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Disclaimer: Questa storia è
stata scritta per puro diletto
personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui
descritto e i personaggi rappresentati sono copyright
dell’autrice (Nocturnia) e non ne è ammessa la
citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite
permesso scritto.
Apricor
Addakra constatò, leggermente basita, che era già passato
un mese da quando erano giunte nella locanda dei Tre Picchi.
Con i piedi immersi nel fiume che attraversava la campagna vicina,
alzò il viso a un sole tiepido e mitigato dal vento fresco.
Gettò un'occhiata alla cittadina: nient'altro che un pugno di case, una locanda e qualche fattoria.
La pupilla uncinata di cui gli dei le avevano fatto dono scorse Dyen appoggiata a Joric, che le baciava la tempia.
La sua allieva e il cuoco dovevano avere più o meno la stessa
età e non era stato difficile capire cosa provasse Dyen per lui.
Si cercavano di continuo e, persino dopo gli allenamenti, Joric
l'accoglieva come se fosse stata la più bella delle ragazze.
Più di una volta li aveva trovati in cucina, mani imbiancate
dalla farina e qualche nuovo dolce di Joric sul tavolo, creato
appositamente per Dyen.
Le regalava fiori, poesie, persino qualche vestito o qualche gioiello di bassa oreficeria.
In soli poco più di trenta giorni le aveva fatto una corte
spietata e al contempo morbida, le labbra di Dyen sorridere sempre
più spesso.
La sorprendeva fissare il soffitto della stanza e sospirare, svenevole come una ragazzina di dodici anni.
"Non è bellissimo?"
Addakra le aveva dispensato uno sguardo a metà tra l'annoiato e il beffardo.
"Chi? Quel ragazzino?" aveva dichiarato sorridendo
Dyen aveva colto lo sfavillio del sarcasmo nell'iride cremisi di Addakra e si era imbronciata
"Joric. Si chiama Joric. E poi..."aveva sostenuto petulante "Tu non sei mai stata innamorata, Addakra?"
La ferae si era contratta, continuando a mangiare il petto d'anatra come se niente fosse.
"Addakra?" l'aveva incalzata Dyen alzando un sopracciglio
"Una volta." aveva confessato la cacciatrice "E non era certamente un poppante, ma un uomo."
"E com'era?"
Addakra spostò di lato il
piatto vuoto, afferrando quello ancora pieno a metà di Dyen e
cominciando a razziarlo delle patate.
"Non sono affari tuoi." aveva berciato masticando.
Dyen si era ripresa indietro la sua portata, piccata.
Dopo qualche minuto di silenzio, la ferae aveva sospirato rumorosamente, versandosi una generosa coppa di vino:
"Aveva due lustri più di me. Ed
era un uomo: nella forma, nei modi, nei pensieri." aveva alzato i suoi
occhi scarlatti su Dyen, quasi gemme sanguinolente "La vita con lui non
era sempre facile, ma era appagante. Almeno per me."
"E adesso dov'è?"
La ferae non aveva mosso un muscolo,
ma se avessi potuto guardare all'interno, avrei visto il suo cuore
contrarsi in maniera furiosa e infine franare tra le ossa del costato.
"A Indantium.." era stata l'unica
risposta che Dyen aveva ottenuto, quel pallido momento di armonia
stemperarsi e interrompersi nella risata improvvisa di Joric e nel
nuovo tortino che, zelante, aveva deposto sul loro tavolo.
Sulla cima, svettava una piccola rosa bianca, dolcissima al palato.
Quando però Addakra dette il primo morso, le sembrò di sentire il sapore del fiele.
Si era persino concessa di perdere qualche giorno a studiarlo, quel
ragazzo: all'inizio aveva pensato fosse uno stupido, che scivolava
inerte sulla china della vita, troppo superficiale per comprendere
appieno la visceralità di quel mondo.
Ma poi, si era dovuta ricredere.
Quella che aveva scambiato per banalità era invece una forma
salda e sicura di accettazione: della vita, dei suoi oneri, della
natura di Dyen.
Ricambiava i suoi baci e le rendeva tutto facile, dolce.
Vellutato.
La stucchevole benevolenza del primo amore, aveva decretato amara.
C'era stato un punto zero anche per lei.
Quando l'aveva visto combattere, una
macchina bellica perfettamente funzionante, aveva sentito un languore
intorpidirla, l'istinto primordiale di sentire che sapore avesse la sua
pelle.
Osservava quelle mani, piene di cicatrici e ruvide al tatto, e si scopriva insensibile al sangue che le aveva macchiate.
Perversamente, ne era rimasta affascinata.
Ferina, aveva voluto che prendesse il suo, di sangue.
Nei cinque anni che avevano condiviso, furono gli ultimi due a unirli veramente, nella tela indecifrabile dell'amore.
