti contraddici, perché hai dimenticato l’ultima volta che hai visto un borghese allegro, e allora gioisci di nuovo.



Mi accascio su una panchina senza sapere che ore sono. Adesso sono io quello seduto sulla panchina, sono l’altro. Non sono più me stesso.
Una marmaglia di turisti mi scorre davanti, e ne fuoriescono due vecchiette che mi domandano in tono premuroso se mi sento bene.
“Si, sto bene, non sto avendo un attacco di cuore”
Intendiamoci, ho il fiatone, ma mi sento una favola lo stesso. Le ringrazio e quelle si fondono di nuovo con il gregge.

Mi domando se adottare un atteggiamento ricettivo possa produrre qualche cambiamento nella mia giornata. Ho ancora del tempo a disposizione, non mi trovo in un merdoso quiz televisivo; o forse è proprio lì che mi trovo. Il tempo residuo della giornata è il tempo residuo della mia vita.
Per atteggiamento ricettivo non intendo cose come attaccare bottone con gli sconosciuti oppure origliare le chiacchiere della gente. È più che altro uno stato mentale. Una convinzione. Vale anche per la magia.
Guarda le cose da una prospettiva differente, e le cose cambieranno; essere un lettore consapevole non significa affibbiare significati astrusi a termini semplici; vuol dire solamente evidenziare i passaggi che ti sono piaciuti di più.

Passano minuti e ore come formiche su un bastone.
Ho smesso di pensare, finalmente. Ho smesso di giustificare questa parentesi di consapevolezza, di esperienza, di percezione. Non è un incidente di percorso, e tantomeno un evento. È un niente soffocato di concetti.

Un ragazzo e una ragazza si siedono sull’altro lato della panchina.
Ridono e scherzano, e per la prima volta oggi mi sento davvero felice, e per la prima volta avverto un po’ di tristezza: è la prova che ho raggiunto un equilibrio.

“Ehi, ragazzo, che ne pensi di lei?”
“Dici a me?”
“Certo che dico a te!”
“Che ne penso della tua compagna?”
“Già”
“Onestamente non lo so, non la conosco”
“Di’ qualcosa lo stesso”
“Si, dai, dimmi qualcosa!”
“Vi siete drogati?”
“Che ti dicevo, Raffo? In questa città di merda sono tutti talmente alienati che…”
“No, no, ti chiedo scusa. Scusate. Io… mi fa piacere parlare con voi. Ma non sono bravo a valutare le persone”
“Dal tono in cui lo dici sembra falsa modestia, la tua”
“Non è falsa modestia. Ammetto di saper riconoscere le qualità di una persona… nel senso, le sue capacità, l’attitudine, le abilità, cose così”
“E allora che mi dici di lei?”
“È la prima volta che la vedo”
“Leggile la mano, fatti dire il suo nome e il suo segno zodiacale”
“Non sono mica un veggente!”
“Tranquillo, Raffo ti sta solo prendendo per il culo. Non è cattivo, Raffo, gli piace solo scherzare”
“Ah… ok”
“Sembri più sereno. Cioè, quando ti ho rivolto la parola eri tutto, sai… un robottino con una scopa in culo”
“Non mi capita spesso di parlare con degli sconosciuti”
“Ci conosciamo da quasi due minuti, non siamo più tanto estranei. Diglielo anche tu, Andre”
“Sta scherzando, sta scherzando. Neanche noi abbiamo l’abitudine di parlare con il primo tizio che vediamo per strada”
“Oh, bene. Questo è rassicurante”
“In effetti abbiamo parlato con cinque o sei sconosciuti, prima di venire da te”
“Questo lo è un po’ meno”
“La verità è che ci siamo fatti una scorpacciata di funghi”
“Funghi delle Alpi”
“Ricetta casalinga?”
“Funghi allucinogeni, scemo!”
“Allora vi siete drogati!”
“Non è esattamente come drogarsi…”
“Si, ci siamo drogati. La cosa ti spaventa?”
“No, è che… insomma, non capisco perché uno debba incasinarsi la testa con quella roba. La vita è già abbastanza stupefacente di suo, non è per fare il moralista o che altro, oltretutto mi faccio sempre una birra o due, la sera…”
“Non preoccuparti! Non vogliamo mica corromperti!”
“Un po’ ci speravo, in tutta onestà”
“Sei un tipo perverso, solo che non lo sai. Ci piaci molto. La tua perversione…”
“…è molto naturale. Il fatto che non te ne rendi conto non la rende meno interessante… in realtà sei in pace con te stesso… Il problema sono gli altri
“Qui mi si sta psicanalizzando…”
“Ti andrebbe di farlo? Di fare l’amore… con noi?”
“Cosa?”