Zanor era un predatore, ma Addakra non si poteva dire fosse una preda: semmai, un suo pari.
Di lignaggio nobile, dalla lingua
velenosa e gli occhi ungulati dei ferae, gli si poneva al fianco come
una donna dal profumo del sangue.
Per lui, una piccola palla di carne nato dal ventre di una puttana di Albir, Addakra aveva i colori di una maledizione.
La guerra l'aveva cresciuto e l'indifferenza della gente l'aveva temprato.
La stessa indifferenza a cui era stata
sottoposta Addakra, la cui vita era stata risparmiata solo per i fiumi
di piastre d'oro che, inesorabili, erano scivolate tra le dita dei suoi
genitori per rabbonire una città che l'avrebbe volentieri
condannata al rogo.
Fu in una notte gelida che l'accolse
nel suo letto, il desiderio un languore famelico che divenne poi un
amplesso rovinoso e brutale.
Era sangue e carne, un morso ferino tra le cosce e un calore improvviso al ventre.
Era il modo d'amare di un uomo come Zanor, il marchio con cui definiva ciò che era suo, per diritto e per dovere.
Quando il tutto era giunto a una
conclusione, Addakra l'aveva fissato a lungo, trovando sulla propria
pelle lo stigma di un amore che aveva cercato e voluto.
Un amore crudo e puro, nella sua forma selvaggia.
Silenzioso, la squadrava in tralice,
un urlo muto incatenato nella gola, le iridi di ghiaccio bloccate sul
nastro lucente di sangue che le scivolava oltre la clavicola, fino al
seno.
Una bestia: nient'altro che una bestia, il figlio deforme di una puttana.
D'altronde, cos'altro poteva essere, se non un abominio?
Gliel'avevano urlato tante volte per le strade, nelle taverne, lanciandogli sassi e uova marce.
Si era mosso per alzarsi, allungando
una mano verso i pantaloni, ma Addakra gli si era avvicinata di nuovo,
circondandolo con le sue lunghe gambe, accogliendolo, ancora.
Zanor aveva letto nei suoi gesti, nei suoi occhi, la comprensione.
E il lupo si era infine ammansito.
"È una bella giornata, vero?"
Addakra non aveva alzato nemmeno lo sguardo, limitandosi a storcere le labbra in una smorfia sarcastica.
"Vuoi fare conversazione, Asuli?" aveva ribattuto, insistendo sull'ultima parola.
Dalla pronuncia, ruvida e aspra, pareva quasi un insulto.
La donna aveva scrollato le spalle, sedendosi al suo fianco e spostandosi la gonna sotto le ginocchia.
"Chiamala come vuoi, bronnen."
Per alcuni minuti erano rimaste in silenzio, avvolte nelle rispettive idee, sensazioni.
"State per partire, vero?"
"Cosa te lo pensare? Ho pagato per un altro mese, se non sbaglio." aveva risposto la ferae
Un sorriso mite era comparso sul viso di Asuli.
"Non rimani mai a lungo in un posto, bronnen. Me lo dicono i tuoi
gesti, i tuoi sguardi spazientiti e avidi di guerra e sangue. Me lo
dicono il fango che trovo sotto i tuoi stivali ogni mattina e le bende
intrise di plasma che cerchi di nascondere a Dyen."
Addakra l'aveva, finalmente, guardata, sotto le lunghe ciglia un baluginio spaventoso e furibondo.
Asuli non si era scomposta, ampliando invece il sorriso.
"Con me non funziona, bronnen. Puoi farmi quello sguardo per tutto il
tempo che vuoi, ma non mi rimangerò quello che ho detto. Forse
mi ritieni debole e ignorante, ma crescere un figlio in un mondo come
questo ti tempra."
"È da idioti."
"È da chi ha ancora una speranza."
La ferae le aveva piantato gli occhi addosso, sulla bocca un sorriso sgradevole, privo di ogni allegria.
"La speranza è una stronzata. Fare figli a Matarisvan è
una stronzata. Muoiono, come tutto in questo posto del cazzo."
Asuli aveva taciuto per alcuni istanti, prima di espirare bruscamente.
"Senza futuro non ha alcun senso continuare, bronnen. "
"So badare a me stessa anche senza i tuoi consigli."
Le sopracciglia di Asuli si erano aggrottate in una piega irritata e,
per la prima volta da quando conosceva quella donna, durissima.
"Tu sai combattere. Sai uccidere. Io non temo che tu non sia in grado
di sopravvivere, ma che non voglia farlo. Bruci bronnen e nel tuo fuoco
non puoi trascinare tutti noi. Non Dyen."
Eccoci al punto. Dyen. aveva pensato Addakra, stornando l'iride e catturando il riflesso di un pesce che guizzava nell'acqua.
"È per il cuoco, vero?"
"Joric." la redarguì Asuli "Ha un nome, sebbene tu ti ostini a non darlo a niente che non sia sofferenza o dolore."
Addakra alzò la mano e gesticolò, come a scacciare un insetto fastidioso.
"Dare un nome alle cose non ne cambia la sostanza. Sei preoccupata che Dyen lasci solo il tuo Joric."
Asuli si era alzata in tutta la sua imponente mole, scrollandosi il vestito e pettinandosi i capelli ramati con le dita.
"Invece cambia, Addakra. Cambia tutto. Il nome delle cose è solo
il confine in cui chiudiamo i nostri pensieri. Nel nome riposa la
realtà. Riposa chi siamo veramente. Cosa siamo davvero, oltre la
pelle e il riflesso distorto datoci da altri."
La ferae l'aveva squadrata mentre scendeva il piccolo pendio, per poi
sparire tra la gente di Shunal, colori e profumi che la stordivano
quasi.
Nel nome riposa chi siamo.
Addakra. L'aveva chiamata Addakra. Non bronnen o ferae, ma Addakra.
Si era voltata, stringendosi le ginocchia al petto e inspirando profondamente.
Forse era tempo di dare un nome anche alla sua ossessione.
Al suo destino.
Quella sera, quando avevo salutato Joric con un bacio a fior di labbra
e un sorriso, affrettandomi verso le scale, non potevo sapere della
conversazione tra Asuli e Addakra.
Non potevo sapere di una coscienza anestetizzata da troppo tempo e di un cuore che aveva ripreso a battere.
Non potevo sapere e non ero in grado di comprendere, poiché
l'amore che nutriva le mie giornate era stato generoso di sensazioni e
di illusioni.
L'amore, d'altronde, è solo una rara forma di generoso egoismo.
Addakra mi venne incontro a metà strada, nella sua pupilla verticale tutta la determinazione dei guerrieri.
Inghiottii un rigurgito acido quando notai lo zaino e l'armatura perfettamente indossata.
Con una mano guantata mi tese le chiavi della camera, imperiosa:
"Vestiti e preparati. Partiamo stanotte."
"Perché?" riuscii a esalare, attonita.
"Ho identificato un nucleo della legione di Moloch, il Signore dei demoni, poco lontano da Eshpond. Li dobbiamo prendere."
"No." mormorai deglutendo "Non... non adesso."
Non mi aveva neppure guardato in faccia, si era limitata e scansarmi e a scendere verso la sala inferiore.
"E quando, Dyen? Quando avrai dei pargoletti a cui badare? Quando non
avrai più pavimenti da lavare? Quando Joric te lo
permetterà?" si era inclinata verso di me, nella pupilla una
scintilla crudele, atroce.
Inumana.
"Scegli cosa essere, ragazzina: preda o cacciatrice?"
L'ho odiata.
Adesso, con assoluta certezza, posso dire di averla odiata durante tutta quella lunga marcia verso nord.
Avevo detto addio a Joric con il cuore a pezzi, i suoi occhi castani coperti da un velo di lacrime.
L'avevo abbracciato, promettendogli che sarei tornata.
"Tornerò Joric, te lo giuro." avevo articolato a fatica
"Ne sono sicuro..." mi aveva replicato sospirando sulla mia bocca "Sei una cacciatrice, sarebbe sciocco pensare diversamente."
Come aveva già capito prima di me Addakra, Joric possedeva il
buonsenso e la praticità dell'uomo adulto, sebbene contasse solo
qualche anno più di me.
Per lui, amare significava accettare in toto la persona che si
sceglieva di tenere al proprio fianco, con i suoi spigoli e le sue
crepe.
E aveva scelto me.
Quando giacevo sulla terra nuda, al freddo, con la sola compagnia dei
ricordi e il grattare delle unghie demoniache in lontananza, erano le
labbra di Joric a tenermi caldo.
Era la scoperta di un universo in cui mi era permesso solo tendere le
dita, incerte, cercando di non inciampare su di un ammasso di rovi.
Era il fuoco di un primo amore che non voleva saperne di estinguersi e
che, a differenza di Addakra, mi dava una ragione per vivere.
Non potevo sapere che, quel fuoco, Addakra l'aveva già
sperimentato sulla propria epidermide e che ne portava le cicatrici.
Non potevo comprendere che, dietro quei modi bruschi, quei sorrisi che
erano solo zanne e quella crudeltà misurata, vi era il tentativo
estremo di salvarmi.
Perché Addakra sapeva già verso chi e cosa stavamo andando.
Sapeva che era meglio avvampare e poi estinguersi, spegnersi tra quelle memorie e quei rimpianti.
Ed era quello che stavo per imparare.
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