La camera è ariosa e pulita, un po’ di sole filtra ancora tra le persiane.
Raffaele si spoglia senza vergogna e piega ordinatamente i vestiti, riponendoli sopra una sedia. Andrea invece lo fa dandomi le spalle.
“Non potrei...? Sentite, non sono più tanto sicuro. Insomma, non potrei guardare e basta?”
“Eh, no, hai promesso e adesso devi tenere fede alla parola data!”
“Io non ho promesso niente…”
“Andrea, non importa. Se vuole guardare e basta, lascialo guardare. Non possiamo obbligarlo. E poi, è la prima volta che lo faccio mentre qualcuno mi guarda, voglio sapere che si prova”

Mi piace l’idea di essere lì, complice della loro nudità.
Raffaele si stende e Andrea gli si siede accanto. Sono così tranquilli. Non si direbbe che vogliano fare sesso, sembra quasi che rimarranno lì, l’uno accanto all’altra, a tenersi compagnia senza toccarsi.
Allora lui le appoggia una mano sul ventre, e la fa scorrere fino alla pancia. Sento il calore nascere lentamente nella testa, nel cuore e un po’ più in basso.
Si accarezzano con calma e respirano profondamente come se soffiassero sulle braci. Il ritmo del nostro respiro ci avvicina.

Dopo un po’, Raffaele si scosta.
“Mi dispiace, mi dispiace, non ci riesco se mi guardano. Scusate, davvero”
Andrea mi lancia uno sguardo mortificato.
“Non è che non ce la faccio… Siamo adulti, non dobbiamo vergognarci di niente…”
“Qui l’unico che si vergogna sei tu”
Andrea stende caritatevolmente la coperta su di loro.
“Dai, vieni da me. Ho già subito abbastanza rifiuti, per oggi”

Rimangono lì sotto per un po’. Vedo qualche movimento che increspa la superficie della coperta, e li ascolto parlottare con aria cospiratoria.
Di colpo mi sento così stupido, seduto in una camera d’albergo insieme a una coppia che fa l’amore di nascosto.
È ridicolo. La domanda non è ‘qual è il senso?’, ma piuttosto ‘cosa ci faccio io qui?’.
Penso di andarmene, uscirò senza fare rumore.

Proprio in quel momento, Andrea emerge dalle coperte coprendosi il seno in un gesto pudico.

“Sei sicuro… di non voler venire anche tu?”

Il tempo di un istante e sono lì con loro.
Mi piace questa sensazione, perché nessuno di noi fa sul serio: è come un gioco infantile. Il contatto con il corpo di Raffaele non mi provoca eccitazione, ma nemmeno ribrezzo; siamo due ragazzini che si rotolano insieme alla loro amica del cuore. Lei, invece, mi suscita qualcosa di totalmente diverso.
È sotterraneo, elementare. Serpeggia nel mio corpo e non capisco dove finisce l’appagamento e dove inizia la dipendenza.

Abbiamo tutto il tempo del mondo, noi siamo il mondo.
Il nostro è un viaggio, un pellegrinaggio che ci avvelena come una droga non potrà mai fare. Respiriamo il nostro fiato e rincorriamo il reciproco piacere.
Più li tocco e più sento di conoscerli in un modo che le parole faticano a descrivere.



E poi sono le cinque di mattina, e Andrea dorme. Io e Raffaele guardiamo svanire il fantasma della luna.

“Ah, che mal di testa”
“Io mi sento bene”
“Perché non hai mangiato quelle schifezze allucinogene”
“Probabile”
“Abbiamo fatto una cosa un po’ matta. Non so se voglio ripetere l’esperienza”
“Per me è stato bello”
“Anche per me. Solo… ho paura che possa degenerare”
“Non preoccuparti delle possibilità. È l’insegnamento più importante che abbia acquisito nei miei ventitré anni di vita”
“Allora devi meditare di più!”
“Medito anche troppo!”
“Insomma, che ne pensi di lei?”
“È solare, sincera e mentalmente aperta”
“Lo dici perché ci hai fatto sesso, oppure lo credi davvero?”
“Può darsi che mi illuda, ma mi piacerebbe ricordarla così”



Ora cammino nel sole nascente e ripenso al sogno che ho fatto ieri notte. Se non sbaglio c’entrava un film, si… The Nightmare Before Christmas.
Mi ha sempre affascinato la scena in cui Jack cammina nella foresta, perdendo poco a poco la cognizione del tempo: senza una transizione apparente, passa dallo stato di veglia a quello di sonno, ma nella realtà lui continua a camminare, ed è un po’ come se stesse muovendo i primi passi nel reame dei sogni.

Potrei tornare a casa, ma non ne ho nessuna voglia.
Non oggi.




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